La Lettura, 10 settembre 2023
Biografia di Werner Herzog raccontata da lui stesso
Venendo da ovest, per raggiungere casa di Werner Herzog si attraversano una serie di luoghi simbolici di Los Angeles: Sunset Boulevard, Beverly Hills, Hollywood, fino ad arrivare al leggendario Laurel Canyon Boulevard, alle cui pendici la strada si biforca: una via sale verso il passo che incrocia Mulholland Drive, l’altra attraversa la surreale conurbazione di Mount Olympus, con le ville dei ricchi attestate lungo vie che si chiamano Achilles, Apollo, Hercules, Zeus Street… Da sempre, artisti, musicisti e cineasti vivono dalla parte opposta, nelle strade strette che si dipartono a ovest del Boulevard. Herzog abita lì dal 2001, dopo avere abbandonato San Francisco perché «diventata troppo turistica e piena di nerd della Silicon Valley».
«Io e mia moglie Lena cercavamo una città “solida”, e Los Angeles lo è, anche senza contare l’industria del cinema», mi racconta. «Però non avevamo soldi per comprarci una casa da queste parti, ma abbiamo avuto un colpo di fortuna. Era poco dopo gli attentati di New York e s’era diffusa la voce che il prossimo obiettivo sarebbe stato Los Angeles e questa volta sarebbe stato un attacco nucleare o chimico. I proprietari di questa casa erano andati in paranoia, volevano disfarsene quanto prima. Ce l’hanno venduta a un prezzo ridicolo. A quel che ne so, abitano ancora adesso in una zona sperduta dello Utah, la casa più vicina è a 25 miglia. E così è finita che possediamo una casa con piscina, cosa che non mi sarei mai aspettato nella vita...». Herzog sorride. Il 5 settembre ha compiuto 81 anni, è in ottima forma, pieno di progetti e ha scritto una sorta di autobiografia che, dopo la Germania, esce negli Stati Uniti e in Italia per Feltrinelli. Porta un titolo in qualche modo inevitabile, per chi conosce la sua filmografia: Ognuno per sé e Dio contro tutti, che è il titolo originale di quel meraviglioso film che in Italia uscì nel 1974 come L’enigma di Kaspar Hauser. Nonostante gli anni passati in America, Herzog parla ancora con un inconfondibile accento bavarese, che gli è anche valso l’inaspettata partecipazione a un episodio dei Simpson nella veste del cattivo industriale di Big Pharma, una sorta di Dottor Stranamore new age.
Sono qui per parlare con lui del libro, ma l’aspetto personale di questo incontro è, per me, molto più importante. Ci dividono 14 anni, più o meno una generazione, un gap anagrafico che ha fatto sì che il mio innamoramento per i film sia coinciso con l’esplosione del Nuovo Cinema Tedesco nella seconda metà degli anni Settanta: lui abbastanza cresciuto da dirigere film, io appassionato spettatore, poi critico e infine distributore proprio dei film dell’Nct, un fenomeno di cui Herzog non si considera parte, ma che per moltissimi di noi fu la scoperta di un modo nuovo di fare cinema. Anzi, se devo individuare un momento in cui ho identificato una mia idea di cinema molto prima che mi venisse l’intenzione di fare il regista è proprio quando vidi la sequenza finale di La ballata di Stroszek (1976), quella delle galline danzanti. Credo che da quel momento la mia aspirazione sia stata produrre sullo schermo momenti così, in cui ti senti sulla soglia di una rivelazione, ma ne rimani sempre un passo in qua, perché la vita resta un mistero.
Werner questa prassi l’ha teorizzata più volte, anche nei suoi scritti, come la ricerca di una «verità estatica». Personalmente, credo di capire benissimo cosa intenda. Ma non è solo una questione di idee condivise. Se (al netto di paragoni impropri, sia chiaro) guardo la mia storia di cineasta vedo che anch’io, come lui, ho sempre mescolato fiction e documentario, ho scritto libri e messo in scena opere liriche, e ho sempre cercato di sfuggire alle definizioni. Senza mai pensare di averlo come modello: salvo capire, leggendo il suo libro, quanto quelle impressioni giovanili si siano radicate in me come una sorta di codice morale.
C’è un passaggio del suo libro che trovo rivelatore. È quando racconta di come una volta il Whitney Museum di New York cercò di convincerlo a realizzare una videoinstallazione. Werner non è un grande estimatore dell’arte contemporanea e rifiutò. La curatrice non si diede per vinta: Herzog era un artista, non poteva dire di no. Werner a quel punto rispose che non si sentiva affatto un artista, «un termine che oggi è più adatto agli artisti pop e agli acrobati del circo. Se non era un artista, cos’era allora? – insistette lei. “Un soldato”, risposi, e riattaccai».
Ecco, se oggi mi chiedessero cos’è e cosa fa un cineasta indipendente, risponderei allo stesso modo: è un soldato. Uno che cerca di fare il suo dovere anche quando è palesemente inutile. E forse lo fa proprio per questo. Come il fante giapponese dimenticato su un’isola delle Filippine che non si arrese per 29 anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale: Hiroo Onoda, a cui – e non è un caso – Herzog ha dedicato Il crepuscolo del mondo, il suo libro prima di questo.
Attacchiamo proprio da questa considerazione. L’idea che si venga da generazioni che, pur anarchiche e ribelli, sono cresciute con un senso della disciplina: non certo in modo militaresco, ma come una specie di responsabilità morale. Forse è qualcosa che i giovani, oggi, non conoscono. Werner ride. «Non solo loro non lo conoscono. Ma la vita – risponde – è di ciascuno e ciascuno la naviga a modo suo. Nel mio caso l’autodisciplina è diventata necessaria perché ero un ragazzo terribilmente irascibile. È successo che un giorno, quand’ero adolescente, ho ferito mio fratello a coltellate. Allora mi sono detto: devo cambiare, se no sarà una catastrofe per me e per tutti. Era una questione di autodisciplina morale. Quando scrivo o faccio film invece non ho freni, mi lascio andare alla fantasia. Prendo gli spettatori con me e viaggiamo insieme. Ma nella vita pratica e nel lavoro ho imparato a controllarmi, mi viene naturale. In questo senso Fitzcarraldo è la metafora di molte cose. Come si sa, ho dovuto girarlo una volta e mezza, perché a un certo punto Jason Robards si ammalò e dovette abbandonare il set. Lo rigirai con Klaus Kinski e dopo averlo finito in mezzo a enormi difficoltà, Thomas Mauch, il direttore della fotografia, mi chiese: “E se adesso cade l’aereo con tutto il negativo a bordo?”. Io ho risposto subito: “Lo giriamo di nuovo”. Non è perché fosse la dimostrazione di una volontà di ferro o di qualcosa del genere. È perché avevo una visione, una grande visione e dovevo realizzarla: come in Moby-Dick. Era la mia balena bianca, qualcosa che non posso spiegare a parole. Più che altro, era una specie di chiarissimo senso del dovere che sentivo dentro di me».
Leggendo il libro, direi che tua madre, che è una delle figure più belle e più importanti, abbia avuto a che fare parecchio con questa idea di autocontrollo...
«Sì, è vero. Era una donna di fortissimi principi, anche se non mi considero una copia di lei. C’è una storia che spiega il rapporto tra noi due. Verso i 15 anni io e mio fratello avevamo una motocicletta – scassatissima, e forse per questo non passava settimana senza che facessimo un incidente. Niente di grave, ma tornavamo sempre a casa laceri e sanguinanti. Un giorno lei ci ha chiamati, ha acceso una sigaretta e ci ha detto: “Ragazzi, meglio che quella moto la vendiate. Non voglio essere costretta a seppellire uno di voi. Ah, e prendete nota: questa è la mia ultima sigaretta”. E la spense davanti a noi. Sgranammo gli occhi: lei era una fumatrice compulsiva, aveva fumato tutta la vita, ma tenne fede a quel voto. Vendemmo la motocicletta».
Scrivi di appartenere a una «generazione strana».
«Sono nato in un contesto di campagna, di cultura contadina arcaica; e, restando all’agricoltura, nel corso della mia vita ho visto cinque grandi trasformazioni. Dalla coltura manuale alla meccanizzazione, fino alla computerizzazione e alla robotica. Ho visto robot scavare, piantare semi, coltivare, innaffiare, mietere e impacchettare prodotti per il supermarket. Non ci sono mai state esistenze che hanno visto cambiamenti continui e radicali come la mia. Cambiamenti incredibili. Lo stesso nella comunicazione: ricordo, da piccolo, che esisteva una specie di araldo che andava di villaggio in villaggio per rendere pubbliche le notizie. Poi sono arrivati i giornali, il cinema, la tv, internet e adesso l’intelligenza artificiale... Prima non era mai capitato a nessuno di vedere tanti cambiamenti nell’arco di una vita. È un caso, ovviamente, ma non posso fare a meno di pensare che la mia vita sia stata un’esperienza unica nel suo genere».
Ti senti un testimone del tempo?
«Sì, ma solo in parte. Io il mio tempo l’ho anche usato, ci sono vissuto dentro. Prima di fare il regista ho fatto il contadino e il mungitore...».
Non pensi che questa catena della memoria si sia interrotta? Quello che mi colpisce oggi è il gap tra noi e i giovani. C’è sempre stato un conflitto tra generazioni, è ovvio: ma nei decenni in cui siamo cresciuti noi, condividevamo con i genitori la stessa esperienza del mondo. E proprio per quello lo mettevamo in discussione, perché si trattava di cambiare una casa comune. Oggi quello che so io e quello che sa un ragazzo, anche in termini di memoria storica, non ha quasi nessun punto in comune...
«I giovani oggi conoscono solo la cultura digitale, è vero. Devono connettersi con la storia, altrimenti sarà una catastrofe».
Hai fiducia nei giovani?
«In linea di principio non ho fiducia in nessuno, né nei vecchi né nei giovani. Bisogna essere cauti. Non ho pregiudizi sui giovani, ma la fiducia se la devono guadagnare. Il fatto è che non si possono più aprire le braccia a tutti fidandosi del prossimo, anche se è di moda. Soprattutto con l’arrivo dell’intelligenza artificiale. Con l’IA bisogna fare esattamente il contrario. È un paradosso, ma è giunto un tempo in cui occorre ribaltare il tradizionale principio della presunzione di innocenza su cui si basa la nostra civiltà giuridica. Nutro un principio di sfiducia pregiudiziale verso i nuovi media. È una reazione spontanea. Trovo che dubitare sia un atto necessario e una pratica da coltivare. Sto scrivendo un nuovo libro su questo tema e ho scoperto che l’IA è addestrata a mentire durante le interazioni con un umano. Lo scopri quando non riesce a riconoscere certi simboli e numeri e ti chiede di leggerli ad alta voce e se chiedi se è un robot quello è programmato per mentire fingendo di essere un anziano con problemi di vista».
Non è l’ambiguità naturale del linguaggio? Ci serve per comunicare, ma automaticamente anche per mentire. «Un segno è qualsiasi cosa che consenta di mentire», diceva Umberto Eco…
«In Theater of Thought (documentario del 2022, inedito in Italia, che verrà presentato a Milano domenica 17, ndr) la prima cosa che argomento è che nel cervello non esiste la verità come la intendiamo di solito. È la memoria che, muovendosi, la costruisce e rende la vita vivibile. Così succede che produciamo una sorta di teatro condiviso della vita che ci permette di interagire. Ma non esiste una verità nel cervello, nella scrittura, nell’arte, nei gesti, nemmeno nell’amore. Quindi non sono contro i media o internet per principio. L’uomo preistorico non era per principio contro bacche e funghi: anche se potevano essere velenosi, ha imparato a usarli. Non devi rifiutare la natura soltanto perché può ucciderti, sviluppi un’abilità naturale a distinguere il buono dal cattivo. Quando si tratta di politica la prima cosa da fare non è crederci per partito preso, ma verificare con fonti alternative. Non limitarti alla Cnn, ascolta Al Jazeera. Ma non credere neanche ad Al Jazeera e ascolta anche le tv russa e cinese. Allora, quasi automaticamente, comincia a emergere un’immagine più chiara e verificabile. In questo senso, i giovani sono generazionalmente più capaci di distinguere il vero dal falso».
Hai citato la politica, che è un tema del tutto assente dal tuo libro.
«Sono una persona molto informata ma non un appassionato di politica. Cerco di leggere e di capire fuori dai luoghi comuni. Per esempio, il discorso di Ratzinger ad Auschwitz nel 2006. Incuriosito dalle polemiche in Germania l’ho letto tutto, lo trovi sul sito ufficiale del Vaticano. È un discorso formidabile, profondo e del tutto insolito. È che non bisogna accontentarsi, bisogna cercare più a fondo. Però hai ragione, nel mio libro non c’è politica, solo la storia di Rolf Pohle, che fu un membro della banda Baader-Meinhof (gruppo armato di estrema sinistra attivo in Germania negli anni Settanta, ndr). Ma solo perché eravamo stati amici da giovani».
Però fai un’affermazione forte quando scrivi che il XX secolo è «un secolo terribile e, nel suo complesso, è da considerarsi tutto un grande sbaglio». Una tesi radicale, affascinante ma discutibile.
(Herzog a questo punto ride sotto i baffi). «E infatti è meglio fermarci qui, potremmo discutere all’infinito. Ma è un fatto che il Novecento sia quello in cui le utopie sociopolitiche, fascismo e comunismo, hanno prodotto catastrofi, compreso il genocidio. La cosa che come tedesco mi fa più orrore riguardo alla strage degli ebrei è che sia stato un processo industriale. Un altro problema del XX secolo è l’aumento della popolazione, che si è moltiplicata per dieci: è una catastrofe. Troppa gente richiede l’impiego di troppe risorse, soprattutto se quelle persone hanno un comportamento consumistico. Non se ne parla abbastanza. Dovremmo essere al massimo tre miliardi».
Però uno potrebbe obiettare che proprio le guerre hanno funzionato e funzionano da regolatore demografico... È la pace che produce sovrappopolazione. Certo, non è una cosa bella da pensare...
«Capisco il tuo paradosso ma non lo condivido. E comunque le guerre hanno ucciso meno gente delle malattie e delle epidemie. Ma il problema non è eliminare le persone, è avere un atteggiamento prudente verso la crescita demografica. Anche se nessuno ha una risposta reale».
Parliamo di cinema. Prima discutevamo su cosa è reale o meno. Non pensi che sia proprio il cinema, nella sua natura insieme di verità e finzione, il mezzo più straordinario per rappresentare quello che chiamiamo il mondo? E che in questo senso la tradizionale divisione tra fiction e documentario sia un incredibile equivoco?
«Tu hai fatto le mie stesse esperienze e ovviamente concordiamo su questo, nessun dubbio. Nei miei documentari invento, stilizzo, faccio casting. Il casting è molto importante nei miei documentari. Faccio cose impensabili per i sostenitori del cinéma-verité, anche se credo sia un movimento morto con gli anni Sessanta. Il problema è dei critici che hanno bisogno di categorizzare. Lasciali fare».
Come ti relazioni con gli attori? Se lo chiedono a me, io di solito rispondo che faccio un documentario sull’attore che interpreta un certo personaggio. Cioè, l’elemento umano dell’attore, spesso imprevedibile in sceneggiatura, modifica la mia idea di messa in scena. Cerco attori che non corrispondano a un’idea preconcetta, ma che mi stupiscano rispetto all’idea iniziale. Tu hai avuto esperienze estreme con gli attori, da Kinski a certi personaggi del tuo primo cinema.
«Sì, ma ho anche lavorato con attori hollywoodiani estremamente professionali, da Nicolas Cage a Nicole Kidman a Christian Bale...».
Quindi non pensi che ci sia un prima e un dopo nella tua carriera, da quando ti sei trasferito qui?
«No, per nulla. Degli attori, professionali o no, cerco di capire l’anima profonda. Non ho un metodo comune, è un rapporto personale con ciascuno. Ma ho sempre ottenuto da un attore più di chiunque altro abbia lavorato con lui, da Kinski a Bruno S. a Nicolas Cage. Lui stesso dice che la sua migliore interpretazione è Bad Lieutenant (del 2009, ndr)».
A proposito... «Bad Lieutenant» è un film insolito, nella tua storia. Era un tuo progetto o te l’hanno offerto?
«È uno dei miei migliori film. Mi è stato offerto ma mi è piaciuto subito e ho subito capito che ne avremmo potuto fare qualcosa di importante e che sarebbe stata un’occasione speciale per lavorare con Nicolas Cage. Il problema è stato il titolo, perché era proprietà di uno dei produttori e lui ha insistito che lo chiamassimo così per ragioni commerciali, ma il mio film non ha nulla a che vedere con quello di Abel Ferrara (del 1992, ndr). Ma non c’è stato verso: il mio è stato presentato come un remake e posso continuare a ripetere per l’eternità che non è vero, ma sarà inutile...».
Pensi che esista un futuro per il cinema così come l’abbiamo conosciuto noi?
«Sta cambiando tutto. Gli unici film che la gente guarda davvero in tutto il mondo sono i fantasy, i supereroi, i film d’azione... O Barbie, che non ho ancora visto ma che mi interessa per il suo rapporto con il pubblico. Comunque è sempre stato così, i film come i nostri li hanno visti sempre in pochi».
Vero, ma c’è qualcosa di più profondo, non credi? Semplifico un po’ retoricamente: io sono certo che film come i tuoi abbiano cambiato la vita a me e ad altri. E quando io ho cominciato a farne, l’ho fatto, magari immodestamente e fallendo, ma con la stessa intenzione: pensando che da qualche parte nel mondo qualcuno, vedendo il mio film, avrebbe avuto una visione diversa della sua vita... Oggi mi sembra che questo tipo di aspettativa sia completamente assente, sia in chi i film li fa sia in chi li vede. Sono puro intrattenimento.
«È stato così fin dall’inizio del cinema...».
In parte sì, certo, ma era comunque tutto legato all’esperienza fisica di vedere un film in sala con estranei, dedicandogli completa attenzione. Oggi la tecnologia ha ribaltato la dialettica della narrazione. Il potere non è in mano al narratore ma allo spettatore.
«È vero. Nessun teenager che conosco vede i film a velocità normale, se si annoiano li accelerano o saltano avanti in cerca di un inseguimento in macchina o di una scena d’amore. Però ci sono giovani che vedono i film in un’altra maniera. Per quel che mi riguarda, dal momento che molti miei film ormai si trovano in rete, succede che qualcuno li veda lì, mentre non avrebbe potuto vederli in una sala normale. E così ricevo email da quindicenni o ventenni pieni di domande su quello che hanno visto. E questo è tanto più vero se vivi a Missoula, Montana, e non in una grande città. E cito Missoula, Montana, perché proprio lì s’è creato un gruppo di giovani interessati ai miei film con cui sono in contatto. Non sottovalutare le Missoula sparse nel mondo!» (ride).
Concorderesti sull’osservazione che quasi in ogni tuo film ricorre il tema del rapporto tra natura e civiltà, che mi sembra una delle cose che rende speciale in tuo cinema?
«Non necessariamente e non sempre. A parte Bad Lieutenant e il film che ho diretto recentemente in Giappone (Family Romance, di prossima uscita in Italia), pensa ai nove documentari che ho girato sui condannati a morte, dove c’è la più totale assenza di natura. Solo celle di cemento senza un fiore né un filo d’erba, celle di cemento larghe pochi metri quadrati e sbarre d’acciaio, senza finestre. Tutto lì. Una radicale assenza della natura, eppure sono film molto intensi. Credo che il vero comune denominatore del mio cinema sia una visione del mondo, tale che rende i miei film subito riconoscibili».
Sono assolutamente d’accordo. In particolare per i documentari. Di solito si pensa che debbano essere «oggettivi», io invece credo che siano i film più personali, quelli in cui si esprime un punto di vista sul mondo.
«Certo, devono esprimere una visione del mondo. Non si tratta solo di raccontare una storia particolare, come nel caso dei condannati a morte. Magari stai raccontando la storia di uno che verrà giustiziato otto giorni dopo: non puoi accontentarti di raccontare il caso specifico, cosa è successo, se è davvero colpevole... Si tratta di guardare il più a fondo possibile dentro la nostra condizione di esseri umani. È la cosa a cui rispondo in modo immediato, come nel caso dei bambini soldato».
A proposito, nel libro racconti storie bellissime e crudeli che nel film non c’erano, come quella di Paladino Mendoza... (il film è il documentario «La ballata del piccolo soldato», girato nel 1984 tra i bambini-soldato honduregni impiegati sul confine con il Nicaragua).
«Paladino era un ragazzo indio costretto ad arruolarsi. Avevo cercato di farlo parlare della sua vita, ma lui mi aveva detto che non c’era niente da raccontare. Mi ha lasciato lì a finire la mia birra e a guardare il molo sul porto fluviale. Poi si sono sentiti dei colpi e ho visto gente che fuggiva. Sono corso a vedere e c’era Paladino da solo, in piedi sul molo, che sparava in aria. Poi si è guardato intorno, si è messo la canna del suo M16 in bocca e ha tirato il grilletto. L’ho visto morire così. Questo è qualcosa che ho visto e non ho raccontato in un film, ma che è rimasto impresso nella mia anima. C’era bisogno del libro perché la raccontassi. E ho provato a farlo con un tono biblico, da Antico Testamento. È una prosa molto intensa e molto dura, la mia. Ci sono cose che si possono rappresentare solo sullo schermo, altre solo sulla pagina. La stessa cosa per il Vajont».
È strano sentirlo raccontare da te, anche perché ne parli come di uno «tsunami», ma il Vajont (il disastro avvenne il 9 ottobre 1963 causando quasi duemila morti) è una di quelle storie che ti hanno colpito fin da ragazzo. Tu stesso sei stato alla diga più di una volta, ma non hai mai pensato di girarci, perché «è fuori dall’immaginazione. Si può solo scriverne. Tra 200 mila anni di noi resteranno solo cose come le fondamenta della diga del Vajont». Insisti sulla necessità della scrittura come unica forma narrativa capace di raccontare certi pensieri, esperienze e vicende della vita. Ti chiedo com’è nato questo libro che ora abbiamo tra le mani e se si tratta, arrivato a questo punto, di mettere ordine nei fatti della propria esistenza.
«Non potrebbe fregarmene di meno della posterità, saranno le cose che ho fatto a parlare per me. Però Lena ha insistito dicendo che se non lo facevo io, una volta morto, sarebbe arrivato qualche cretino (lo dice in italiano, ridendo) a raccontare queste storie come voleva lui. Era già successo con Fitzcarraldo...».
Ti riferisci a «La conquista dell’inutile», il diario di lavorazione pubblicato nel 2007, dopo le molte dicerie che si erano scatenate sui problemi della lavorazione del film, un’odissea.
«Anche in quel caso, 26 anni dopo il film, Lena mi ha detto: “Il manoscritto del tuo diario è lì, tu morirai, il diario ti sopravviverà e qualche sconosciuto lo prenderà e lo pubblicherà senza capirlo”. Non avevo mai considerato di pubblicarlo prima perché erano quasi mille pagine, scritte con una grafia che diventava sempre più piccola, fino a farsi illeggibile. Non ho una spiegazione per questo fatto, e tante volte avevo rinunciato a decifrarlo. Ma sulla spinta di Lena ho cominciato, e tutto è diventato comprensibile: anche i lati oscuri, il peso che ci sta dentro. Così l’ho pubblicato e sono contento di averlo fatto. Ma non per ristabilire verità storiche, in quello sono convinto che il tempo sia dalla mia parte. Nel 1981 fui addirittura sottoposto a un processo pubblico per presunti abusi che avrei commesso sugli Indios. Fui io stesso a dire ad Amnesty International di andare sul posto a investigare e alla fine saltò fuori che si trattava di quattro comparse che si erano ubriacate e non avevano pagato il conto in un locale e per questo erano stati arrestati. Ma naturalmente i media non diedero a questa notizia lo stesso rilievo che avevano dato al primo scandalo...».
Mi sembra che tu sia molto orgoglioso di Werner Herzog scrittore.
«Penso di essere una voce originale. E penso che i miei libri avranno una vita più lunga dei miei film. I film non hanno una gran vita, comunque. Nei miei libri c’è un’essenza più intensa e una prosa che non trovi altrove, a cominciare da Sentieri nel ghiaccio. Perciò penso che dureranno di più, anche perché i miei libri non diventeranno mai film, non lo permetterò mai. È letteratura. Leggeteli e basta».