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 2023  settembre 09 Sabato calendario

Biografia di Emanuele Trevi raccontata da lui stesso (numero 2)

Francesca Pellas
Roma, fine agosto. Il tempo è cambiato: ieri notte pioveva e oggi c’è un gran vento, venuto da non si sa dove. Emanuele Trevi mi accoglie in casa sua, che poi è il vecchio studio del padre. Ci sediamo sul divano verde in salotto, accanto alla grande scrivania dove Mario Trevi riceveva i pazienti, leggeva, lucidava sassi trovati per caso. Sul tavolino davanti a noi c’è una ciotola con dei sassolini splendenti. Non chiedo niente, ma penso di sapere: sono loro. Beviamo un caffè, ci mettiamo comodi, e mentre gli alberi fuori dalla finestra fischiano nel vento sussurrando cose che solo uno sciamano potrebbe capire, chiedo al figlio del mago di raccontarmi i suoi segreti.
Lei dice che si sveglia tardi, ma tardi quanto?

«La frontiera del senso di colpa sono le 11. Ormai mi sono accettato. La mattina, cioè dalle 11, lavoro su altro: di mestiere faccio il critico, perciò leggo, studio, curo cose. Per scrivere, invece, l’ideale è stare concentrato dalle 15 alle 17. Ho sempre fatto così».
Mi racconta una sua giornata tipo quando scrive?
«La cosa più drammatica è decidere il libro che farò. Da quando ho deciso, faccio due ore al giorno, qualunque cosa succeda. Me lo dico un po’ per gioco, però intanto va fatto: e allora lo fai coi dolori alle ossa del Covid, lo fai che sei triste, che sei allegro, lo fai che ti ha lasciato la fidanzata... Anche se ormai la mia vita sentimentale non è così variegata. Ad ogni modo: non ha niente a che vedere con l’umore. Quindi ci penso molto prima di dire cosa voglio scrivere, perché poi diventa una specie di gioco contro me stesso. Invidio chi si sveglia presto, penso faccia una vita più intelligente, abbia letto più libri. Purtroppo alzandomi tardi diventa tutto una rincorsa, per questo la scrittura è anche un terreno angoscioso. Io a scrivere non mi diverto, non ricavo piacere».
Secondo lei c’è qualcuno che si diverte?

«Molti dicono di sì. Io lo trovo faticosissimo: una prova di resistenza contro il sonno, la dispersione, lo scoraggiamento. Bisogna portare questo cerino acceso e difenderlo da tutte le tempeste. Ma non credo nel drammatizzare la concentrazione. Per esempio scrivo bene in treno, e il mio sogno è fare un accordo con Trenitalia: dato che mi servono all’incirca quelle ore, se mi dessero un Roma-Firenze andata e ritorno tutti i giorni sarei a posto».
Perché non glielo propone?

«Adesso magari con quest’intervista… Per me il treno è magico».
Dice che a differenza di suo padre, che si chiudeva molto in se stesso, lei non ha un “retrobottega”, ma ne è sicuro? Uno scrittore non vive anche molto lì?

«Tutti noi nutriamo un desiderio di solitudine. Io vivo da solo ma sono permeabile al prossimo: tutte le sere alle 19 esco di casa, vado in centro e vedo gli amici. Se sto scrivendo e mi chiami ti rispondo, e magari mi viene un’idea da una cosa che mi hai detto. Ho scritto dodici libri e spesso mi chiedo: ma quando? Perché sto sempre a cercare musica, a parlare al telefono, viene a trovarmi un amico, mi vengono i nervi e vado a passeggiare... Si vede che la mia forza di gravità rimane la scrittura. Mio padre era diverso: per il lavoro della mente che doveva fare, erigeva una specie di muraglia cinese, non aveva bisogno del prossimo».
Del venire ad abitare in questa casa ha detto che ha dovuto domarne l’energia psichica. Come si fa?

«Entrando qui mi sono interfacciato con tutto un residuo non mio. Nel libro racconto della Visitatrice, questa strana presenza che si palesava la notte. All’inizio cercavo di orientare quella cosa su me stesso, solo che riguardava la vita di mio padre. E lui era così impenetrabile che nessuno ne saprà mai nulla».
Ha mai pensato che potesse essere un’amante?

«Un legame erotico no, penso che lui fosse la sua guida spirituale. Qualche tempo dopo che la casa si è pacificata, ero a un evento pubblico e una persona è venuta a stringermi la mano in un modo che mi è sembrato strano; poi è scappata e ho avuto la certezza che fosse lei, anche se nel libro non l’ho scritto».
Com’era?

«Mi colpì la magrezza delle braccia. Ricordo dei riccioli biondi, ma l’ho percepita mentre se ne andava, non saprei riconoscerla».
Suo padre diceva che solo ciò che accade due volte possiede un significato magico e arcano. Perché?

«Capita che succedano delle cose minime che hanno un rintocco magico. Il due sta in bilico: è ancora vicino all’unicità, ma è già un esperimento».
Lei lega da sempre, qui e in altri lavori, il mestiere di psicoanalista a quello di sciamano.

«Il grande libro che spiega questo legame è La scoperta dell’inconscio di Henri Ellenberger, che parte dagli aborigeni australiani e passa per gli ipnotisti. Tra uno psicoanalista e un suo paziente, e uno sciamano e un suo paziente, si stabilisce lo stesso rapporto: quello tra guaritore e guarito».
Lo sciamano deve attraversare una soglia di iniziazione: qual è il rito di iniziazione di uno psicoanalista?

«Penso a Il grande viaggio in slitta di Knud Rasmussen. Incontrò molti sciamani Inuit, e i loro racconti hanno in comune una cosa. C’è, da prima, un sentirsi diverso, la percezione di un mondo d’ombre che è più vasto di quello che vedono gli altri. E questo è doloroso, può creare smarrimento. Quando si arriva alla formazione, si riesce a incanalare quell’energia turbinosa. Mio padre per esempio non è andato in analisi da Ernst Bernhard per curiosità intellettuale, ma perché era depresso, per motivi intuibili: la guerra, l’essere rimasto orfano. Non vedo molta differenza tra uno sciamano dell’antichità che ti mette in un igloo per sei settimane e un professionista moderno che ti fa un training».
Ha detto che l’angelo custode è fatto di tempo perso.

«È come in Winnie the Pooh: il bambino cresce ma in qualche parte del bosco continua a giocare col suo orsacchiotto. Ci credo come un arabo può credere nel Corano. Il fatto che una cosa sia avvenuta la rende eterna. A me piace tutto, posso stare ore a guardare quel nespolo fuori dalla finestra, dove abitano degli strani pappagallini brasiliani. Ho un rapporto di grande interesse e meraviglia con la quotidianità, non mi stanco mai di fare le stesse strade, e sono portato a pensare che questo tempo inoperoso mi protegga. Le persone che cambiano il mondo sono quelle che desiderano molto, io invece non ho tanti desideri, mi sono tenuto al riparo dai pungoli. Sono sempre stato incantato dall’inquietudine femminile, poi però a un certo punto ho dovuto dire: non ti posso seguire fino in fondo».
Per esempio?«Quando ero più giovane mi hanno detto: vorrei un figlio, o vorrei andare in un altro posto. Se a me dici: vivi diecimila anni come oggi, per me va bene, sono felice se non succede niente. Ma parlando d’amore, non credo che, essendosi amati, ci si possa voltare le spalle. Io non mi lascio mai. Mi dà fastidio voltare pagina. Voglio rimanere a pagina uno, su una pagina affollata di gente che mi vuole bene».
Il libro è dedicato a “Vita, piccola maga”. Vita è la figlia della sua ex moglie Chiara Gamberale.

«Chiara mi ha capito profondamente. O ci ha rinunciato (ride). Le devo molto, perché mi ha fatto conoscere tantissime cose, mi ha fatto alzare dal divano un numero incalcolabile di volte. Poi l’amore per la bambina è stato... per Vita sono un po’ un fratello maggiore. Un fratello maggiore è uno che ti protegge, che sa tante cose, e che condivide con te una condizione di figlio. Chiara è una persona molto evoluta, l’ho conosciuta che era giovanissima, e ha fatto un percorso umano e artistico straordinario. E io penso di essere più bravo come ex che come compagno in carica».(Sincronicità: poco dopo gli telefona Chiara)
Dopo tutto questo tempo l’ha capito, qual era l’enigma di Mario Trevi?

«No, proprio no. Penso fosse venuto al mondo con qualcosa che non era spiegabile e che qui, con questa scrivania, riusciva a trasformare in un’energia di guarigione. Però non ho mai voluto indagare: accetto che ci sia una parte inconoscibile di lui».
Di sua madre ha detto che ogni giorno va a dare una pacca all’albero sotto cui avete sparso le sue ceneri.

«Sono andato ieri, poi non è che faccio grandi discorsi: vado lì e do una pacchetta. Lei non era una donna cerimoniosa, e io mi sono adeguato. Era molto simpatica, una gran pettegola. Viveva qui vicino, avevamo un rapporto molto quotidiano. Ieri, dato che sono stato fuori un mese, mi è venuta voglia di andare. Già stava cambiando il tempo. È un sentiero che arriva in una specie di bosco. Posso anche farlo nei momenti di difficoltà, come rito. Qualche mese fa ci ho trovato una volpe: ho visto spuntare questi occhi, era l’inizio dell’estate».
Crede nell’aldilà?

«Non ho mai avuto un sentore di quella cosa che racconta Mishima nel Mare della fertilità, l’idea che uno possa riconoscere l’incarnazione di un’anima in esseri diversi che ha amato. Sono bordi dell’esperienza. Mi sembra però che la vita sia una cosa effimera, se paragonata all’universo. E il dolore della mancanza è temporaneo, perché puoi perdere una persona, ma presto o tardi diventi la stessa cosa di quella persona, cioè nulla. E ci si ricongiunge».
Quali sono i luoghi di Roma a cui è più legato?

«Questi: Roma Nord, la confluenza dell’Aniene nel Tevere. Il mio grande hobby è prendere una tavola a caso del Tuttocittà e andare a perlustrare ogni strada in quel riquadrino. Mi interessa tutto: le case, gli androni, i negozi, vedere i bar dove sta seduta la gente. Roma è davvero uno spazio del tempo, nel senso che il tempo non si vede, ma invecchiare in un posto ti consente di capirlo. Ero un bambino che attraversava Piazza Navona tutto contento e ora sono uno che ha quasi sessant’anni e attraversa Piazza Navona tutto contento nel deserto di una notte d’inverno, e quella è una meridiana, della città ma anche di me».
Quello sulla copertina del libro è un disegno di suo padre?

«Sì, il disegno faceva parte del suo DNA. Mi ha molto educato in questo senso, soprattutto a guardare i quadri. Non aveva i soldi, altrimenti sarebbe stato un grande collezionista, ma aveva occhio. Un argento di Giosetta Fioroni oggi costa novantamila euro, lui lo sapeva da quando lei lo dipingeva. L’arte è una cosa che gli devo».Ed è uno dei suoi interessi principali.«Sì, ed è diverso rispetto ai libri, ai film, perché in quel caso hai una biblioteca o cineteca mentale e puoi dire: mi ha influenzato Dostoevskij, l’ho letto da giovane. L’arte invece va fruita e si perde nel tempo, sennò sarebbe come dire: mi sento bene perché ho fatto le flessioni tre anni fa. Io ho viaggiato molto in Asia e ho visto cose stupende: Angkor Wat in Cambogia, Bagan in Birmania, l’arte del Gandhara in Pakistan. Viaggi che ora, con tutte le medicine che prendo, non farei più. L’arte riguarda il corpo, le condizioni fisiche. La possibilità di vedere le cose si restringe con l’invecchiare. L’andare in giro per i libri in Italia lo compenso con la possibilità di visitare anche piccoli musei. Ovunque vado, studio che cosa c’è da vedere, o rivedere, perché poi è importante anche quanto si torna».Come ha incontrato la sua vocazione di scrittore?«Ho sempre voluto scrivere. Da ragazzino comprai un quaderno di Braccio di Ferro e cominciai a scriverci delle poesie: per me era un oggetto sacro. Ho sempre lasciato tracce. Annotavo cose memorabili, confidenze di artisti, di scrittori, e nei viaggi disegnavo ciò che vedevo. Durante un trasloco sono andati persi tutti i miei quaderni, decine. È stato un trauma: mi sono sentito privato di un’identità che affidavo a questi appunti, e li rimpiango ancora. La perdita però mi ha portato a lavorare con la memoria in modo più efficace: è come se i ricordi fossero già selezionati in maniera artistica».Traumatico ma anche liberatorio?«Tutto ciò che riguarda il distacco è fondamentale. Il mondo mi piace ma sono un ospite: me ne devo andare, come tutti. Pensandoci, è assurdo che uno cambi casa, accumuli cose. Vivrei diecimila anni, ma proprio perché il mondo mi piace tanto, mi dico: non ti affezionare, non è tuo. Se la vita fosse nostra, saremmo immuni al tempo. Invece siamo su una giostra. Bisogna rispettare le cose, godersele, però è tutto come il motorino che affitti in Grecia: in quei dieci giorni gli vuoi bene, poi lo lasci e se ti chiedono che motorino avevi, com’era fatto, non ti ricordi più. Ed è giusto così».