Tuttolibri, 9 settembre 2023
Coetzee e la lingua inglese
J.M. Coetzee ha uno strano modo di considerare il mondo attorno a sé. È allo stesso tempo rigido e rivoluzionario, proiettato al futuro e legato alla tradizione che difende a spada tratta. E questo suo dualismo si riflette in maniera inequivocabile sulla sua produzione letteraria.Nel 2001, dopo aver litigato e dibattuto con la sua nazione, averla lasciata più volte per tornare sempre indietro e averle quasi perdonato una serie di storture politiche e amministrative esplose nel dopo-apartheid, si è trasferito definitivamente a Adelaide, in Australia, lasciando il Sudafrica con un cenno appena più che nostalgico. Due anni più tardi, gli è stato consegnato il premio Nobel per la letteratura.Il suo rapporto con la scrittura ha molto a che vedere con la sua visione geografica e politica del mondo. Come da giovane socialista, durante gli anni dell’università, si procurò l’esclusione dalla cittadinanza statunitense per non tradire le proprie battaglie, oggi combatte contro l’imperialismo linguistico con tutte le armi che ha a disposizione. Il nemico è l’inglese, la lingua franca che sta divorando le sacche di autonomia linguistica; soprattutto nei paesi postcoloniali, soprattutto nell’emisfero sud.Così, da qualche anno, l’attività principale di Coetzee è quella di favorire la pubblicazione dei suoi romanzi e dei suoi saggi in traduzione, lavorando a strettissimo contatto con i traduttori stessi, prima che in inglese, sua lingua d’elezione venendo da una famiglia di origine polacca, tedesca e boera. La sua convinzione è che così, partendo dal sud del mondo – anche se in realtà la ricerca linguistica di Coetzee al di fuori dei confini anglosassoni era partita dall’olandese, traducendo tra l’altro un racconto di Søren Kierkegaard comparso in inglese sulla rivista McSweeney’s dopo vari passaggi linguistici dal danese, e passata dall’italiano prima di approdare in Argentina –, si possano minare le fondamenta, o per lo meno provare a variegare ed arricchire, una letteratura costretta al monolinguismo, ripartendo dalla riscoperta delle «lingue madri».Quale considera essere la sua lingua madre?«In un mondo ideale, impareremmo tutti a parlare in famiglia, da molto piccoli. Quella appresa dalle nostre madri, in quel caso, sarebbe la nostra lingua madre, la lingua nella quale il mondo ci viene svelato per la prima volta, la lingua del cuore, della tradizione, dell’insegnamento domestico».Ma non lo è?«Non per tutti. Per molti questo è un mondo tutt’altro che ideale e questa mancanza si riflette sul modo in cui concepiamo la lingua».In che senso?«Molti di noi, che abbiamo imparato a parlare nella nostra lingua madre in casa, in famiglia, sono costretti a proseguire la propria educazione in una lingua più diffusa, più parlata, più importante. È il caso delle lingue nazionali, come l’hindi, o delle lingue imperiali, come l’inglese e lo spagnolo. Quindi ci abituiamo a occupare due sfere linguistiche parallele: la sfera privata della lingua minoritaria, la lingua madre che condividiamo con i nostri affetti e le persone a noi più vicine, e quella pubblica della lingua maggioritaria».Nel suo caso, l’inglese…«Esattamente».Si sente parte di una comunità in questo senso?«È una condizione condivisa da molti scrittori e intellettuali provenienti dai paesi post-coloniali: dall’Africa Sub-sahariana, al subcontinente indiano, al Sudamerica. Si tratta di persone la cui maestria nell’utilizzare una lingua maggioritaria, che però non è la loro lingua, permette loro di fatto di competere alla pari con i colleghi madrelingua. Eppure, non saprebbero come imprecare, o come fare l’amore in quella lingua che in qualche modo gli è imposta».Pensa che se scrivessero nella loro lingua madre sarebbe differente?«Sarebbe l’opposto: si tratta di una strana comunità, abituata a parlare nella propria lingua madre, ma che al pensiero di scrivere in quella lingua, incespica».Come mai?«Spesso, in questi casi, le lingue madri non hanno un percorso diretto per arrivare a noi, ma si mescolano ad altre per generazioni, diventando ibride, difficili da schematizzare».E la sua, da dove viene?«È complesso».Provi a spiegarmelo, se vuole…«Da parte di madre, discendo da un polacco nato nella Slesia prussiana che da molto giovane aveva deciso che il futuro del mondo sarebbe stato tedesco. Quindi si “germanizzò”, cambiandosi il nome, iscrivendosi a scuole tedesche e sposando una ragazza tedesca. Si trasferirono negli Stati Uniti e i loro figli crebbero parlando tedesco in casa e inglese in pubblico».Perdendo due lingue madri…«Già, ma diventa ancora più complicato. Dagli Stati Uniti si trasferirono in Sudafrica dove proseguirono con il loro bilinguismo tra tedesco e inglese, anche se attorno a loro si parlava olandese. Ecco come, in nome del progresso sociale, le lingue madri (in questo caso prima il polacco e poi il tedesco), sono state abbandonate in favore di due lingue “padri”, prima il tedesco e quindi l’inglese».E dal suo lato paterno, come è andata?«Vengo da persone che dall’Olanda sono emigrate in Africa nel Diciassettesimo Secolo. Durante le guerre napoleoniche la loro piccola colonia venne occupata dagli inglesi e i suoi abitanti vennero assoggettati alla corona britannica. I miei antenati si adattarono ai nuovi padroni e cominciarono a condurre la loro vita pubblica in inglese, continuando a parlare olandese – che poi si sarebbe creolizzato al punto di trasformarsi in quello che sarebbe diventato l’afrikaans – a casa».In questo caso si è trattato quasi di un sopruso…«Esatto. È la storia di una lingua madre, l’olandese, che viene abbandonata in favore della lingua dei potenti, l’inglese».Un’altra lingua “padre"…«Probabilmente la più prolifica di tutte».Pensa che, a un certo punto, ai suoi familiari possa essere sembrato conveniente adottare l’inglese?«Sono convinto che tanto dal lato materno che dal lato paterno della mia famiglia, l’inglese – la lingua maggioritaria, ma anche degli oppressori – debba essere a un dato momento sembrata la lingua del futuro e che la prospettiva di un’educazione in inglese fosse il miglior modo per assicurare una certa prosperità ai propri figli. Quindi sì, devono aver creduto che assicurarsi un futuro in inglese sarebbe stato vantaggioso».Non hanno avuto tutti i torti…«Da un punto di vista pratico, hanno avuto ragione».Qual è stato il suo rapporto con l’inglese, crescendo?«A scuola ero bravo, in inglese. Dopo le superiori mi sono iscritto a una facoltà definita di Lingua e letteratura inglese all’università di Città del Capo, il cui corpo studentesco era prevalentemente composto da sudafricani bianchi di discendenza britannica. Dopo la laurea mi sono trasferito a vivere e lavorare a Londra, cuore del vecchio impero, e quindi mi sono spostato negli Stati Uniti per portare a compimento i miei studi. Ho preso un dottorato in anglistica e sono tornato in Sudafrica. In sintesi: io e l’inglese abbiamo sempre avuto un buon rapporto. Travagliato, ma buono».E una volta tornato in patria?«Ho cominciato a insegnare lingua e letteratura inglese ai figli dei sudafricani bianchi di discendenza britannica, molto molto simili a coloro al fianco dei quali l’avevo studiata. Penso che un giovanotto come me, che non aveva una sola goccia di sangue britannico nelle vene, non potesse aspirare a un traguardo più grandioso. Fu un successo, insomma».Be’, poi è diventato uno scrittore e questo le è valso il Nobel…«Di più: sono diventato uno scrittore “in lingua inglese”. Un paradosso che va ben oltre i premi e i riconoscimenti».E poi, cosa è successo?«Piano piano ho cominciato a mettere in dubbio la mia posizione di straniero naturalizzato il cui abilissimo uso della lingua maggioritaria sembrava paradossalmente essere lì solo per confermare che l’inglese sarebbe diventata la lingua destinata a dominare il mondo».E così il vostro buon rapporto cominciò a incrinarsi?«La lingua che parlavo più di frequente, quella nella quale scrivevo cominciò a sembrarmi straniera a sua volta».Solo a lei o in un senso più globale?«Principalmente a me, che non la riconoscevo più. Ma cominciò a sembrarmi estranea anche all’Africa, un continente nel quale non ha mai davvero messo radici, e nemmeno ci ha mai provato a dire la verità. Era sempre rimasta la lingua dei padroni, dei colonizzatori che vivevano al di là del mare, e questo mi è apparso improvvisamente così evidente e reale da stranirmi. Dovevo cambiare prospettiva».Come ha fatto?«Ho cominciato a lavorare a stretto contatto con i traduttori dei miei libri».Cosa sperava di ottenere?«Volevo sentire come suonava la mia voce al di fuori della lingua inglese».Non aveva paura, per citare un vecchio e abusato adagio, di scoprirsi tradito?«Non proprio. Ho anche cominciato a interrogarmi sul perché le versioni delle mie storie prodotte dai miei traduttori dovessero essere costrette a seguire fedelmente l’inglese. Perché dovessero essere obbligate a portare un’etichetta che le svelasse come versioni non originali dello stesso romanzo o saggio».È giunto a una conclusione?«Sono arrivato a riflettere più intensamente sulla questione e ho cominciato a pensare che una traduzione non debba necessariamente ricoprire uno status di lavoro secondario, lo status di un’imitazione – spesso di un’imitazione imperfetta – di un originale unico e inscalfibile».Come ha messo in pratica la sua ricerca?«Con l’aiuto e il supporto di un editore argentino che la pensava come me, mi sono avventurato in una serie di collaborazioni nel corso delle quali alcuni miei lavori inediti venivano tradotti in inglese e pubblicati senza che si facesse menzione di una loro versione precedente a quella in spagnolo. Laddove il mio inglese si fosse dimostrato recalcitrante nei confronti della traduzione, era lui che doveva essere riscritto».Una specie di vendetta linguistica?«Un esperimento che rimettesse le posizioni di ciascuna lingua in prospettiva e il traduttore al centro della collaborazione».Sono usciti, questi libri?«Certo. Prima in Argentina, poi in Australia. Due Paesi dell’emisfero sud (odio il termine “sud globale” e lo evito con tutte le forze)».È importante che prima siano usciti al sud?«Mi piace in particolar modo l’idea che i miei libri vengano pubblicati prima nell’emisfero sud, perché così non sono costretti a passare attraverso il controllo dei censori, degli editor e dei recensori del nord del mondo prima di essere letti dalla nostra parte del globo».E lo spagnolo è importante?«Be’, è come nei miei tre romanzi su Gesù: è la lingua dell’aldilà».Meglio dell’inglese?«No, non credo. È solo che si tratta dell’alternativa più valida all’egemonia serpeggiante dell’inglese imperialista. E anche perché volevo dare una scossa ai miei lettori anglosassoni: mi diverte immaginare che salto che avranno fatto scoprendo che la lingua parlata dopo la morte non è l’inglese».E tutto questo ci porta a “Il polacco!…«Già, pubblicato prima come El polaco in Argentina e poi come The Pole in Australia. Adesso è pronto per sbarcare nel nord».Inalterato rispetto al suo spagnolo originario…«Speriamo».