Tuttolibri, 3 settembre 2023
La fuga di Vittorio Emanuele III
Vittorio Emanuele III, allora ancora re d’Italia, sedeva a tavola pregustando un vero pranzo regale. E le portate del banchetto- ognuna rigorosamente in francese sul menù- furono pari alle sue aspettative: consommè Sevignè (brodo ristretto di pollo, morbidelli di pollo, asparagi e lattuga), truite saumonèe à la diplomatique (trota salmonata con tartufi), poitrine de dinde aux primers (petto di tacchinella), mousse de jambon de York à la gelèe (prosciutto in gelatina), salade orientale, haricots verts au beurre (fagiolini), gateau dèlicieux (torta), pailles japonaises (sedano rapa fritto), selle de chèvre à la Marechal Robert (sella di capra), e, per finire, caffè vero, non surrogato di orzo e cicoria. Nove portate in tutto, tanto improvvisate quanto eccellenti, così che il sovrano sentì il dovere di congratularsi con lo chef – Aquilino Beneduce- per la sua cucina. A stonare c’ era solo un piccolo particolare: quell’abbuffata si consumò, nel castello di Crecchio vicino a Pescara, alle 13 del 9 settembre 1943, nei giorni in assoluto più tragici della nostra storia unitaria. Mentre il re mangiava, il paese era sconvolto dai lutti e dalle privazioni imposte da una guerra ormai perduta.Una guerra voluta e imposta dal fascismo e condivisa fin dall’inizio dallo stesso Vittorio Emanuele III che, come Mussolini, anelava a un «pugno di morti» per sedere al tavolo della pace insieme ai vincitori. Non era andata così e dopo tre anni gli italiani e le italiane erano allo stremo. A dispetto dell’abbondanza della tavola regale, il vecchio incubo medievale della fame si era materializzato in tutte le case e ovunque, al Nord come al Sud, ci si arrangiava con le carte annonarie e alimentando il mercato nero «esploso e fuori controllo fin dal giugno 1940»; e con la fame erano arrivati il freddo, la paura delle bombe, l’angoscia per la sorte dei propri cari impegnati sui vari fronti di guerra, la convivenza quotidiana con la morte. Dalla Russia, dall’Africa del Nord, da lontano, la guerra era ormai arrivata sull’uscio di casa. Il 10 luglio 1943 gli alleati erano sbarcati in Sicilia; in quello stesso 9 settembre si combatteva duramente a Salerno, dopo un altro sbarco. E con gli inglesi e gli americani erano arrivati i polacchi, gli indiani, i nepalesi, i nordafricani inquadrati nelle truppe francesi, i brasiliani, i neozelandesi, mentre dal Brennero incustodito sciamavano i reparti della Wermacht e i nazisti delle SS. Da tutto il mondo venivano a combattere nel nostro paese trasformato in un immenso campo di battaglia.Ai giorni convulsi in cui si svolse il pranzo del re e a quei momenti drammatici in cui Vittorio Emanuele III, il capo del suo governo, Pietro Badoglio, e numerosi ministri decisero di lasciare Roma per rifugiarsi a Brindisi mettendosi al sicuro sotto la protezione degli Alleati, è dedicato l’ultimo, eccellente, libro di Marco Patricelli. Eloquente già dal titolo: Tagliare la corda, 9 settembre 1943, storia di una fuga. Dalle sue pagine, infatti, esce malconcia proprio la narrazione di quelli che, per giustificare l’operato del re, hanno invocato lo «stato di necessità»: la fuga, argomenta Patricelli, fu da subito l’unica opzione presa in considerazione, in una strategia della sopravvivenza adottata con convinzione da tutto l’entourage monarchico: si trattava innanzitutto di garantire l’incolumità personale del re e di Badoglio e poi, in subordine, la continuità della dinastia con la possibilità, al Sud, di esercitare una qualche forma di sovranità che- una volta data per scontata l’occupazione nazista di Roma- certamente non avrebbe potuto essere esercitata sotto il dominio dei tedeschi.A questi obbiettivi furono sacrificati il nostro esercito e i nostri soldati: abbandonati dai loro ufficiali, lasciati inermi a fronteggiare la bellicosità degli ex alleati, senza ordini precisi, con un quartier generale capace solo di gridare «si salvi chi può» dando l’esempio di cosa voleva dire «tutti a casa !», per i militari italiani si spalancò l’abisso della deportazione nei lager nazisti; furono 700 mila i deportati, 50 mila morirono a causa della detenzione.Il pranzo minuziosamente descritto da Patricelli diventa così la metafora del fallimento di una intera classe dirigente, intenta a saziarsi in uno scenario di morte e distruzione da lei stesso allestito. Erano i «golpisti» del 25 luglio 1943, quelli che avevano «defenestrato» Mussolini; ma era anche e soprattutto la classe dirigente che il fascismo aveva selezionato nei venti anni del suo regime e che aveva innalzato ai vertici dello Stato esaltandone l’incapacità, l’inadeguatezza, la miseria morale, il cinismo, il disprezzo per la cosa pubblica.Su questo ci interroga oggi il libro di Patricelli, sui guasti di una politica privata degli stimoli e dei fermenti della libertà e della democrazia. A fallire l’8 settembre 1943 furono i pavidi generali che il fascismo aveva promosso, i politici irresoluti che Mussolini aveva innalzato ai vertici del suo Impero, lo stuolo di funzionari governativi che avevano interpretato il proprio ruolo limitandosi alla gestione di compiti burocratico-amministrativi, rigorosamente amputati di tutti gli aspetti «militanti». Tutti racchiusi in una rigida gabbia corporativa che eliminava la libera circolazione delle idee, il confronto tra diverse posizioni culturali e politiche, stroncando sotto il peso di strutture elefantiache e burocratiche ogni tentativo di creare l’«uomo nuovo» sbandierato dalla propaganda del regime.