Tuttolibri, 3 settembre 2023
Intervista con Olga Tokarczuk
Olga Tokarczuk, 61 anni, polacca, premio Nobel per la letteratura 2018, torna in libreria con I libri di Jakub, un romanzo ambientato nella Podolia del Settecento. Siamo tra Polonia e Ucraina, in quel «mondo di mezzo» dove si fa strada l’ebreo eretico Jakub Frank, come in una fiaba storica dove convivono popoli e fedi diverse.Signora Tokarczuk, la vicenda del suo romanzo si svolge nel XVIII secolo in una regione, la Podolia, che oggi è coinvolta nel conflitto tra Russia e Ucraina. C’è un filo ideale che lega quel luogo al suo destino storico in questo incrociarsi di popoli, fedi, credenze, magie, superstizioni?«L’Ucraina occidentale fu un territorio di confine, una terra di mezzo. Nell’epoca in cui si svolge la trama dei Libri di Jakub, cioè nella seconda metà del Settecento, queste terre appartenevano alla Polonia e venivano spesso chiamate kresy, cioè periferie. Si trattava di una regione multietnica e multiculturale, dove si incontravano le lingue ucraina, polacca, turca, yiddish, perfino giudeo-spagnola e armena. Attraverso la frontiera meridionale si sviluppava un fiorente commercio con l’Impero Ottomano, mentre il grano veniva trasportato a Danzica e lungo le vie del Mar Baltico. Fui attratta proprio dall’intensità e dalla ricchezza di quella realtà. Prima non mi rendevo conto di quanto importante fosse per quelle terre l’influenza della multiculturalità dell’Impero Ottomano. Il regno della Polonia confinava allora direttamente con la Turchia, sembra incredibile, vero?».Oggi russi e ucraini, storicamente fratelli, per origine e storia, si uccidono per la conquista o la difesa di un territorio a lungo condiviso. Come potevano nel Settecento convivere popolazioni così diverse?«Nelle ricerche che ho fatto per scrivere il romanzo volevo capire in che modo persone provenienti da diverse etnie riuscissero a convivere e a comunicare all’interno di quelle culture sincretiche. Credo che la questione sia attuale anche per noi. Scrivevo del Settecento, ma più mi addentravo in quell’epoca, più mi rendevo conto che scrivevo del mondo odierno. Lì avevamo a che fare con la fioritura dell’Illuminismo europeo, con il cambio di paradigma che aveva dato al mondo la scienza, la fiducia nella ragione, ma anche la Rivoluzione francese. Oggi siamo testimoni di un cambiamento altrettanto profondo che non sappiamo definire ma che, in seguito ai terrificanti effetti del cambiamento climatico, della guerra in Ucraina e dell’ultima pandemia ci induce a rivalutare vecchie verità».Qual è il motivo ideale suo personale all’origine di un racconto così lontano come “I libri di Jacob”? Perché si è immersa in quel fiume di colori e popoli? C’è un rapporto con la sua storia?«Sì, la mia famiglia da parte di padre proveniva dalla Podolia. Conoscevo bene nomi topografici e geografia di quel territorio. Dopo la Seconda guerra mondiale, in seguito agli accordi di Jalta, Stalin aveva tagliato via i kresy dalla Polonia e li aveva annessi all’Unione Sovietica entro i confini della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina. La maggior parte della popolazione polacca fu deportata all’Ovest, sulle terre sottratte ai tedeschi. Nella mia famiglia perdurò l’attaccamento sentimentale a quella regione e l’interesse per la sua storia. Sono andata più volte non solo in Podolia, ma anche in Turchia, in Romania e in Bulgaria, in Moravia e in Germania. Ho sentito il bisogno di vedere con i miei occhi praticamente tutti i luoghi presenti nel mio libro».Lei è religiosa?«Non faccio parte di nessuna chiesa. Non osservo rituali religiosi. Non credo in un’entità metafisica che dirige la nostra vita e le sorti del mondo. A mio avviso non si può dividere ciò che ci circonda in un’essenza fisica e una metafisica. Credo piuttosto che il mondo sia uno solo, ma una gran parte di esso ci è ancora sconosciuta. E non la conosceremo mai, perché i nostri sensi e la nostra mente sono limitati. Sono dunque agnostica. Forse – come succede sempre con un frammento di qualche insieme – in un certo modo riusciamo a intuire quell’insieme. Questa percezione potrebbe essere definita, appunto, religiosità».Che cosa rimane oggi di quel mondo così straordinariamente multiforme dove si parlavano idiomi diversi che si incrociavano con le merci e i viaggiatori?«Per scrivere il romanzo ho compiuto due viaggi in Ucraina, e ho scoperto sbalordita che raramente riuscivo a ritrovare gli spazi di cui parlano i documenti del diciottesimo secolo. Ne ero rimasta delusa, ma allo stesso tempo capivo che due grandi guerre e l’economia comunista avevano profondamente trasformato la Podolia. Bisognava risvegliare l’immaginazione per rievocare il passato. Qui si trovava una sinagoga, qui una cittadina… Eppure, il Dnister scorre ancora, i prati vicino a Iwanie profumano e in piazza del mercato di Leopoli si erge la stessa cattedrale in cui i frankisti discutevano con gli ebrei ortodossi sotto l’occhio vigile di vescovi polacchi. Non è andata meglio all’odierna Romania e Bulgaria. Il libro descrive un mondo di cui noi, europei odierni (o almeno alcuni di noi) abbiamo un po’ di nostalgia – un mondo senza stati nazionali, un mondo di culture sincretiche e di gente che parlava molte lingue anche se magari nessuna di loro in maniera perfetta».Infatti le lingue hanno grande importanza nel suo racconto, leggendolo si ha l’impressione viva di trovarsi in uno spazio dove tutto si mescola con armonia. Com’era possibile?«L’ossessione della purezza linguistica è nata con gli stati nazionali, fu allora che vennero stabiliti gli standard linguistici e i dialetti furono condannati a vegetare in secondo piano. Dal punto di vista odierno si trattava di un atteggiamento prepotente che doveva servire a creare una più pronunciata identificazione nazionale. Mi rincresce per la scomparsa di quella varietà linguistica, di centinaia di dialetti e sottodialetti. Mi ha sorpreso la scoperta della mobilità della gente in quell’epoca. Ovviamente questo privilegio non riguardava tutti. I contadini, essendo servi della gleba, erano vincolati al luogo di abitazione. Però commercianti, borghesi, aristocratici e tutte le così dette persone libere si muovevano in continuazione. Spostandosi nello spazio portavano con sé le loro idee, mode, racconti, paure e pettegolezzi. Viaggiare equivaleva ad acquisire il sapere, era faticoso e per questo motivo aveva valore iniziatico».Cosa prova lei personalmente per quel mondo ebraico, mistico e favoloso?«Una delle ragioni per cui ho scritto questo libro è la mia contrarietà alla diffusa tendenza a ridurre la storia degli ebrei nell’Europa centrale all’Olocausto. Terrorizzati da quello che è successo, abbiamo smesso di chiederci che cosa fosse esistito prima. Come mai in Polonia e in tutta l’Europa centrale esisteva una comunità ebraica così enorme? Invece vale la pena ricordare che la migrazione di numerose comunità ebraiche nelle regioni orientali del Regno di Polonia è strettamente connessa con la storia dell’antisemitismo europeo. Ricordiamo che nel 1492 un gran numero di ebrei fu espulso dalla Spagna e quelli che decisero di rimanere furono costretti a convertirsi al cattolicesimo. Anche il processo di insediamento di quegli esuli nei paesi balcanici e germanofoni non si svolse senza problemi e la storia di esclusione degli ebrei dalle società europee è lunga».E cosa è accaduto in quelle regioni dai nomi che sembrano fiabe come Podolia, Galizia, Volinia, Polesia, all’epoca “paradiso judaeorum” che in seguito è diventato l’inferno dell’Olocausto?«I re polacchi, come altri sovrani europei, attuavano in zone poco abitate una premeditata politica di insediamento di immigranti ebrei che consideravano un potenziale stimolo per lo sviluppo economico di quelle terre arretrate. Una gran parte della popolazione ebraica instaurò profondi e duraturi legami con la Polonia e oserei dire che non ci sarebbe stata la cultura polacca senza gli ebrei polacchi. La loro influenza è stata molto significativa e insieme abbiamo creato qualcosa di comune e inseparabile. Il lato oscuro di questo fenomeno è costituito dall’ossessione antisemita che ha causato molte disgrazie in Polonia».C’è stata un’elaborazione nazionale su questa ossessione? C’è una colpa storica polacca dell’antisemitismo?«Per me personalmente è particolarmente doloroso pensare ai pogrom del dopoguerra quando la gente si scagliava contro quei pochi ebrei che erano miracolosamente scampati all’Olocausto: sono eventi difficili da capire. Essi causarono varie ondate di emigrazione. Oggi in Polonia vivono pochissimi ebrei, ma paradossalmente, i tentativi di restaurare la memoria della loro presenza sono abbastanza attivi. Di sicuro si tratta non della politica del governo, ma dell’iniziativa dei cittadini stessi. Credo che dal punto di vista della psicologia collettiva questo sentimento debba trovare una sua espressione e, allo stesso tempo, una sua riparazione. In Polonia si creano e prosperano cattedre di studi ebraici e yiddish alle università, si svolgono festival di cultura ebraica, si scrive molta letteratura sull’argomento e i giovani cercano la loro identità ebraica».Come leggere questo suo romanzo, così lontano eppur così attuale?«Nei Libri di Jakub il racconto sulla setta eretica ebraica ribelle si svolge su più livelli. Per me personalmente è molto importante quello che riguarda l’emancipazione sociale. Non si tratta di una vicenda qualsiasi. Un gruppo di poveri commercianti ebrei, inclusi quelli più meschini, compie un atto straordinario: attraversa stratificazioni sociali, rompe molti soffitti di cristallo e arriva alle vette della gerarchia sociale. Potrebbe sembrare che in una società feudale tale conquista non fosse possibile. Eppure, sì. Jakub Frank muore agiato e riverito, insignito del titolo di barone, è amico dell’imperatrice Maria Teresa, fa conversazioni con l’imperatore. Un altro motivo del racconto, molto attuale, è l’eterna questione dell’alienazione, dell’alterità e di tutti i processi di assimilazione. Passate due, tre generazioni, la maggioranza dei frankisti tornò in Polonia, dove si rivelarono cittadini modello e grandi patrioti polacchi. Molti diventarono avvocati, medici, combatterono nelle insurrezioni nazionali, altri ancora parteciparono alla formazione della borghesia polacca».E dal punto di vista religioso, qual è il senso del romanzo?«Si potrebbero considerare I libri di Jakub anche come un racconto sulla ricerca dell’ordine e del senso nel mondo, sul rifiuto delle religioni tradizionali quali il giudaismo, il cristianesimo o l’islam e sul tentativo di costruire un’idea sincretica basata sull’antico gnosticismo».Da lettrice appassionata, qual è l’autore o il libro che racconta meglio lo spirito di che cosa sta succedendo oggi in Ucraina, tra mondo russo e occidente?«Qualsiasi cosa si dica sulla guerra in Ucraina sembrerà una banalità. Ciò è dovuto al fatto che questi avvenimenti superano i limiti della nostra esperienza, immaginazione e aspettativa. Si può descrivere questa guerra in categorie militari, economiche o sociali, ma è impossibile captarla nel suo complesso di fenomeno di tenebra che si svolge all’inizio del ventunesimo secolo nella parte cosiddetta civilizzata del mondo, in Europa. Non riesco ad accettare il fatto che, dopo tutto quello che è successo in Europa nel Novecento, proprio alle nostre porte si sia scatenata una guerra feroce e cinica voluta da uno psicopatico. E sono profondamente delusa che il mondo non riesca ad affrontare in maniera più efficace sia questa situazione, sia gli altri atti di evidente violenza. Siamo diventati troppo tolleranti nei confronti della morte e della sofferenza altrui. Dallo scoppio della guerra ho cominciato a considerarmi una persona vecchia e stanca».In un’intervista al New York Times, lei ha evocato la realtà di una repubblica della letteratura che non ha confini, non ha una lingua, ma tutte le lingue. Cos’è questa repubblica: un rifugio o una dimensione che può avere un ruolo attivo sul destino del mondo?«Forse avrei dovuto usare un’espressione più alla moda, “bolla”, bolla delle dot-com, uno spazio dove si incontrano le persone che sentono un’affinità tra di loro, una comunità di idee, convinzioni, abitudini, interessi. Sono consapevole che non tutti leggono e non tutti si commuovono di notte per le sorti dei protagonisti letterari. Credo però che la letteratura, la capacità di raccontare storie, sia un grande traguardo della civiltà umana. È universale e sincretica. Ovviamente, viene espressa in diverse lingue, ma non ha cittadinanza. Grazie ad essa possiamo comunicare tra di noi a un livello psicologico assai profondo che rende collettivo e universale ciò che è singolo e locale».(traduzione di Monika Wozniak )