La Lettura, 3 settembre 2023
Le previsioni catastrofiche
Non passa giorno che non si levino lamentazioni contro la società informatizzata, l’invadenza del digitale e la minaccia rappresentata dalle nuove tecnologie, con un crescendo che accomuna molti filosofi, sociologi e antropologi, interpreti di una sorta di «sociologia distopica».
La distopia o utopia negativa è un termine usato a partire dagli inizi del Novecento per indicare quei romanzi fantapolitici che immaginano un futuro nefasto: da Il tallone di ferro di Jack London (1908) al Racconto dell’ancella di Margaret Atwood (1985), passando per Il mondo nuovo di Aldous Huxley (1932). Incubi che mettono in guardia dal persistere nell’errore e spingono a prendere provvedimenti. Lo scopo delle distopie è proprio quello di evitare che le condizioni immaginate si realizzino. Hanno, insomma, una funzione deterrente.
Così una sociologia distopica, passando dal piano letterario a quello scientifico, dipinge società indesiderabili da cui rifuggire, proiettando le criticità del presente nel futuro immediato, amplificandone gli effetti negativi, sempre partendo da preoccupanti tendenze o segnali preesistenti.
Tra questi prevale il timore per una tecnologia incontrollabile. I nipotini di Günther Anders, il filosofo tedesco ossessionato dalla minaccia atomica, crescono in misura esponenziale: Martin Rees (Il secolo finale, Mondadori, 2004) calcola una probabilità del 50% che l’umanità si autodistrugga entro i prossimi cento anni. Gerd Leonhard (Tecnologia vs umanità, Egea, 2019) e Ian Bremmer (Il potere della crisi, Egea, 2022) riflettono sugli effetti destabilizzanti delle nuove tecnologie, mentre per Yuval Noah Harari (Homo Deus, Bompiani, 2018) vi sono serie possibilità che il genere umano diventi «superfluo». E c’è chi arriva a formulare una vera e propria «collassologia», come in Convivere con la catastrofe (Treccani, 2021) di Pablo Servigne e Raphaël Stevens, con postfazione di Yves Cochet, dove si preconizza addirittura il crollo generale del sistema mondiale.
Siccome anche le analisi sociologiche, quando sono catastrofiche, hanno lo scopo di mettere in guardia dal proseguire lungo una strada impervia, producono sensibili effetti in ambito personale e politico-economico. Nelle persone, già perplesse per le difficoltà attuali, radicalizzano la sfiducia in ogni iniziativa progettuale che dovrà scontrarsi con le avversità prefigurate. Sul piano comportamentale sono motivo di indifferenza, chiusura verso l’esterno e ripiegamento di ogni energia nella routine del presente. Il futuro, visto attraverso la lente distopica, è un corpo oscuro entro il quale è meglio non avventurarsi: come nella Grecia di Esiodo, lo sguardo si volge al passato, verso l’età dell’oro, in cui rintracciare conferme e speranze. Soprattutto se nell’immediato si prospetta una tempesta perfetta, come avverte Nouriel Roubini (La grande catastrofe, Feltrinelli, 2023), dove confluiscono crisi economica, cambiamento climatico, collasso demografico, limiti all’immigrazione e, ovviamente, supremazia tecnologica.
Se a livello personale la sociologia distopica è un potente freno allo sviluppo dell’individuazione, sul piano politico-economico gli effetti sono ancor più macroscopici, poiché coinvolgono scelte a medio e lungo termine, con conseguenze sensibili sulle generazioni a venire.
Scrivere che l’Intelligenza artificiale, ad esempio, creerà problemi di convivenza con l’uomo, potrebbe influenzare le decisioni relative allo stanziamento di fondi per la ricerca, dirottati su altri settori. Una reazione inevitabile, a leggere quanto scrive Henry Kissinger, assieme a Daniel Huttenlocher ed Eric Schmidt, in L’era dell’Intelligenza artificiale (Mondadori, 2023). Gli autori ritengono che stiamo percorrendo «un sentiero pericoloso, poiché l’IA sta cambiando il pensiero, la conoscenza, la percezione, la realtà e, di conseguenza, il corso della storia».
Perché tutta questa paura della tecnologia? È vero che le distopie sono utili avvisi ai naviganti, affinché non si spingano in acque pericolose, ma pensare davvero che la tecnologia rappresenti il male assoluto o persino prefigurare una disumanizzazione sembra eccessivo. Si finisce per temere i Big Data come si temeva la bomba atomica, si sospetta che l’intelligenza artificiale possa surclassare quella umana, che le macchine dominino il mondo, fino a immaginare una società di controllo ben più efficace di quella denunciata da Gilles Deleuze.
Ma intanto le persone si affrettano a sottoporsi a quello stesso controllo finora temuto, grazie ai loro smartphone, ritenendo di essere più protetti e più liberi. Una vittoria dell’informatizzazione senza coercizione, che tuttavia non sarà mai definitiva, almeno finché esisteranno lo spirito critico e la possibilità di disubbidire alle imposizioni.
Nessuno vuole una sociologia distopica. È il lato negativo di un pharmakon che potrebbe ridare fiducia a un’umanità già provata da pandemia e venti di guerra. Se poi si considera che il sociologo non dovrebbe prevedere il futuro, ma limitarsi a osservare la realtà attuale per comprenderla, si avrà che la sociologia distopica contravviene alla regola principale di ogni ricerca scientifica: attenersi alla prova dei fatti. Non è basata sui fatti, ma sulle proiezioni, partendo da modelli che sviluppa attraverso gli algoritmi. Ora sappiamo che gli algoritmi hanno la pessima abitudine di indirizzare gli eventi: sono stati definiti, per questo, «algoritmi predittivi», poiché riescono a darci una raffigurazione realistica del nostro futuro. Ma allo stesso tempo, così facendo, lo influenzano e lo determinano. Ovvero predispongono le condizioni (psicologiche, politiche, culturali) affinché quel futuro si avveri. Svolgono lo stesso ruolo – indicato a suo tempo da Robert Merton – delle profezie che si auto-avverano.
La sociologia distopica, ben oltre l’intuizione di Merton, appare più temibile proprio perché riesuma paure ataviche e insicurezze profonde. Ma tutte le distopie, anche quelle gratificate dal supporto algoritmico, sono per natura incerte, revisionabili, dirottabili: ciò che crea discontinuità, che può invertire il processo entropico – tendente sempre alla stabilizzazione – è infatti l’imprevisto. La vittoria del caso e della necessità.