La Lettura, 3 settembre 2023
Il romanzo definitivo di Olga Tokarczuk
Quando, nel 2019, Olga Tokarczuk ricevette il premio Nobel per la letteratura (per l’anno precedente), il suo nome apparve ad alcuni come la conferma di un vecchio pregiudizio contro l’Accademia di Svezia, che andrebbe a cercare nomi oscuri onde deludere chi tifa per autori troppo celebri, o rieducare chi osa tifare per quelli midcult. Ad alimentare il pregiudizio, la contemporanea premiazione del più noto Peter Handke, che per di più si prese la scena con le polemiche relative al suo apprezzamento per Slobodan Miloševic. Ma i lettori italiani più avveduti avevano già gli anticorpi contro tale pregiudizio, dato che nottetempo aveva pubblicato diversi libri di Tokarczuk, come il magico-realista Nella quiete del tempo o il fanta-thriller femminista Guida il tuo carro sulle ossa dei morti, e, al momento del Nobel, Bompiani aveva appena dato alle stampe il sebaldiano I vagabondi. Tutti titoli che testimoniavano l’ecletticità dell’autrice, oltre che il suo stile impeccabile; tuttavia, restava l’impressione che per una bibliografia «da Nobel» mancasse uno di quei romanzi-mondo di enorme ambizione tematica e formale, capaci di strappare vasti territori all’inesistente e far sì che lettori, critica e colleghi si chiedano: «Ma come ha fatto?». In realtà, quel romanzo esisteva, era uscito nel 2014, e a ben guardare era anche al centro delle motivazioni espresse dall’Accademia. Solo, non era stato ancora tradotto in italiano (né in inglese). Il 6 settembre, dopo molteplici rinvii della data d’uscita, arriva finalmente per Bompiani I libri di Jakub, nella traduzione di Ludmilla Ryba e Barbara Delfino, e tutti i lettori potranno prendere atto del fatto che l’Accademia svedese aveva semplicemente localizzato e indicato una delle più grandi autrici del nostro tempo. L’autrice poi, domenica 10, chiuderà il Festivaletteratura.
Il titolo fa il paio con la mole – 1.120 pagine, numerate all’indietro in omaggio alla tradizione libraria ebraica – nel lanciare suggestioni bibliche, ma per quanto le sacre scritture abbiano un ruolo rilevante nei Libri di Jakub, il Giacobbe di cui si parla nel romanzo non è quello della Genesi, bensì Jakub Frank, controversa figura della Polonia settecentesca, avventuriero, manipolatore, eresiarca e auto-proclamato messia. Frank trovò spazio proponendosi come reincarnazione di Sabbatai Zevi, cabalista del secolo precedente e a sua volta messia auto-proclamato, la cui dottrina ancora nel Settecento trovava seguaci tra gli ebrei polacchi. Il «frankismo», però, arrivava a includere elementi di dottrina cristiana e islamica, e addirittura un’idea gnostica di illuminazione attraverso la trasgressione.
Per quanto I libri di Jakub sia un romanzo storico, si distacca dal genere per le modalità espressive, che sono appunto quelle del «grande romanzo massimalista»: un romanzo storico tradizionale ci avrebbe raccontato la curiosa storia di Jakub Frank attraverso la sua vita, ponendo sullo sfondo le vicende dell’epoca, come il collasso della Confederazione polacco-lituana. Tokarczuk ribalta invece la prospettiva, mettendo al centro della scena decine e decine di personaggi minori: rabbini, mercanti, villici, scribacchini, pazzi e diplomatici, ognuno con la sua prospettiva sul mondo e la sua storia personale, e ricostruisce la grande vicenda umana e spirituale di Jakub Frank attraverso una moltitudine di punti di vista, documenti, racconti, dialoghi e visioni, facendola divenire il canale principale di un bacino dove confluiscono riflessioni teologiche, storia del costume, geopolitica, dottrine scientifiche e pseudoscientifiche e considerazioni sull’antisemitismo.
In filigrana, ne emerge anche un ritratto inedito della Mitteleuropa in un periodo storico noto ai lettori polacchi e lituani ma per lo più sconosciuto a tutti gli altri: Tokarczuk fa iniziare il suo grande viaggio nel 1752 a Rohatyn, città oggi situata in Ucraina e all’epoca sotto il dominio polacco, ma condurrà i lettori in ogni angolo dell’Europa centrale (e non solo: si va anche in Grecia e in luoghi che non appartengono alla geografia umana). Facciamo così la conoscenza di padre Chmielowski, impegnato nella scrittura di un’«enciclopedia definitiva» (realmente esistita: s’intitola La Nuova Atene) e del suo amico rabbi Elisha Shorr; della nobildonna Katarzyna Kossakowska e della sua accomagnatrice Elzbieta Druzbacka, che diventerà corrispondente dell’enciclopedista; del medico ebreo Asher Rubin e del vescovo giocatore Kajetan Sołtyk; del tipografo Josef Golczewski e del giovane Nachman Jakubowski, che vuole scrivere un libro su Jakub Frank (in un romanzo così non poteva mancare certo un piano metaletterario), fino ad arrivare proprio a Frank, che nel frattempo ha raccolto una ragguardevole corte di accoliti, e viaggia con loro tra l’Europa orientale e l’Impero Ottomano alla ricerca di una terra promessa in cui praticare il nuovo culto.
Tra mille vicende sia storiche che finzionali, Tokarczuk sceglie di porsi in una prospettiva di tipo «divino», poco frequente in un panorama letterario traboccante di narrazioni non solo in prima persona, ma anche centrate sull’esperienza diretta dell’autore. Non lo fa tornando indietro al romanzo ottocentesco, come proponeva poco lucidamente Jonathan Franzen una decina d’anni fa, ma cercando una sorta di «quarta persona» (parole dell’autrice), ovvero una visione in terza persona non per forza onnisciente, a volte sovrapponibile ai personaggi, a volte capace di volare più in alto o molto più in alto.
Non è la prima volta che Tokarczuk mira a trascendere i punti di vista umani – si pensi agli squarci lisergici che scandiscono Nella quiete del tempo — ma in questo caso il tentativo è sistematico e passa attraverso la figura della mistica visionaria Yente, introdotta fin dal prologo (per chi se lo chiedesse: sì, ci vorra molto, molto tempo prima di incontrare Jakub Frank in persona) e capace di vedere «ogni cosa dall’alto».
Un tipo di ricerca che conferma il posizionamento di Tokarczuk tra i «nuovi metafisici», assieme al romeno Mircea Cartarescu, al bulgaro Georgi Gospodinov e all’ungherese László Krasznahorkai, sebbene rispetto a questi autori la polacca abbia dalla sua anche una particolare capacità di raccogliere influenze dai propri immediati contemporanei: come nei Vagabondi si dimostrava la prima autrice in grado di rielaborare in modo nuovo la lezione di Sebald, qua, come indica chiaramente il sottotitolo — Il grande viaggio/ attraverso sette frontiere, cinque lingue e tre grandi religioni,senza contare quelle minori. / Narrato dai morti, e dall’autrice completato col metodo della congettura, da molti e vari libri attinto,/ e sorretto inoltre dall’immaginazione che dei doni naturali dell’uomo è il più grande... —, tra i punti di riferimento c’è il lavoro di William T. Vollmann sul romanzo storico, innervato da una sensibilità prettamente europea. Come il miglior Vollmann, Tokarczuk riesce a catturare una sfuggente «metafisica della storia» e a trascendere così il genere: I libri di Jakub non sarebbe il grande romanzo che è se si limitasse al passato – o alla riflessione su come il romanzo storico si rapporti a esso – e non ci raccontasse qualcosa anche dell’oggi; e se il suo Jakub Frank a volte assomiglia a figure carismatiche come Sai Baba, Sun Myung Moon o il fondatore di Scientology L. Ron Hubbard, anche il mondo in cui si muove, vittima di forze centripete incontrollabili, ci dice qualcosa del nostro – o meglio, ci avverte come un’oscura profezia.