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 2023  settembre 08 Venerdì calendario

La maledizione degli scrittori

 Capire, con angoscia, che il vero libro che volevamo realizzare è già stato pubblicato da qualcun altro. La tesi del grande autore del quale quest’anno si celebra il centenario dalla nascita. Come leggiamo in queste due prefazioni

Tutto è già stato scritto? Sulla fascetta del romanzo di Moravia c’è scritto: 1848, La Signora delle camelie; 1947, La Romana. In una nota su una rivista, a proposito dello stesso libro, Moravia dice che il suo modello ideale è stato la Moll Flanders di Defoe. Forse è la maledizione degli scrittori d’oggi: sentire, a ogni nuovo libro che si scrive, la presenza d’un altro libro già scritto, e capire, ogni volta, con angoscia, che il vero libro che volevamo scrivere è quell’altro. Forse il grido di Mallarmé: La chair est triste, hélas! et j’ai lu tous les livres,potrà essere da noi parafrasato in un non meno disperato: Tous les livres sont écrits.–Bisogna scrivere ilRobinson Crusoe – mi andava dicendo un giorno Elio Vittorini. – Tu devi scrivere ilRobinson Crusoe. – E io sentii su di me quasi un peso di disperazione: essere arrivato due secoli in ritardo e aver trovato il «mio» libro già scritto, riga per riga. Oggi gli scrittori sembrano incapaci d’inventare nuove favole per l’umanità: smontano e rimontano i miti antichi. I francesi riverniciano Antigoni ed Euridici; in Italia perfino Cesare Pavese, scrittore interessato al suo tempo quant’altri mai, sta per pubblicare un volume di dialoghi mitologici.Ma forse in questo cercar modelli nel passato c’è tutta una nostra scontentezza d’epigoni, tutta una nostra verginità di speranze. Il libro che ho scritto, che forse è un romanzo con i denti nelle labbra e le unghie nei palmi come i nostri giorni, l’ho scritto senza potermi togliere dalla mente, quasi il simbolo d’una purezza di cuore che forse un giorno ritroveremo,L’isola del tesoro di Stevenson, con i suoi limpidi colori, il suo trepido gioco, la sua certezza di male e di bene.
Prefazione all’edizione francese del “Sentiero dei nidi di ragno” Questo libro viene tradotto in Francia più di trent’anni dopo la sua uscita in Italia, e forse al pubblico d’oggi sono necessarie alcune parole per inquadrarlo. Ho scritto Il sentiero dei nidi di ragno nel 1946, quando avevo ventitré anni; era il primo romanzo da me scritto. Fu pubblicato nel 1947, dalle edizioni Einaudi di Torino, dopo esser stato letto da Cesare Pavese che gli dedicò anche un articolo caloroso. L’azione del romanzo si situa nel periodo dell’occupazione tedesca e della guerriglia delle bande partigiane contro i tedeschi e i fascisti (settembre 1943 – aprile 1945). I luoghi sono una città indeterminata della riviera ligure e i boschi delle montagne intorno. Io avevo vissuto quel periodo (e tutta la mia vita prima d’allora) a San Remo e nel suo entroterra, dove avevo fatto parte delle formazioni partigiane, nelle valli dietro il fronte tedesco delle Alpi Marittime nel ’44-’45.
Ancora a caldo di quest’esperienza avevo cominciato a scrivere e, sebbene le vicende che racconto siano immaginarie e i personaggi non rispondano che alle esigenze della narrazione, la materia prima del romanzo mi era fornita da tipi umani, voci, battute di dialogo, situazioni che avevo conosciuto direttamente. Il piacere di raccontare è stato certo la prima molla che mi spingeva a scrivere – e questa è la ragione per cui Cesare Pavese aveva trovato il mio libro diverso dagli innumerevoli altri che sullo stesso argomento venivano pubblicati inquegli anni. Ma a farmi scrivere era presente in me anche il bisogno di comprendere il significato che quelle violente esperienze avevano avuto nella vita collettiva e individuale, fuori di ogni retorica celebrativa o didascalica, cercando di non abbellire niente, di non staccarmi mai dal linguaggio parlato.
Il mio programma in letteratura, che si saldava con la problematica politica che stavo vivendo (a quel tempo io militavo nel partito comunista, con l’intransigenza propria della gioventù e il pathos degli inizi proprio di quegli anni in cui tutto – almeno per noi in Italia – sembrava ancora da inventare) era di evitare qualsiasi predeterminazione intellettuale che privilegiasse il «soggetto cosciente», il caso esemplare, l’immagine rassicurante dell’«eroe positivo». Quello che volevo rendere era il ribollire confuso ed elementare, il magma umano da cui prende forma la storia.
L’effetto che mi fa questo romanzo a rileggerlo oggi è quello di un’estrema lontananza: nella sua ingenuità – politica, psicologica, letteraria – mi sembra di non poter riconoscere nulla di me stesso. O forse è proprio riconoscere la mia voce a tanta distanza che mi riempie d’imbarazzo? Ma non è soltanto questo che sento: al di là del documento d’una fase della mia formazione, mi sembra a tratti di riconoscere l’eco d’una voce anonima, che potrebbe essere quella dell’esperienza collettiva d’un’epoca. Se non è un’illusione, se qualcosa si sente nel libro che non è solo scritto da me, è questo qualcosa che può far leggere il libro oggi