la Repubblica, 8 settembre 2023
Intervista a Emilio Gentile
«Quelgiornonon è morta la patria, comesicontinua a ripetere. Piuttosto, l’Italia ha conosciuto l’esperienza drammaticadi unoStato che si sfascia: unatragedia, perché da quelmomentonientepuò garantire che possa durarein eterno». Ottant’anni dopo, Emilio Gentile rilegge la data dell’8 settembre 1943, con la fugaa Brindisi di Vittorio Emanuele III e di Pietro Badoglio coi vertici militari, lasciandoil Paese senza guida e senza comando, l’esercito allo sbando,la capitale sguarnita davanti all’assalto tedesco. Per lo storicodel fascismo quel giorno pesa ancora sul calendario civile italiano, col tradimento dei vertici istituzionali rispetto ai loro doveri.
Un’ombra che arrivafino ad oggi: vediamoperché.
Professore, si poteva evitare quella fuga notturna del re insieme col Capo del governo?
«Chi l’aveva decisa non pensava a nessuna alternativa. Ma ebbe un ripensamento il principe ereditario Umberto: mai associato dal padre in nessuna decisione di rilievo della Corona, durante il viaggio avverte la necessità che almeno un membro della famiglia reale sia presente a Roma per fronteggiare i tedeschi, e chiede di poter tornare nella capitale.
Umberto capisce che è in gioco il destino delle monarchia, e le scelte di quel momento sono decisive. Certo se il principe avesse preso parte a un’azione anche simbolica di resistenza, avrebbe probabilmente trascinato molti civili e militari con sé. Ma Vittorio Emanuele e Badoglio lo bloccano».
L’armistizio firmato in segreto il 3 settembre con gli Alleati non aveva segnato una seconda svolta, dopo l’arresto di Mussolini?
«Ma come si arriva all’armistizio?
A tentoni, nel massimo della segretezza e nel massimo della confusione. Il governo (in forma non ufficiale per paura d’essere scoperto dai tedeschi) spedisce quattro inviati speciali dagli Alleati per capire se è possibile un accordo che consenta di fronteggiare i tedeschi, e su questa base giungere all’armistizio. Sono episodi paradossali. Il generale Castellano consiglia addirittura agli angloamericani cosa devono fare, proponendo loro di sbarcare a Livorno e a Rimini, scacciare i tedeschi e poi discuterel’armistizio. Siamo nell’assurdo di un Paese che va dai suoi nemici non per arrendersi, ma a cercare aiuto per liberarsi del suo alleato: inconcepibile».
Com’è possibile che il re e Badoglio pensassero di “lavorare di ricamo” tra i due contendenti, spostando l’Italia dall’Asse su una posizione di neutralità?
«La nota dominante in realtà è il terrore della reazione di Hitler,che paralizza ogni azione italiana. Il risultato è che i tedeschi intuiscono questa ambiguità italiana, sospettano, incalzano e soprattutto entrano nel nostro Paese da padroni, senza nessuna opposizione. E siamo appena ad agosto, con un rapporto di forze favorevole alla difesa».
Sta dicendo che si poteva resistere?
«In quel momento sicuramente sì, i tedeschi erano in condizionid’inferiorità. A Roma potevano contare su 25 mila uomini sotto il comando del maresciallo Kesselring, mentre i soldati italiani erano circa 50 mila. Ma si perde tempo, ore, giorni, lasciando lo spazio a Hitler di organizzare il movimento delle divisioni naziste che si radunano a Innsbruck per scendere in Italia dal Brennero».
Quindi l’8 settembre italiano è figlio della confusione, della
paura e dell’ambiguità?
«Per capire bisogna districarsi in una rete fittissima di menzogne, spiegazioni di comodo, ricostruzioni a posteriori, verità taciute. Aggiungiamo che nella frenesia della fuga dei vertici istituzionali vengono bruciati moltissimi documenti che sarebbero utili a decifrare scelte e responsabilità. Dopo la firma segreta dell’armistizio, dal 4 all’8 di settembre è tutto un gioco degliequivoci, con gli italiani convinti di aver tempo per l’annuncio della resa fino al 12, mentre sapevano benissimo che la data prevista era l’8».
Ancora il giorno 8 Badoglio chiede an Eisenhower di rinviare: perché?
«Un espediente dettato dalla paura, perché da parte del governo non c’è astuzia, non c’è machiavellismo: solo paura. Tutto è molto più semplice: quelle ore incredibili tra il 3 e l’8 settembre ancora oggi lasciano sgomenti per la totale irresponsabilità e la viltà dell’intera classe dirigente militare e politica, che si ostina a fare il doppio gioco. Con un solo scopo: salvare i membri della corona e degli alti comandi e il Capo del governo».
L’ambiguità si traduce in una raffica di assicurazioni menzognere ai tedeschi, documentate nei rapporti dell’ambasciatore Rahn a Hitler: mentono tutti?
«Dal re all’ultimo generale, passando naturalmente per Badoglio: tutti. Il primo settembre il ministro degli Esteri Guariglia garantisce a Rahn che il governo è deciso a non capitolare. Il 3, vale a dire il giorno in cui è firmato l’armistizio, è Badoglio che insiste: “noi combatteremo e non capitoleremo mai”. Il 4 il generale Ambrosio, Capo di stato maggiore, conferma ai tedeschi la volontà di continuare la guerra comune. E addirittura l’8 settembre scende in campo il re, per assicurare che il legame dell’Italia con la Germania “è per la vita e per la morte”».
Dall’altra parte ci sono i bombardamenti angloamericani sulle città italiane esauste, gli appelli di Eisenhower direttamente agli italiani perché caccino i tedeschi dal loro territorio appoggiando le forze di liberazione. Il re e Badoglio dove volevano arrivare con l’illusione di giocare nello stesso tempo sia i tedeschi che gli Alleati?
«Non c’è una strategia, si vive alla giornata, cercando di guadagnare tempo per non assumere nessuna responsabilità. Com’è possibile, razionalmente, che il re e Badoglio pensino di riuscire a convincere Hitler a inviare più armi e più uomini, o addirittura a tollerare un disimpegno italiano,se non c’era riuscito Mussolini nell’ultimo vertice di Feltre?
Aggiungiamo che in quel momento non corre buon sangue tra il Capo dello Stato e il Capo del governo. La politica fortemente repressiva di Badoglio, con 83 morti fra i manifestanti negli scontri con le forze dell’ordine, centinaia di feriti e oltre 1500 arrestati solo negli ultimi giorni di luglio, e nessuna concessione di libertà, stava allarmando anche il sovrano, alimentando la sua paura che nel malcontento generale i comunisti potessero prendere forza».
La prima preoccupazione di Badoglio dopo l’armistizio è scrivere a Hitler?
«È organizzare la fuga, per salvare il re con alcuni ministri e generali, lasciando all’oscuro della decisione il resto del governo e dei comandi, che rimangono a Roma, abbandonati al loro destino. Ilterrore della possibile reazione tedesca – che, ripeto, domina ogni cosa – blocca anche le comunicazioni tra lo stato maggiore generale, lo stato maggiore dell’esercito, e i comandi delle forze italiane nella penisola e in tutti i territori di guerra dove erano dislocate. I reparti sono abbandonati alla vendetta dei tedeschi.
L’ossessione della segretezza non è a salvaguardia del Paese, ma di chi ha deciso di abbandonare la capitale. Marina e Aeronautica nulla seppero delle trattative. Il rimo aiutante di campo del re, il generale Puntoni, l’8 mattina scrive nel suo diario che ci sono solo vaghe voci di armistizio: è all’oscuro anche lui».
Eppure già a luglio il re aveva incaricato Puntoni di preparare un piano di fuga da Roma: c’era dunque un piano strategico?
«Un piano no, ma solo ipotesi campate in aria: si era parlato di portare il re in Sardegna o alla Maddalena. Per il resto niente strategia, solo timori e mancanza di senso del dovere. Che non riguardano soltanto il re e Badoglio. Il Capo di stato maggiore generale Ambrosio proprio il giorno prima che arrivi il generale Taylor, comandante delle divisione di paracadutisti che deve difendere Roma, evita di incontrarlo, perché parte in treno per Torino, e rientra in treno la mattina dell’8. È uno scaricabarile: Taylor deve far svegliare Badoglio nella notte, perché non trova interlocutori a cui comunicare le decisioni operative di Eisenhower. Si capisce che non solo i tedeschi sospettano l’Italia di doppio gioco, ma anche gli Alleati».
Un doppio gioco che così diventa triplo: fino a quando?
«Finché mostra la corda, com’era inevitabile. Nell’ultimo cosiddetto Consiglio della corona si pensa di sostituire Badoglio, denunciare l’armistizio e continuare la guerra con un’ultima capriola. Infine la fuga rivela le menzogne, l’ambiguità, la paura. Tutto diventa chiaro, purtroppo».
Ma Badoglio e il re invocheranno a giustificazione della fuga da Roma il pericolo di una cattura tedesca del Capo dello Stato e del Capo del governo che avrebbe decapitato le istituzioni,cancellando l’armistizio con gli Alleati e riportando il fascismo al potere. C’era questo rischio?
«Certo lo ha ingigantito il prelevamento tedesco di Mussolini dal Gran Sasso. Ma bisogna tener conto che non tutti nel vertice tedesco avrebbero approvato una soluzione del genere. Kesselring ad esempio temeva la possibile reazione dell’esercito, monarchico per tradizione. In ogni caso, la fuga resta una fuga: soprattutto per le modalità in cui è stata decisa.
Senza informare gli altri membri del governo, lasciati a Roma, senza lasciare disposizioni per la difesa della capitale, senza ordini per i reparti, abbandonati a se stessi. Un intero esercito, dispiegato dalla megalomania di Mussolini dalla Francia ai Balcani, alla Grecia, alle isole del Dodecanneso, precipita nello sbando, al buio, senza guida esenza un riferimento istituzionale. Non ci sono indicazioni su come resistere, tutto è sospeso e ambiguo, come la frase del Capo di stato maggiore dell’esercito, Roatta: “ad atti di forza reagire con atti di forza”».
Più che un ordine, una tautologia militare?
«Appunto: col risultato di lasciar soli e indifesi oltre mezzo milione di soldati e i reparti che hanno deciso autonomamente di resistere condannandoli al massacro, come a Cefalonia e Lero. Ma è l’intera Italia che è abbandonata, anzi trasformata in campo di battaglia di due guerre, che diventeranno tre con Mussolini che dalla repubblica di Salò scatena la guerra civile».
In casa Savoia solo Umberto capisce che in queste scelte la monarchia si gioca il futuro?
«No, prima e più di lui la moglie, Maria José. Confida all’ex ministro Soleri che vede buio per il futuro della monarchia, ha rapporti continui con gli antifascisti. Non a caso il re la detesta e la allontana a Sant’Anna di Valdieri, e il generale Puntoni registra le formule di cui si circonda: in casa Savoia si regna uno per volta, e le donne non fanno politica. L’esito è la fuga».
Come se il re e Badoglio fossero fuggiti nottetempo dallo Stato: è così?
«Esattamente. Vittorio Bachelet, che ha 17 anni, vede dal treno che lo porta a Roma in quei giorni lo sfacelo dell’esercito, il disfacimento dello stato maggiore, soldati che gettano dal finestrino divise, mostrine, armi, bombe a mano. Si sfasciava non un regime, ma lo Stato nazionale».
Dunque l’8 settembre è la crisi dello Stato?
«La sua dissoluzione. Ottant’anni prima l’Italia era diventata uno degli Stati liberali europei, dopo oltre mille anni aveva creato l’unità del suo territorio sui principi di libertà e di uguaglianza di fronte alla legge. Con l’8 settembre questo Stato non c’è più, e gli antifascisti vivono questa tragedia sulla loro carne, perché in quei giorni non possono immaginare quale sarà il futuro. E infatti ci vorranno due anni di sacrifici e sangue per riconquistare ciò che in quel momento è andato perduto».
Che lezione ci resta dell’8 settembre?
«Amara. Dal 1861 abbiamo vissuto tre regimi, due guerre mondiali, una vinta, una persa catastroficamente. Ma fino al ’22 abbiamo avuto uno Stato liberale che ha consentito anche ai suoi avversari di operare, garantendo porzioni crescenti di diritti e libertà. Poi, dopo un ventennio di statalismo forsennato, 77 anni di repubblica hanno permesso anche ai nostalgici del fascismo di affermarsi. Perché dunque l’ombra dell’8 settembre dura così a lungo e pesa così tanto sulla nostra coscienza civile? Perché abbiamo imparato da quel giorno che lo Stato delle libertà può non garantire la sua sopravvivenza».
Che cosa teme, professore?
«Guardi, ho la stessa età della repubblica, dunque le mie preoccupazioni non riguardano me, ma le generazioni cui appartengono i miei nipoti. Temo una democrazia senza più valori, puro recipiente o espediente recitativo, dove chi vince governa, ma quasi metà della popolazione non vota. Come se non fosse più possibile credere in qualcosa, e costruire insieme una democrazia migliore».