La Stampa, 8 settembre 2023
Intervista a Romano Prodi
Alle 11 del mattino Romano Prodi è al lavoro nel suo studio bolognese. Ha già consultato i quotidiani, nazionali e internazionali. È interessato alle tesi del nuovo libro di Thomas Piketty e Julia Cagé, che esce oggi in Francia, ma di cui ha letto parecchie anticipazioni. Gli squilla il cellulare, a tutto volume, e parte l’Inno alla gioia di Beethoven. Sorride davanti alla domanda: «Ma davvero?». «Scusi, ma che suoneria vuole che abbia io, se non l’inno europeo?».
Il governo è alle prese con la difficoltà della manovra. Una delle speranze è che l’Europa non torni alle vecchie regole del patto di stabilità. È giusto cambino radicalmente?
«Durante la mia presidenza della Commissione europea ho avuto problemi per aver definito il patto di stabilità stupido, perché poco flessibile. Ma attenzione, stiamo andando verso un livello di deficit che altro che patto di stabilità! Dobbiamo fare un salto come quello di Gianmarco Tamberi ai mondiali per farcela. Ci stiamo allontanando dalla logica dei parametri che servono a lavorare insieme. Stiamo esagerando e non è che si possa dare la colpa al nostro commissario».
Secondo il vicepremier Salvini il commissario Gentiloni lavora contro il suo Paese. Lo ritiene credibile?
«Il leader della Lega strumentalizza a uso politico qualsiasi cosa gli sembra possa essere gradita al palato di chi deve ingoiare le sue parole, ma dimentica due cose: nessuno può accusare il nostro commissario di non essere attento agli interessi degli italiani e di non prendere in considerazione il nostro punto di vista. Allo stesso tempo, un commissario giura fedeltà all’Europa, non è un avvocato prezzolato del governo. Gentiloni dev’essere un serio arbitro e come tale si sta comportando. Se non fosse così avrebbe tutti contro e non sarebbe certo questo l’interesse dell’Italia. Ma poi le pare si possa considerare Gentiloni squilibrato?».
L’uscita di Salvini rivela il persistente scetticismo della destra nei confronti delle istituzioni europee?
«È quella che si definirebbe un’uscita di copertura. Di fronte a una situazione di difficile controllo, intanto si dà un calcio sugli stinchi all’arbitro che ha il compito di armonizzare l’interesse del proprio Paese a quello generale».
Ha ragione Draghi, senza una maggiore sovranità condivisa, senza un rafforzamento del centro mentre la periferia si allarga, l’Europa non può reggere?
«Le tesi di Draghi sono le fondamentali tesi di sopravvivenza dell’Europa, piene di serietà e buon senso. Se torniamo alla “non condivisione” è inutile credere ancora nell’Europa. Aggiungo che bisogna presto, presto, presto arrivare a una riforma sostanziale del modo di procedere nell’Ue. E su alcuni temi fondamentali, come sicurezza e politica estera, lavorare con la maggioranza qualificata. È tragico pensare come ormai nessuno consideri più l’Europa in nessuna delle grandi controversie internazionali. Nessuno la considera attrice di una pace possibile in Ucraina. Né un arbitro rispetto alla frattura tra Brics e G7. Purtroppo è considerata una realtà in decadenza».
Secondo lei c’è la speranza che qualcuno, magari dalle parti di Francia e Germania, ascolti questo tipo di appelli?
«Ormai siamo in fase preelettorale e sono molto pessimista, perché sta diventando interesse generale, per riprodurre gli attuali equilibri nel dopo elezioni, fare il meno possibile. Potrebbe agire Macron, ma è in una situazione di estrema difficoltà interna. La coalizione tedesca ha troppi punti di divergenza e si dedica soprattutto ad una azione di mediazione: questo difficilmente può produrre la leadership di cui c’è bisogno. Non parliamo dell’Italia che, per dirla come si usa da queste parti, in materia di politica europea deve ancora decidere “se andare a messa o stare a casa”. Non si capisce cosa stia a cuore al governo, quindi non vedo chi possa portare avanti le belle tesi di Draghi».
Siamo destinati a vedere l’Europa andare sempre più a destra o quel che è successo in Spagna dimostra che può nascere un argine?
«Il problema è ripensare la politica. La tesi principale del libro di Cagé e Piketty, un’opera di quasi 900 pagine, assomiglia a un’idea che ho in mente da tempo sul grande problema della sinistra. In Europa abbiamo, come in tutto il mondo, una separazione psicologica oltre che politica tra la parte urbana e la parte rurale. In Italia potremmo definirle la parte del centro e quella della periferia, non necessariamente rurale. Noi siamo portati a pensare che la sola differenza rilevante sia quella tra ricchi e poveri. Differenza importantissima, ma non sufficiente a spiegare le diversità dei comportamenti. Faccio un esempio emiliano: il voto del Pd domina fino a 4 chilometri a sud e 4 chilometri a nord della via Emilia, ma perde in città ricchissime come Carpi e Mirandola. La tesi dice: attenzione, la sinistra non ha saputo unire le due Italie. Come in Francia, anche nel nostro Paese la protesta di chi vuole il cambiamento nell’Italia periferica prende una direzione diversa rispetto a chi esprime le stesse esigenze nelle aree centrali. Il riformismo diviso non può mai vincere».
Una frattura un po’ più complessa di come l’abbiamo sempre letta.
«Esatto. I cosiddetti riformisti vanno su due linee totalmente diverse a seconda che si sentano appartenere al nucleo centrale della società e al nucleo periferico. E invece, quel che serve è una grande ricomposizione che si compie, semplicemente, applicando la democrazia. Peccato che ormai i partiti siano finti».
In che senso finti?
«Non c’è più la gente, parlano i dirigenti fra di loro. Io ho vinto le elezioni dopo quello strano viaggio di un anno in cui ho intuitivamente rimpastato il Paese, andando nei piccoli e nei grandi centri. Se la sinistra, se i riformisti, vogliono riprendere un ruolo, devono rimpastare l’Italia. Usando non più l’autobus, ma la rete con appelli a centinaia di migliaia di persone per discutere e poi fare sintesi. Se fanno questo, recuperano il Paese».
Sembra stia dando i compiti per casa, ma non è sicuro ci sia qualcuno in grado di svolgerli.
«Gli scontenti, quelli che vogliono maggiore giustizia sociale, si dividono tra gli scontenti della periferia e quelli del centro. L’Italia è molto più periferia che centro e quindi è chiaro che se la sinistra non rimpasta le istanze, la destra non potrà che prevalere. Ho in mente uno strano meccanismo. Prendere le 15 parole di cui discutiamo a tavola, droga disoccupazione pace salari e così via. Quindici parole che rappresentano le ansie di tutti. Le fai discutere in rete da persone sagge, anche non di partito. Una parola alla volta, ogni settimana. Il sabato il segretario va in una città simbolica e, in presenza, apre la discussione. Quindici settimane dopo hai pronto lo schema di programma. Questa è la democrazia, sentire il popolo. A un secolo dalla mia campagna elettorale incontro ancora persone che mi dicono: “Grazie perché a pagina 93 del programma dell’Ulivo c’era quello che ho detto a Brindisi…”. O si fa una ricostruzione dal basso o non c’è niente da fare. Quando a Cesena ho parlato di radicalismo dolce intendevo che bisogna agire con la fatica della convinzione, ma per fare le riforme, non per eluderle».
Serve anche la fatica di mettersi insieme, un’altra cosa che a sinistra viene molto difficile, non crede?
«Dipende anche dal sistema elettorale. Se favorisce la frammentazione non ne usciamo perché anche in politica esiste l’ego».
Perché in mancanza di questo “rimpasto”, le ricette di destra suonano più convincenti? Mandare le navi delle Ong sempre più lontane perché abbiano meno risorse, smantellare l’accoglienza dei migranti, fare retate simboliche o abbassare l’imputabilità dei ragazzi che delinquono, davvero possono apparire misure efficaci?
«La criminalizzazione, i blitz, sono misure occasionali che servono a colpire l’opinione pubblica. Quando invece si tratta di fare un cambiamento di sistema, come il salario minimo, la destra arretra».
Almeno su questo il centrosinistra si è unito. A parte Renzi.
«Renzi non fa parte del centrosinistra: lui stesso si è chiamato fuori. Sul salario minimo ho letto tutti, giuristi, sindacati e faccio un ragionamento molto semplice: se noi non garantiamo sei euro netti all’ora a chi lavora, perché questo sono i 9 euro lordi, siamo un Paese che deve vergognarsi di se stesso. Siamo al di sotto del minimo vitale per una persona che deve vivere. Non tiriamo fuori finezze giuridiche o interessi particolari. Limitiamoci a constatare che con meno di così si muore».
A proposito di Renzi, che è pronto ad appoggiarla, la riforma costituzionale su cui è al lavoro il governo è stata definita da Enzo Cheli su questo giornale eversiva.
«La proposta di premierato assoluto radicale fatta in questi giorni è al di fuori del sistema democratico parlamentare e di ogni ricerca di equilibrio politico. Quel che ha detto Cheli è Vangelo, perché mette in rilievo tutte le conseguenze politiche e giuridiche di un cambiamento della Costituzione che ha degli aspetti addirittura inimmaginabili. Il Parlamento che se vota contro il governo decade, ma ci rendiamo conto? Il suicidio delle Camere come soluzione politica. Un premierato del genere è roba da stato autoritario perché significherebbe che il Parlamento di fatto non esiste più».
Tra le parole di cui si discute a tavola, lei ha citato “pace”. Il cardinale Zuppi è stato criticato per aver detto che l’Ue non sta facendo abbastanza per trovare una soluzione diplomatica in Ucraina. È così o come pensano in tanti una soluzione diplomatica in questa fase è assolutamente impossibile?
«Se dovessi giudicare le parole di Zuppi direi che è stato troppo dolce con l’Unione europea, che in questa crisi non è esistita. Punto. Abbiamo avuto missioni internazionali di singoli Paesi, ma per il resto nulla. E certo è colpa dei Paesi leader, ma ce la stanno facendo pagare».
Per paradosso, nel momento in cui pensavamo che per quel che ha fatto la Russia sarebbe diventata una potenza paria nel mondo, i Brics di cui fa parte si espandono. E di conseguenza, sebbene siano composti da Paesi molto diversi, si rafforzano. Nel mondo stanno avanzando i regimi e retrocedendo le democrazie. Come si contrasta uno scenario di questo tipo?
«C’è un arretramento sistemico delle democrazie e questo non è estraneo a quel che dicevamo prima, perché è lo “spirito democratico” a essersi indebolito. Lo dico da economista: quando non si fa neanche più l’antitrust con coloro che dominano nel mondo, le grandi multinazionali, è perché non c’è la forza politica per farlo. E questo fa sì che le democrazie adagio adagio cambino natura, perché gli interessi materiali prevalgono su tutto. Quando in Cina, che è un sistema autoritario che certo a noi non piace, Xi Jinping proibisce le scommesse in rete perché gli adolescenti ne sono vittime, noi che facciamo? Nel nostro occidente i giocatori di football hanno scritto sulla maglia: “Bet, bet, bet”. Abbiamo perso il senso di cosa dobbiamo fare nell’interesse comune. Affrontiamo i problemi che angosciano i genitori o aderiamo ai desideri dei giganti dell’economia? Lo stesso presidente cinese spezza in due Ali Baba perché è troppo grande, come noi 30 anni fa dividevamo la AT&T e la stessa Ibm. Il nostro obiettivo è la democrazia o la plutocrazia?».
È questo che genera una rabbia e una disillusione così diffuse nelle fasce più fragili della popolazione?
«Adagio adagio la gente questo odore lo sente. Come si può accettare la diminuzione dello 0,8 per cento del bilancio della sanità, che è già miserevole? Stiamo sbilanciando il rapporto tra sistema sanitario nazionale e la sanità privata. Che sono certo complementari, devono collaborare, ma non soffocando l’una in modo che l’altra possa sostituirla. Solo per chi se lo può permettere».
Un ex premier come lei, Giuliano Amato, ha parlato di uno dei misteri d’Italia, la strage di Ustica, dicendo di credere che a colpire il Dc9 sia stata la Francia con la complicità e la copertura dei Paesi Nato attraverso i servizi segreti. Cosa pensa di questa storia?
«Credo che Amato pensi che chi è stato reticente per tanti anni possa oggi trovarsi in una posizione diversa, e possa quindi parlare. Per ora, nell’intervista, non sono emersi nuovi elementi. Mi auguro che il suo tentativo possa produrre qualche risultato».