Linkiesta, 7 settembre 2023
«Ricordami perché non viviamo in Molise»
Più o meno una volta al mese, la mia amica C. mi telefona e, appena rispondo, senza neanche salutare, domanda: ricordami come mai io e te non ci siamo ancora trasferite in Molise.
Ormai è lessico famigliare e quindi non usiamo mai altri luoghi, ma in quella domanda «Molise» è antonomasia. Sta per: luogo in cui, guadagnando quel che guadagniamo ma soprattutto spendendo quel che spendiamo, vivremmo come delle nababbe invece che come delle piccoloborghesi.
Il mio amico P., quando vediamo qualche italiana trasferitasi negli Stati Uniti che per prendere cuoricini social si lamenta del costo della vita lì, dice sempre: a Lecce con cinquecento euro ti danno un appartamento con un enorme terrazzo, vada a vivere a Lecce invece che a Manhattan. Forse non è neanche vero, mi sa che Lecce ormai è à la page e quindi costosa (gentrificata, come si dice in neolingua).
Ma lamentarsi non ha prezzo, e lamentarsi a Manhattan è probabilmente meglio che lamentarsi a Lecce, che deve vederne di sfilate di Dior prima di diventare il Village. Pagare un cappuccino otto dollari vale la pena, per farsi le foto con l’Empire state building sullo sfondo. E forse le emigrate social hanno, rispetto a Lecce, obiezioni analoghe a quelle che ho io rispetto al Molise.
Le mie sono «in Molise non c’è Glovo» (che poi magari c’è, vai a sapere, ci vorrebbe un Chatwin che va a esplorare Frosolone e ci riferisce), e «io non ho la patente, in Molise ci vuole la macchina per andare da qualunque parte». Obiezioni facilmente demolite da C., che mi ricorda che, coi soldi che ogni mese do a Glovo nelle città del nord, in Molise pagherei una cuoca e un autista (in nero, ché diversamente dai fattorini di Glovo il diritto alle ferie retribuite dell’autista molisano non lo tutela nessuno).
Il grande non detto di quel tema fisso dei giornali italiani che sono i cervelli in fuga riguarda il fatto che i puccettoni italiani – che i genitori ci raccontano essere espatriati perché questo paese non valorizza i suoi talenti e con la laurea in antropologia al mio scarrafone non offrivano posti da antropologo – non sono andati a Londra a fare gli antropologi.
Sono andati a Londra a schiumare cappuccini da Caffè Nero. Il grande non detto è che certo, avrebbero potuto schiumare cappuccini anche in Italia, ma in Italia il costo della vita è considerato un concetto discriminatorio. Il che significa che finché schiumi cappuccini in Molise tutto bene, ma se hai un ciccinino di ambizioni, e vuoi trasferirti a Milano continuando a schiumare cappuccini finché Miuccia Prada/Stefano Boeri/Fabio Fazio non si accorgerà del tuo talento, nessuno terrà conto del fatto che un affitto ti costerà tot volte quello che ti costava in Molise.
A Londra sì. A Londra le aziende perlopiù pagano i dipendenti più di quelli che lavorano, chessò, nella sede di Birmingham, perché altrimenti quelli non si possono permettere di vivere a Londra. «Salario minimo» non vuol dire granché, se il minimo costo della vita varia così tanto. La campagna in cui hanno investito per sanare il fatto che il salario minimo nazionale, in Inghilterra, è di nove sterline e mezzo, il salario di sussistenza in media nazionale è di 10 e 90, e quello londinese è di 11 e 95 si chiama appunto «London living wage».
È una discriminazione nei confronti degli abitanti di Manchester, che già vivono in un posto meno figo e tu vuoi pure umiliarli pagandoli meno? Forse è un riconoscimento del fatto che i soldi non sono una medaglietta per la partecipazione, sono una delle due parti di un accordo: io ti fornisco la mano d’opera che ti serve per fare la tal cosa, tu mi permetti di non avere il problema di come pagare l’affitto e la spesa e i cotillon.
È una questione che è sempre esistita: anche prima di diventare ciò che è ora – una specie di parco giochi per plutocrati – Londra era ben più cara di qualunque altra città europea. Io, che sono anziana come Landini e come Landini ragiono in lire, ricordo con un brivido quando la sterlina a duemila lire ci faceva soppesare ogni francobollo comprato, molti anni prima che l’euro a duemila lire cominciasse a sembrarci quasi normale.
Persino adesso, che paghiamo disinvoltamente una bottiglia di vino trenta euro ricordandoci però benissimo di quando una bottiglia di vino da cinquantamila lire, quindi più economica, ci sembrava carissima, persino adesso io trasecolo ogni volta che faccio il biglietto dell’Heathrow Express: venticinque sterline in seconda classe. Sono cinquantamila lire per dieci minuti di trenino: mica è normale. Io lo capisco, Landini.
Alla fine dell’intervista a Maurizio Landini pubblicata ieri dalla Stampa, c’era una domanda che iniziava in modo ridicolmente perentorio: «Senta, Landini». Se non eravamo impegnati a sghignazzare per l’inverosimiglianza d’un intervistatore che si rivolgesse così all’intervistato, saremo andati avanti a leggere, scoprendo che, con la premessa che a Reggio Calabria un caffè costi 90 centesimi e a Milano un euro e 50, gli si chiedeva perché sia contrario alle gabbie salariali.
Landini sceglieva di rispondere come se un espresso al bar fosse un espresso al bar e non un’antonomasia del costo della vita. «Quanto a me, mi rifiuto di pagare al bar un caffè tremila lire (perché io ragiono ancora in lire). È un prezzo assurdo. Non lo ordino e basta».
Una scelta invidiabile, e anche facilissima (specie per me che non bevo caffè). Cioè, il trenino dall’aeroporto, se ti rifiuti di prenderlo, poi devi andare a piedi in città rischiando la vita in autostrada; il caffè, se smetti di prenderlo, fai solo contento il cardiologo. Ma la frase di Landini rappresenta qualcosa in più.
Se ci pensate, è un interessante abbrivio per la rivoluzione. Nessuno più ordina caffè nelle città più costose, finché tutti i Cova son costretti a chiudere non potendo più pagare gli affitti d’un negozio nel centro di Milano che non sono quelli d’un appartamento a Lecce, i baristi devono cercarsi un altro lavoro per mantenersi in una città in cui si è cominciato a risparmiare sul caffè ma non su tutto il resto, non riescono a trovarlo perché l’offerta di baristi disoccupati supera di molto le richieste d’una città coi bar quasi estinti, e può finire in un solo modo.
Col ritorno dei baristi emigrati al paesello d’origine, dove il caffè a quel punto costerà sì e no mille lire, e Landini avrà finalmente raggiunto il suo obiettivo. Che non è far compensare adeguatamente il lavoro, ma ripopolare il Molise.