Corriere della Sera, 7 settembre 2023
Intervista a Las Heras
La passione per ciò che è più caro agli esseri umani si manifestò in Argentina a 6 anni, nel 1950, al primo giorno di scuola nelle elementari di Las Heras, quando all’alzabandiera del mattino gli fecero cantare l’inno nazionale: «Udite, mortali, il grido sacro: “Libertà, libertà, libertà!”». La repulsione per la violenza arrivò l’indomani: «Mio padre mi portò da una coppia di amici, immigrati da Pavia. Uscii a giocare con i loro due figli e i tre cugini. Fui gettato a terra e riempito di calci e pugni. Mi urlavano “Tano!”, spregiativo di italiano». Ora si capisce perché Mario Corti, il messo dei samizdat, già dai tempi dell’Urss abbia speso l’intera vita a difendere e aiutare i dissidenti, da Andrej Sacharov ad Aleksandr Solženicyn, frequentati con sua moglie Elena Gori, traduttrice delle loro opere e di quelle di Vladimir Bukovskij, Elena Bonner, Aleksandr Zinovev, Aleksandr Jakovlev, fino a Disastro Putin (Spirali) di Boris Nemtsov, l’ex vice primo ministro ucciso nel 2015 nei paraggi del Cremlino dai sicari del leader ceceno Ramzan Kadyrov, «il macellaio»: fra loro, c’era chi ha guidato l’assedio a Mariupol, una pagina nera della guerra che Corti ripercorre in L ’Ucraina e la vetrina delle distorsioni (Gaspari), appena uscito.
Il giornalista e scrittore digita in russo persino i suoi saggi pubblicati in italiano. Fu il primo a intervistare Andrej Tarkovskij quando il regista sovietico scelse la via dell’esilio. Per 26 anni ha lavorato a Monaco di Baviera e poi a Praga per Radio Liberty, fondata nel 1953. Con la gemella Radio Free Europe, captata nei Paesi del Patto di Varsavia, era finanziata dalla Cia. Dal 1975 le due emittenti dipendono dal Congresso degli Stati Uniti.
Lei era il capo del Servizio russo.
«Trasmettevamo in ucraino, tartaro, armeno, georgiano, in tutte le 15 lingue dell’Unione Sovietica. Caduto il Muro di Berlino, nel 1991 aprimmo studi a Mosca e San Pietroburgo. Sono stati chiusi».
Com’è nato l’interesse per la Russia?
«Dai 10 ai 14 anni, nel collegio argentino dei padri betharramiti. Lessi Resurrezione di Lev Tolstoj, ne fui folgorato. Venne a predicare padre Carlo Trabucchi, comasco, cacciato dalla Cina. Decisi che avrei fatto il missionario al posto suo».
Nel suo orizzonte c’era il comunismo.
«Ma in seminario persi la fede. Nell’ultimo anno di dittatura, Juan Domingo Perón perseguitò la Chiesa. Il parroco del nostro paese fu arrestato. Mio padre mi portò a fargli visita in carcere. Pensavo di trovarlo affamato, in catene, come i primi martiri cristiani. Invece giocava a carte con il commissario».
Immagino la sua delusione.
«La domenica dirigevo il coro durante il rito bizantino-slavo. Adesso sono indifferente. Conobbi Elena Gori grazie a Russia cristiana. Studiava legge alla Cattolica di Milano. Settima di nove figli, da ragazzina trovò in libreria una grammatica russa e imparò la lingua da sola».
In quella foto sua moglie è ritratta con Sacharov, premio Nobel per la pace.
«Io non potevo esserci. Fu scattata nel misero alloggio della consorte Elena Bonner, due stanze. In cucina c’era la canna di scarico dell’immondizia. Sentivi i topi, enormi, correre su e giù».
Come mai non poteva esserci?
«Dal 1972 lavorai per l’ambasciata italiana a Mosca. Feci da interprete anche a Giulio Andreotti, nei colloqui con Andrej Gromyko, e a Giovanni Spadolini. Nel 1975 l’incaricato di affari mi disse: “Prepari le valigie, domani lei rientra in Italia”. Elena rimase un anno nella capitale dell’Urss con le nostre tre figlie».
Che cosa aveva combinato di grave?
«Era arrivata la terza protesta delle autorità locali per la mia “attività antisovietica”. Agivo apertamente, andavo a trovare i dissidenti nelle loro case. Gli agenti del Kgb ascoltavano attraverso i muri le nostre conversazioni e mi vedevano uscire con sporte gonfie di documenti».
In che modo riusciva a portare fuori dall’Urss gli scritti degli oppositori?
«Con il corriere diplomatico. Potevo far partire la posta privata una volta a settimana racchiusa in plichi inviolabili».
Ricorreva anche ad altri mezzi?
«Sì. Le faccio l’esempio di Solženicyn. Era stato espulso. A Mosca restava la suocera, un’ingegnera aeronautica. Mi contattò. Doveva mettere al sicuro cinque valigie, pesantissime, contenenti manoscritti e schedari del genero. Mi rivolsi alla figlia di un ambasciatore italiano munita di passaporto diplomatico, diretta a Parigi. Da lì le valigie finirono a Tolosa, dov’era console il fratello. Un autista le portò ai miei genitori a Milano. Io decollai da Mosca, le recuperai e le consegnai a Solženicyn, che stava a Zurigo».
Sacharov, Solženicyn. E chi altro?
«La povera Anna Politkovskaja. Ci s’incontrava nella sede moscovita di Radio Liberty. E Aleksandr Zinovev. Credo d’essere stato il primo a farlo parlare. Lisa Giua, la moglie di Vittorio Foa che fu collaboratrice di Palmiro Togliatti a Rinascita, fece pubblicare la mia intervista su Lotta Continua, pensi un po’».
È stato aiutato nell’opera umanitaria?
«No, da nessuno. Regalavamo ai dissidenti vestiti, farmaci, registratori, inalatori per aerosol. Elena procurava anche le pillole anticoncezionali, proibite in Urss. Le resta nella mente il caso di una ragazzina che aveva abortito sette volte, sempre al quinto mese di gravidanza».
Neanche un appoggio politico?
Mia moglie traduceva gli autori
Chiedevano vestiti, registratori,
aerosol, persino anticoncezionali
Le colonie penali ci sono ancora
«Bettino Craxi invitò Sacharov a Milano e mi pare che per l’occasione raccolse dei fondi. Ebbi il sostegno del senatore Umberto Terracini quando nel 1977 organizzai le Udienze Sacharov a Roma. Le presiedette Simon Wiesenthal. Faticai a convincerlo. “Accetto solo se viene Leo Valiani”, fu la condizione. Perciò mi recai da Valiani, che aveva l’ufficio presso la Banca commerciale a Milano. Il quale mi disse: “Accetto solo se viene Wiesenthal”. Su Izvestija uscì un articolo contro “gli antisovietici occidentali” che mi associava all’ebreo cacciatore di nazisti».
Ci sono ancora dissidenti in Russia?
«Tanti. Penso a Vladimir Kara-Murza, che era il pupillo di Nemtsov, e ad Alexei Navalny. Oggi li chiamano oppositori».
Che fine fanno?
«In galera o espulsi. Quando non vengono assassinati, come Politkovskaja».
Non c’è più l’Arcipelago Gulag.
«Nelle isole Solovki sotto i regimi di Lenin e Stalin furono fatti fuori almeno 2 dei 12-15 milioni di internati. Le regioni della Mordovia e di Perm’ erano piene di prigionieri politici. Restano le “colonie di lavoro correzionale”, questa è la dizione ufficiale. Ma nella lingua russa si chiamano lager. Ogni tanto bisognerebbe rileggere I racconti di Kolyma di Varlam Šalamov».
Che cosa pensa di Vladimir Putin?
«Tutto il male possibile. È un dittatore. Fa uccidere i giornalisti. Chiude le tv. L’ho pure conosciuto, a mia insaputa».
Questa è davvero notevole.
«A Radio Liberty avevamo una squadra di calcio. Giocammo due volte contro i cantanti russi. Un giorno leggo che un mio collega, di cui non faccio il nome, va a cena con il suo amico Putin. Nel 2004 mi ritrovo a essere l’unico italiano invitato alla prima riunione del Club Valdai, il think tank che supporta il presidente. C’è anche il mio amico. Putin c’invita in una delle sue residenze di Mosca e resta con noi dalle 20.30 all’1 di notte. Il mio collega gli dà del tu. Si figuri la mia sorpresa. Chiedo: si può sapere come l’hai conosciuto? Quello mi risponde: “Ma come? C’eri anche tu!”. Per farla breve, nella partita disputata nel 1994 a San Pietroburgo un tizio aveva preso posto in panchina fra me e il mio amico: era Putin».
Di Volodymyr Zelensky che mi dice?
«Tutto il bene possibile. È molto criticato, ma se si comportasse in modo diverso verrebbe deposto all’istante. Esegue la volontà del suo popolo, che è una sola: resistere all’invasione russa».
Come finirà questa guerra?
«La questione non è il “come”, bensì il “quando”. Se l’Occidente tiene duro, l’Ucraina vincerà. Ma noi abbiamo pensato di delegare il lavoro sporco agli aggrediti e mandiamo le armi con il contagocce».
Che cosa dovremmo fare, invece?
«Impegnarci in un’escalation. Basterebbe che le nazioni Nato spedissero, con il consenso di Kiev, un contingente militare. Si troverebbe sul territorio sovrano di un Paese amico, senza coinvolgimento, perché la Russia non ha mai dichiarato guerra all’Ucraina. A quel punto Putin si ritirerebbe con la coda fra le gambe».
Ne è proprio così sicuro?
«I russi li conosco bene, rispettano soltanto chi fa la voce grossa. Figuriamoci se hanno interesse ad allargare il conflitto ad altri Paesi dopo che in un anno e mezzo di combattimenti non sono riusciti a domare neppure gli ucraini».
Lo spettro della bomba atomica agitato da Mosca è una minaccia reale?
«Credo di no. Ma un ratto stretto all’angolo reagisce in modi inaspettati. Comunque Putin non potrebbe schiacciare da solo il bottone rosso. Devono essere in tre. E io non penso che i due generali, Sergei Shoigu, ministro della Difesa, e Valery Gerasimov, capo di stato maggiore, gli presterebbero il loro dito».
Qualche volta ha temuto per la sua vita quando viveva in Russia?
«No. Ho rischiato di più con le sigarette: cinque pacchetti al giorno. Adesso mi trattengo, ne fumo una ogni ora. Ci fu un solo episodio strano. Abitavamo in una casa per gli stranieri, piantonata da un poliziotto che non faceva entrare nessuno. Una mattina, andando verso il parcheggio, udii un sibilo fortissimo e poi un botto. Mi era passato qualcosa a pochi millimetri dal cranio: una bottiglia che s’infranse sul cofano della mia auto. La Coca-cola era arrivata anche lì».
Se lei scendesse da un aereo a Mosca, che cosa le accadrebbe?
«Niente, spero. I russi si sono fatti furbi. Ma forse non mi darebbero il visto. In ogni caso non ci torno. Non si sa mai».