la Repubblica, 7 settembre 2023
Intervista a Mircea Cartarescu
La letteratura è l’arma bianca di Mircea Cartarescu, il modo in cui difende bellezza e libertà dopo essere cresciuto in un Paese schiacciato dalla dittatura. Il più grande scrittore romeno vivente torna al Festivaletteratura di Mantova dopo dieci anni, a poche settimane dall’annuncio del Nobel, che potrebbe andare proprio a lui visto che da anni il suo nome è tra i favoriti dei bookmaker. Quando glielo diciamo però non dà peso: «Non scrivo per i premi ma per i lettori». Ieri questo scrittore visionario che è riuscito a trasformare Bucarest in una città dell’anima, sordida come la San Pietroburgo di Dostoevskij e poetica come la Buenos Aires di Borges, è stato protagonista dell’evento più importante della giornata di apertura, un dialogo con la scrittrice Elvira Muj?i?. Cartarescu è autore di opere meravigliose, ultimaMelancolia (La nave di Teseo).
Lei ha vissuto molti anni sotto una dittatura, come ha influito nella sua storia di scrittore?
«Sono nato a Bucarest nel 1956. La dittatura di Ceausescu ha letteralmente scippato 34 anni della mia vita. Tutta la mia giovinezza. Naturalmente da bambino non avevo la consapevolezza della situazione nel mio Paese, ma capivo che bisognava stare attenti. I miei genitori mi ripetevano sempre la stessa cosa: “Mircea, noi siamo persone semplici, che possono essere colpite in qualsiasi momento, quindi non raccontare barzellette politiche e non dire mai nulla che possa essere interpretato contro il regime”».
Che lavoro facevano i suoi genitori?
«Erano arrivati a Bucarest dalle campagne in seguito all’industrializzazione forzata degli anni Sessanta. Entrambi operai, mio padre in una fabbrica di tram, mia madre in una fabbrica tessile.
Più tardi mio padre si è iscritto all’università e ha iniziato a lavorare come giornalista. Scriveva di agricoltura».
Come agiva la censura sotto il regime?
«Ho iniziato a pubblicare che Ceausescu era ancora al potere.
Quando è uscito il mio primo volume di versi avevo 24 anni, era una raccolta che attraversava lo sperimentalismo di Eliot e Pound, il modernismo e il neomodernismo romeno. Si intitolava Fari Vetrine Fotografie. Tutti i miei primi libri di poesie sono stati censurati, il romanzo Nostalgia è stato brutalmente sfigurato dalla censura: dei cinque racconti che lo compongono, uno è stato totalmente eliminato. In genere i censori tagliavano via pagine in modo irrazionale».
Senza motivazioni politiche?
«La burocrazia era grossolana e stupida. Una volta durante il regime venne a Bucarest Umberto Eco. A un certo punto si alzò un giovane dal pubblico e gli disse: professore lo sa che la versione romena de Il nome della rosa è stata privata di 20 pagine? Eco allora stupito: perché, non c’era niente di politico? Non conosceva i censori.
Gente che doveva mostrare di lavorare tagliando qua e là o alla peggio si atteneva a una lista di parole da evitare, in genere termini del lessico religioso o erotico. I coniugi Ceausescu avevano origini rustiche ed erano molto pudichi, attaccati ai valori tradizionali della campagna».
La letteratura è stata per lei una forma di resistenza?
«Un modo per resistere e anche per offrire una speranza ai lettori. Gli scrittori militanti allora venivano chiamati “bianchi”, per distinguerli dai “rossi” che erano allineati con il regime e i comunisti al potere. Avolte gli editor ci aiutavano a sfuggire alle grinfie dei censori suggerendoci di aggiungere qualche pagina in più che poi loro avrebbero eliminato mostrando di aver fatto il loro dovere».
Oggi che la Romania denuncia il ritrovamento di un drone russo sul suo territorio, cosa pensa di Putin?
«Putin non appartiene al mondo della politica ma della malavita, è un capo mafia. La prova è nella brutalità con cui ha invaso l’Ucraina. Ha commesso un errore, i russi penso lo sappiano ma non possono parlare. Un tipo diaggressione del genere è ingiustificabile. Il lato positivo è che ha risvegliato i paesi europei dal loro torpore e ha ricordato alla Nato la ragione per cui esiste».
Nei suoi libri si ha l’impressione che l’immaginazione sia la cura.
«Le racconto un aneddoto. Più di dieci anni fa andai a visitare a Vienna una mostra sul surrealismo. In esposizione c’erano più tele di Giorgio de Chirico. Tra queste rimasi colpito da alcune scatole di cioccolatini dipinte: erano avvolte in una carta stagnola di vari colori.
Immediatamente mi tornò in mente la mia infanzia, quando da piccolo conservavo gli incarti colorati. Quel ricordo è stato un primo passo verso lamelancolia. Mi accomuna a de Chirico un senso di profonda solitudine e la tensione metafisica».
Suo padre nel libro “Melancolia” diventa un uomo di caucciù e sua madre un cioccolatino gigante esposto nei grandi magazzini di Bucarest.
«È la mia Ricerca del tempo perduto, la ricerca di quella infanzia tradita dalla dittatura».
Bucarest è l’altra grande protagonista dei suoi romanzi, da “Solenoide” alla trilogia “Abbacinante”.
«Mia moglie però la conosce meglio di me (guarda sorridendo la moglie, la scrittrice romena Ioana Nicolaie che mentre parliamo continua a scattare foto). In realtà ho scelto Bucarest perché non conoscevo altre città. Quando ero uno studente universitario credevo fosse la città più bella del mondo, ma non ne avevo viste altre. A quel tempo nessun romeno aveva il passaporto. La prima volta che feci un viaggio fu uno shock. Era il 1990 e andai a New York, può immaginare che salto? Nel tempo ho iniziato a inventare narrativamente una mia Bucarest».
I viaggi dentro la Bucarest letteraria sembrano esperienze psichedeliche.
«La mia generazione divorava i poeti della Beat Generation, eravamo stregati da quelle atmosfere. Ci chiamavano gli “ottantisti”, quelli degli anni Ottanta, o la “blue jeans generation”, perché avevamo dismesso giacca e cravatta. Gli acidi però li ricreavamo con le parole, anche volendo in Romania sarebbe stato impensabile procurarseli».
Le piace la definizione di scrittore visionario?
«Molto. Quando scrivo vado in trance, davvero come se fossi sotto l’effetto di mescalina o Lsd».