la Repubblica, 7 settembre 2023
Ustica, La Difesa tratiene parte dell’archivio Lagorio
Non è vero che le carte delle stragi sono state davvero liberate. È vero solo in parte. Non corrisponde nemmeno a verità che sono tutte pubbliche, secondo la direttiva Renzi. Sono ancora soggette a un vaglio da parte dell’ente generatore, i Servizi segreti o i ministeri. Permane una cernita. Una supervisione.
Prendiamo l’archivio privato di Lelio Lagorio, il ministro della Difesa del caso Ustica. Un altro socialista che ebbe a che fare con la strage del Dc-9. Prima di morire, il 7 gennaio 2017, ha donato le sue carte alla Fondazione Turati, l’istituto che conserva gli archivi di tutti i capi del socialismo italiano, da Giacomo Matteotti in giù.
Quello di Lagorio è corposo: 225 buste, 2068 fascicoli, 14 bobine.
Un lascito che contiene anche la documentazione della sua permanenza al ministero della Difesa, dove rimase per tre anni, dal 4 aprile 1980 al 4 agosto 1983, e durante il quale la Repubblica venne messa a dura prova dagli scandali e dal terrorismo: Ustica, Bologna, P2. Tragedie, terremoti istituzionali. Le carte di Lagorio alla Difesa riempiono 34 buste e 224 fascicoli.
Nell’ottobre del 2021 uno studioso chiede alla Fondazione Turati di consultare alcuni documenti relativi alla «vicenda Libano» contenuti proprio in una delle cartelline Difesa. Prima di concederglieli in visione gli archivisti consultano la Soprintendenza archivistica bibliografica della Toscana e il ministero dell’Interno, per capire, secondo il codice dei Beni culturali, se sussistono profili di riservatezza.
In un secondo momento interviene il Ministero della Difesa, che fa prelevare l’intero incartamento Difesa, lo porta a Roma, in via XX Settembre. Occorre vagliare se questi atti possono essere declassificati, e quindi resi pubblici, secondo i criteri della direttiva Renzi, che rende consultabili i documenti conservati presso tutti i ministeri e gli organismi di intelligence relativi a Piazza Fontana (1969), Gioia Tauro (1970), Peteano (1972), Questura di Milano (1973), Piazza della Loggia (1974), Italicus (1974), Ustica (1980), Stazione di Bologna (1980),Rapido 904 (1984). Gli 007 del ministero si mettono al lavoro. Verificano carta per carta. Esaminano con ciascun ente generatore che le ha figliate per capire se possono essere liberate dal vincolo posto a tutela della sicurezza nazionale.
Il vaglio dura più di un anno. E sul sito della Fondazione, alla voce carte della Difesa di Lagorio, campeggerà – campeggia ancora, almeno fino a ieri sera – la dicitura: «È in attesa di ricevere (o non ricevere) la declaratoria di riservatezza».
Nel frattempo diventa soprintendente in Toscana, Michele Di Sivo. È uno degli studiosi delle carte di Moro. Da direttore dell’Archivio di Stato di Roma ha coordinato il gruppo di esperti che ha realizzatoIl memoriale di Aldo Moro. Di Sivo sollecita la restituzione del materiale Lagorio. Ciò avviene l’11 gennaio scorso. E lì si scopre che la Difesa si è trattenuta moltissimo materiale: il brogliaccio, che Repubblica ha potuto vedere, è lungo una trentina di pagine. L’elenco delle carte espunte riguarda appunti Sismi, fogli manoscritti e relazioni sulla strage di Bologna; informative sulla minaccia libica, sempre in relazione a Bologna; note sulla P2, sul faccendiere Francesco Pazienza; sugli appalti relativi all’installazione degli euromissili a Comiso, in Sicilia, e su altre vicende minori.
Un solo documento relativo a Ustica risulta trattenuto. Tre pagine di una relazione redatta dal Capo di Gabinetto di Lagorio: una ricostruzione a caldo sulla tragedia del Dc-9 Itavia del 27 giugno 1980.
L’elenco delle carte trattenute viene consegnato alla Fondazione, che dovrà allegarlo, per trasparenza, al fascicolo.
Ma in base a quale criterio sono stati espunti atti relativi a un fondo privato?
«Non erano documenti personali di Lagorio, ma carte del ministero della Difesa, che il ministro si era indebitamente portato a casa», spiegano in via Venti Settembre.
Ora, dai tempi di Crispi gli statisti avevano l’abitudine di portarsi a casa le carte dell’ufficio. Fior di archivi e di Fondazioni sono lì a testimoniarlo. Perché lo facevano? Perché non si fidavano della struttura, in buona parte, perché pensavano che sarebbero state meglio custodite nelle casseforti delle proprie segreterie o abitazioni. E anche questo è di interesse per uno studioso: sapere che i politici della Prima Repubblica si comportavano così.
E Lagorio dovette affrontare iniziali diffidenze nei confronti dei militari, come ammise al processo su Ustica, nel dicembre 2001: «Io ero nuovo alla Difesa ed ero anche un animale politico nuovo, perché ero il primo socialista diventato ministro della difesa in Italia e avevo un curriculum personale in qualche modo da sottoporre all’attenzione, perché provenivo da otto anni di governo, di un governo di socialisti e di comunisti in Toscana, quindi come ministro della Difesa, nel pieno della guerra fredda, ero una novità da decifrare».
Si ritrovò a doversi muoversi in un ambiente che era stato fino ad allora un feudo democristiano, salvo le parentesi di Randolfo Pacciardi, repubblicano, e di Roberto Tremelloni, socialdemocratico.
A differenza dell’altro ministro socialista, Rino Formica, responsabile dei Trasporti, Lagorio mantenne sempre una linea più cauta, come ha ben ricostruito lo storico Giovanni Scirocco nel suo saggio I socialisti e la strage di Ustica. «Non ho mai fatto, né voluto fare una mia ipotesi. Non avevo e non ho elementi per farlo. L’ho detto e ridetto più volte ai giudici e al Parlamento e credo di essere stato compreso. Ma anche un’altra cosa ho sempre detto e ridetto: non ho mai creduto alla infedeltà dell’Aeronautica e al tradimento o alla “doppia lealtà” (una verso lo Stato e l’altra verso chissà chi) dei suoi più alti ufficiali», spiegò Lagorio nella sua biografia,L’ora di Austerlitz.
Ma torniamo al suo archivio.
E ora che fine faranno le carte trattenute? Se rientrano – come i fogli su Ustica – nella direttiva Renzi finiranno prima o poi all’Archivio centrale dello Stato, le altre invece resteranno non divulgabili.
Quindi è ai ministeri che spetta l’ultima parola, anche per quelle private. Libere sì, ma fino a un certo punto.