La Stampa, 7 settembre 2023
Sull’8 settembre
Ho una grande familiarità con l’Otto Settembre, e intendo proprio quello immortale del 1943, ce l’ho sin da quando ero bambino e me la sono portata appresso fino ad oggi. Di più, secondo la ragion pratica e le aspre ragioni morali di mia madre Adorna, io stesso sono l’incarnazione in perpetuo dell’Otto Settembre. «Né ‘gnò, te sen sbandà come l’otto settembre», questo è quanto la santa donna giudicava del mio modo di vestire, di nutrirmi, di pensare, di vivere in generale. Sbandato come l’otto settembre, quell’Otto Settembre, e l’ultima volta che me lo sono sentito dire sono state anche le ultime parole che l’Adorna mi ha rivolto accogliendomi nella sua stanza d’ospedale e indicandomi con il suo micidiale indice accusatore una macchia sulla camicia.
In verità quello di sbandato settembrino non era una qualifica riservata solo al sottoscritto, nel lessico della mia lingua materna riguardava gli sregolati, senza fissa dimora, senza fisso impiego, senza programmi, ogni genere di sbandati dalla retta via insomma. Che mi ricordi, nella mia giovinezza versavano in quello stato deprecabile oltre al sottoscritto tutti quanti i miei compagni di lotta neghittosamente inclini a disprezzare l’ordinata militanza nel partito dei lavoratori, lavoratori come si deve e non sbandà come noi. E ancora oggi tra i vecchi del mio paese l’espressione è in uso, e siccome non è di certo rivolta a sé stessi ma di norma a figli, nipoti e pronipoti, non è escluso che qualcuno tra gli sbandati chieda conto di cosa mai significhi e ne verranno edotti, così che quella memorabile data e quel catastrofico accadimento rimangono in qualche modo vivi nella memoria collettiva. Il che è straordinario. Lo è nel Paese che vive nella smemoratezza e di smemoratezza. Lo è allo stesso modo di un altro detto diffuso nella mia lingua materna riguardo a chi risulta introvabile, ad esempio io da bambino quando mi andavo a sperdere nei campi fino a notte, i è sparì como Matteotti. Matteotti è sparito cento anni fa, l’Otto Settembre compie ottanta anni, e ancora in qualche modo vive, vive almeno tra quei pochi che praticano la nostra piccola lingua di contadini ignoranti e permanentemente arretrati. Ma che, evidentemente, hanno qualche confidenza con la Storia, la Storia li riguarda e dunque ne portano memoria, e se l’hanno subita e sofferta, il solo portarne memoria ne fa autori.
Il marito dell’Adorna, mio padre Dinetto, la storia non l’ha solo subita, ma per la sua piccola parte l’ha anche fatta, soffrendola. Magari è proprio per questo che non gliel’ho mai sentito dire te sen sbandà come l’otto settembre, né a suo figlio, né a nessun altro. Lui l’8 settembre del 1943 è stato uno sbandato, per davvero, tragicamente. Il giovane fascista Dinetto si è arruolato volontario nell’esercito a sedici anni per imparare un mestiere, l’esercito imperiale glielo ha insegnato, radiotelegrafista marconista, che da civile varrà per provetto elettricista, e quindi ha preteso la riscossione della cambiale che aveva firmato, così lo hanno spedito in Libia e lui si è fatto tutta la campagna d’Africa fino ad El Alamein, gli è sopravvissuto per farsi tutta la ritirata fino a un’ultima nave ospedale che lo ha sbarcato a Napoli moribondo per la febbre quartana. L’8 settembre del ‘43 era a Roma all’ospedale militare del Celio a smaltire la sua malaria. Mi raccontava di come lui e i suoi commilitoni, malarici, amputati, resecati, moribondi, quel giorno hanno capito che qualcosa di grosso era successo già prima dell’annuncio di Badoglio, lo chiamava il grande Fellone, il fedele maggiordomo del Re dei felloni, era solo un operaio ma leggeva molto e sapeva anche di parole dotte, perché nel pomeriggio non s’erano visti ufficiali e non era passato il rancio serale. Avevano fame di cibo, di medicine, di vita, ma esplorando l’ospedale avevano trovato chiusa a lucchetto l’armeria e la farmacia, deserta e vuota la cucina. E così era iniziato il loro sbandamento anche se non c’erano radio da accendere per ascoltare il vile comunicato del Fellone. Chi poteva reggersi sulle sue gambe era uscito in strada e nelle strade aveva saputo. Mi ha raccontato dello sgomento, della preoccupazione e della rabbia, ma sopra ogni altra cosa in quelle ore così strane e tetre, altrimenti dette ora fatale, della fame; la fame e la sete di El Alamein gli sarebbero rimaste appiccicate per tutta la vita, ancora quando poteva nutrirsi con abbondanza di cose buone, con una mano portava il cucchiaio e la forchetta e con l’altra un pezzo di pane stretto in pugno, il bicchiere dell’acqua sempre pieno. E così mi ha raccontato di come avesse vergogna di chiedere del pane a quella gente che dilagava per le strade vociando, che serrava le porte nel vederli passare, ma soprattutto si vergognava di quelli che lo fermavano e gli chiedevano, e ora? E ora lui proprio non lo sapeva cosa fare, non aveva ufficiali superiori a cui chiedere, non sapeva nemmeno se ne esistessero ancora. L’unica cosa sensata che gli venne in mente era di tornarsene a casa; e lo fece, ma a differenza di molti suoi commilitoni si tenne la divisa. Mi ha raccontato anche questo, senza sapermelo spiegare, era l’unica cosa che gli era rimasta, anche se a quel punto non valeva più niente, questo mi ha detto. Aveva dunque la divisa e sulla strada per Firenze lo hanno fermato i tedeschi, lo hanno internato e gli hanno proposto l’alternativa, o il campo di concentramento in Germania o l’arruolamento nella nuovissima Repubblica Sociale. Scelse la vita e la Repubblica, ma gli bastarono un paio di giorni per capire cos’era e gli ci volle una settimana per trovare il modo di riprendere la strada di casa, questa volta senza divisa. Alla Repubblica Sociale due appelli mancati per condannarlo a morte in contumacia per diserzione e affiggerlo sui muri nell’elenco dei traditori.
Ci mise diciotto mesi per aprire la porta di casa, ma mi ha raccontato Dinetto che quel tempo gli è servito per diventare, davvero, un uomo, è stato come, ecco ancora le sue parole, nascere un’altra volta, e la cosa meravigliosa era che mentre nasceva lui nasceva anche tutto un mondo nuovo. Sull’Appennino aveva incontrato dei vecchi amici d’infanzia, quei suoi amici ora erano combattenti del libertario battaglione Lucetti. Sull’appenino acqua c’è n’era sempre in abbondanza, pane quasi mai, ma stava imparando che non c’era solo la fame di pane, e gli è venuta anche una gran fame di libertà, di dignità, di giustizia, ancora parole sue. E quando con i suoi compagni dalla montagna se n’è sceso, lo ha fatto perché era certo con loro che questo stavano facendo, un mondo mai visto. Una nuova patria. Dinetto ha sempre pensato di essere stato un bravo patriota, lassù da combattente e poi quaggiù da provetto cittadino e dignitoso operaio.
Il suo Otto Settembre non è stato quello di mia madre. Per lei è stata una catastrofe che non avrebbe mai avuto fine, e io e tutti quelli che intuiva al di là dai confini del suo paesello, ne eravamo la prova vivente; per lui sì, è stata una catastrofe, la grande catastrofe della fine di uno Stato, ma anche l’inizio di un viaggio, un viaggio drammatico ma pieno di vita. E quel viaggio non è stato solitario, con lui si sono messi per strada i patrioti di un nuovo Stato, tutto da immaginare, tutto da costruire. E non è finito il 25 Aprile, ma il suo solo quando se n’è andato; ingenuo com’era Dinetto ha vissuto tutta la sua vita seguendo imperterrito la strada verso la Repubblica che aveva imparato a sognare, quella che non ha mai visto. E se mai c’è ancora qualcuno in questo Paese delle smemorate rimembranze che si sente ancora per strada, che crede che il passato non sia passato ma una risorsa vivente per continuare ad andare, allora l’Otto Settembre non è solo l’eterna catastrofe di un Paese di eterni sbandati.