La Stampa, 7 settembre 2023
Intervista ad Alexandria Ocasio-Cortez
Alexandria Ocasio-Cortez è abituata a essere un parafulmine. Da quando è stata eletta nel 2018, entrambi i partiti l’anno celebrata e denigrata. Ma Ocasio-Cortez non è più l’ultima arrivata. Al suo terzo mandato e con una posizione di alto grado in una potente commissione della Camera, ha imparato a destreggiarsi al Congresso, stringendo alleanze a sinistra e collaborando con i suoi avversari. Oggi dice che questo potrebbe rendere “sospetta” l’ala destra del suo partito, ma che si sente tranquilla.
Come descriverebbe A.O.C. a 33 anni?
«Wow, che domanda! Penso che potrei descrivermi come una persona in evoluzione, in fase di apprendimento, in sfida con me stessa, ma anche ancorata a quello che sono e alle mie motivazioni».
Per molti, i 33 anni sono l’età nella quale si è raggiunta una posizione nella propria carriera e si fanno piani sul futuro. Lei ha usato due espressioni – in evoluzione, ma ben ancorata – che rendono l’idea. Vorrei che andassimo a fondo: lei è al suo terzo mandato e non è più un’esordiente. Molto è cambiato da quando è stata eletta nel 2018. Che cosa è cambiato di più in lei?
«Credo di avere solidità e sicurezza. La mia elezione è stata caratterizzata da molto fermento. Abbiamo vissuto un grande scompiglio quando Trump è stato eletto. All’epoca i Dem erano un po’ persi. Eravamo in transizione tra un partito più vecchio e uno più nuovo. Anch’io ero in fase di transizione. Fino a poco tempo prima facevo servizio ai tavoli, pochi mesi dopo sono stata eletta. Ero in transizione anche venendo a Washington. C’erano alcune dinamiche di classe, quelle di genere, quelle legate al fatto di essere una persona proveniente da una classe sociale povera che doveva inserirsi in un ambiente caratterizzato da privilegi straordinari».
Le cose sono cambiate per lei a livello personale…
«Quando sono stata eletta per la prima volta non avevo dimostrato niente di quello che sono. Ho sentito di dover dimostrare due cose, spesso in contrapposizione. In primo luogo dovevo dimostrare a chi mi aveva eletta di credere in tutti i valori, le battaglie politiche, di essere pronta ad affrontare l’establishment di partito e di battermi per far compiere passi avanti a questioni progressiste come l’assistenza sanitaria per tutti, le politiche per l’immigrazione o la riforma della giustizia penale. In secondo luogo, dovevo dimostrare a Washington di essere forte ed esperta, di non essere qui solo per produrre titoloni sui giornali».
Lei si era costruita un brand di outsider della politica, mentre ora è il secondo membro per importanza della potente House Oversight Committee. In quella Commissione ha la seconda carica più importante tra i democratici. Si sente una insider della politica, adesso?
«Non penso. Insomma, a un certo livello, una volta che si diventa legislatori si è sicuramente insider della politica. Rientra nel ruolo che si assume».
Quando è stata eletta per la prima volta, ha capito che avere potere e allacciare rapporti sarebbe stato di importanza cruciale per far progredire il partito.
«Quando sono arrivata a Washington sono entrata in un ambiente che credevo non mi avrebbe mai dato una possibilità, e in un partito che mi era ostile. Per questo mi sono lanciata a capofitto nel lavoro. Credo che molte donne e molte persone di colore si siano sentite ripetere spesso di dover lavorare il doppio degli altri per andare avanti. Ecco, io ho sentito di dover lavorare così. Sapevo che i rapporti e l’esperienza erano importanti, ma sentivo che le porte per me erano chiuse. La cosa migliore, quindi, era lavorare. Ricordo che quando ho interrogato Michael Cohen, una delle mie prime volte, c’è stato chi ha scritto che avevo messo in piedi un teatrino. Sapevo di essere capace di molto di più».
Che cosa le farebbe abbandonare X, prima nota come Twitter?
«Uso già molto meno la piattaforma. Ciò che mi indurrebbe a lasciarla è qualcosa di cui discutiamo in modo attivo, un episodio o qualcosa che capita un certo giorno».
Su X ha 13 milioni di follower. È il numero più grande di follower che ha sui social…
«Esatto. Ed ecco spiegato perché non è qualcosa da prendere alla leggera».
L’uso che ne fa Elon Musk sembra essere in antitesi con quello in cui lei dice di credere. Si potrebbe sostenere che l’essere su quella piattaforma equivalga a sostenerla...
«È legittimo affermarlo. Si tratta di qualcosa che mi turba molto. Ho ridotto la mia attività sulla piattaforma proprio a causa di questo tipo di preoccupazioni».
Di recente è tornata da un viaggio in America Latina insieme ad altri colleghi di origine latino-americana. Avete visitato Cile, Brasile e Colombia, Paesi guidati da leader di sinistra. È risaputo che, secondo lei, è importante avere al Congresso un numero maggiore di rappresentanti di origine latino-americana. Lei ha detto però qualcosa che mi ha colpito. Ha detto: “Siete qui perché i movimenti fascisti sono globali e, di conseguenza, anche i movimenti progressisti devono essere globali, se vogliamo dimostrarci all’altezza”. Lo considera uno sviluppo del suo lavoro? Alludo all’idea di cominciare a pensare a livello internazionale, anche se le sue idee possono essere in conflitto con la politica estera del leader del suo partito.
«Non definirei i miei obiettivi di politica estera in conflitto con quelli del presidente. Ho giurato fedeltà a questo Paese e prendo sul serio il mio giuramento. Credo però che quegli obiettivi progressisti di politica estera rappresentino una rottura rispetto all’inerzia del nostro passato nella Guerra Fredda. È ora di fare i conti con il nostro passato interventista in America Latina, perché ha creato un problema di fiducia tra i Paesi a noi vicini nell’emisfero occidentale. Quando un Paese ha una storia fatta di interventismo, sostegno ai colpi di Stato, spionaggio nei Paesi vicini, perché ci si dovrebbe fidare di lui? Io credo che sia importante far ripartire e far crescere la fiducia e le relazioni con i partner dell’emisfero occidentale».
Parlando dei nostri vicini, vorrei affrontare il tema dell’immigrazione. Rispetto ai tempi di Trump, con Biden c’è un numero superiore di richiedenti asilo rinchiuso in centri di detenzione. Si continuano a separare le famiglie. L’Amministrazione Biden ha mantenuto in vigore le politiche di Trump per accelerare le deportazioni e rendere più difficile venire negli Usa. Che voto darebbe, tenuto conto di questo, all’Amministrazione Biden per ciò che riguarda l’immigrazione?
«Senza dubbio, l’immigrazione è il tasto dolente di questa amministrazione. Si tratta di un ambito nel quale le nostre scelte sono dettate dalla politica. Abbiamo fatto raccomandazioni chiare all’Amministrazione per migliorare sotto questo aspetto, e credo che in parte l’esitazione alla quale assistiamo dipenda dal timore che si pensi che forniamo permessi. Oppure, che dipenda dalla narrazione che i repubblicani danno dell’immigrazione. Dobbiamo tenere conto che questo problema non inizia alle nostre frontiere, ma dalla nostra politica estera».
Perché non ha usato l’ascendente legato al fatto che lei è un’esponente politica di origini latino-americane per andare alla frontiera e sottolineare i problemi legati all’immigrazione, come ha fatto durante l’Amministrazione Trump? Come lei ha fatto presente, a New York City – il suo distretto – sono arrivati centomila migranti. Si calcola che ogni anno la città dovrà spendere 5 miliardi per prendersi cura dei nuovi arrivati. In parte questa crisi dipende dal fatto che i migranti sono trasportati in autobus a New York da alcuni governatori, ma si tratta di una crisi vera, che non piace ai newyorchesi. Un sondaggio ha appurato che il 62% degli elettori è favorevole a trasferire i migranti in altre zone dello Stato. Lei dice che i newyorchesi dovrebbero accoglierli, ma loro protestano. Forse sta fraintendendo quello che desidera davvero il suo elettorato?
«Non direi. Penso che siamo ancora disponibili, ma serve una partnership con il governo federale. Per quanto mi riguarda, non mi tiro certo indietro dal criticare Biden per come ha gestito l’immigrazione. New York è in prima linea, e abbiamo chiesto più volte all’amministrazione di alleviare la situazione».
Oggi si sente più a suo agio nel Partito democratico? All’inizio si è sentita respinta e ha cercato di cambiarlo. Ha detto di averlo indirizzato più a sinistra. Molti sarebbero d’accordo con questo. Dunque, le va bene essere considerata un’esponente democratica come gli altri oggi?
«L’attivista che è in me cerca sempre di smuovere le acque. Anche se si sono fatti passi avanti, molte persone in questo Paese si sentono ancora svantaggiate. Negli ultimi cinque anni, però, il Partito è cambiato in modo radicale».
Abbiamo iniziato questa chiacchierata ricordando che quando lei ha fatto il suo ingresso in politica stavamo vivendo un periodo non buono. Il suo mandato è stato tumultuoso, caratterizzato da attacchi alla democrazia e alla sua persona. Le piace il suo lavoro?
«Ho 33 anni e sono stata eletta per la prima volta a 28. In questi anni ho dovuto apprendere molte cose. Sono severa con me stessa e ogni tanto devo mettere in prospettiva il fatto di paragonarmi alle competenze di persone che hanno dai 20 ai 40 anni più di me. Certo, anche in questo caso, si tratta di qualcosa di importante. Ma una delle mie responsabilità è quella di tenere la porta aperta a chi vuole entrare». —