La Stampa, 7 settembre 2023
Contro il premierato
Il 1º agosto 2023 il senatore Matteo Renzi ha presentato al Senato un disegno di legge di revisione costituzionale avente a oggetto «Disposizioni per l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio in Costituzione». Testo molto significativo perché per la prima volta si viene a dare una veste concreta a quel modello inedito (e, almeno sinora, piuttosto oscuro) di forma di governo che si viene a qualificare con il termine “premierato” e il cui disegno, alla luce di ripetute dichiarazioni ufficiali, risulta oggi in corso di elaborazione come “riforma-chiave” da parte del governo e della sua maggioranza.
Il testo del disegno di legge ora presentato investe la riforma degli artt. 88, 92, 94 e 95 della Costituzione per definire una modifica dell’attuale forma di governo così configurata: a) elezione diretta a suffragio universale del presidente del Consiglio all’inizio di ogni legislatura contestualmente all’elezione delle Camere; b) il presidente del Consiglio, «organo di vertice del Governo», nomina e revoca ministri, la cui attività viene dallo stesso presidente indirizzata e coordinata ai fini del mantenimento dell’unità politica e amministrativa. Alla legge ordinaria spetta il compito di definire «gli atti di competenza del presidente del Consiglio quale organo di vertice del governo»; c) il voto di fiducia è eliminato, incombendo sul presidente del Consiglio, al momento della formazione del governo, soltanto l’obbligo di illustrare alle Camere entro dieci giorni dal giuramento le linee programmatiche dell’esecutivo; d) le Camere conservano il voto di sfiducia, ma in questo caso, come nel caso di un doppio voto contrario su una questione di fiducia posta dal governo, il presidente del Consiglio deve rassegnare le dimissioni che comportano, peraltro, automaticamente la fine della legislatura mediante lo scioglimento delle Camere da parte del presidente della Repubblica.
Qual è la prima impressione che questo progetto suscita? Senza timore di esagerare quello che si è indotti a pensare a prima lettura è che la soluzione proposta si presenta come la più rischiosa (oltre che potenzialmente come la più eversiva) tra tutte quelle che sinora sono state avanzate per trasformare in senso presidenziale la forma di governo parlamentare di cui disponiamo dalla nascita della nostra Repubblica.
Le ragioni di questo giudizio sono facili da comprendere ove si ponga attenzione essenzialmente su due aspetti: a) sul fatto che con questo progetto si ribalta il rapporto naturale tra Parlamento e governo dal momento che al Parlamento viene sottratto il voto di fiducia (perno essenziale del governo parlamentare) e il governo, nella persona del suo vertice, viene a disporre sostanzialmente dello scioglimento delle Camere e della durata della legislatura, risultando di fatto molto problematico l’uso da parte delle Camere di un voto di sfiducia a effetto suicida; b) sul fatto che con questo progetto vengono sottratti al Capo dello Stato i due poteri che danno spessore politico alla sua funzione di supremo garante degli equilibri costituzionali e cioè sia il potere sostanziale di scioglimento delle Camere, sia il potere di intervento nella formazione del governo.
Accade così che i poteri di base, di indirizzo politico e di garanzia costituzionale, oggi presenti nel nostro impianto istituzionale vengono sottratti sia al Parlamento che al Presidente della Repubblica per essere affidati, per l’arco di una intera legislatura, nelle mani di una sola persona fisica che rispetto alla collegialità del governo può disporre di un potere pieno e incondizionato.
Una riforma così concepita non investe, dunque, come taluni sono indotti a pensare, soltanto alcuni aspetti particolari della nostra forma di governo bensì trasforma radicalmente questa forma in una forma inedita che rovescia completamente la fisionomia dell’attuale impianto costituzionale orientandone il percorso su di un binario a destinazione ignota. Il rovesciamento di prospettiva nasce dal fatto che con questo disegno rispetto all’impianto attuale si finisce per abbandonare sia il principio di una centralità parlamentare espressione del pluralismo politico ed istituzionale del Paese, sia la presenza di un solido sistema di contrappesi al potere centrale costruito in funzione di garanzia di una rigidità costituzionale necessaria per tenere unito un sistema politico molto frammentato e diviso come il nostro.
La domanda di fondo che va posta difronte ad un disegno così formulato è, dunque, a mio avviso, questa: nelle condizioni oggi date (non molto diverse sul piano strutturale da quelle che caratterizzarono la nascita della nostra Repubblica con la presenza di molti partiti molto divisi) la “governabilità” che si intende perseguire attraverso una concentrazione del potere centrale nelle mani di una sola persona fisica (e con la correlata attenuazione dei contropoteri di garanzia) risulta compatibile con la “sostenibilità” di un assetto democratico quale è il nostro politicamente fragile per le sue forti divisioni interne? In altri termini, nelle condizioni date è sostenibile un “premierato” come quello sopra descritto o le prime riforme da fare per rafforzare la “governabilità” del sistema riguardano innanzitutto il grado di coesione dell’impianto politico cui spetta il compito di far funzionare questa forma? E cioè, innanzitutto, la riforma della legislazione elettorale e della disciplina relativa alla vita interna ed al funzionamento dei partiti?
Per cogliere la particolarità della situazione italiana rispetto al tema della “governabilità” basti solo riflettere sull’ultimo risultato elettorale del 25 settembre 2022, e fare una simulazione, sia pure approssimativa, di una elezione diretta del presidente del Consiglio. Considerando la partecipazione elettorale che si è avuta in questa occasione, pari al 64%, ed i voti conseguiti dal partito di maggioranza relativa (FdI), pari al 26%, nonché dallo schieramento della destra, pari al 44%, cosa sarebbe accaduto se questa riforma fosse stata operante? Nel caso di otto candidature per la presidenza del Consiglio (tre per la destra, tre per la sinistra e due per il centro), il presidente eletto sarebbe venuto a disporre di una rappresentanza del corpo elettorale inferiore al 20%, mentre nel caso di tre candidature (una per la destra, una per la sinistra ed una per il centro) questa rappresentanza non avrebbe superato la soglia del 30%.
Questo livello di rappresentanza del corpo sociale può giustificare il livello di concentrazione del potere che con questo “premierato” si intende operare? E rispetto alla realtà oggi in atto una investitura di questo tipo può ritenersi veramente rispondente ai canoni di una “democrazia decidente”?
Consideriamo, d’altro canto, le giustificazioni che solitamente vengono addotte a sostegno di questa forma di “premierato”. La prima giustificazione è che con l’elezione diretta del vertice del governo il cittadino conterebbe di più perché verrebbe a scegliere, senza la mediazione dei partiti, chi lo deve governare per un’intera legislatura, evitando il rischio di ribaltoni. Ma questa scelta può considerarsi veramente democratica se viene espressa da una minoranza del corpo elettorale e se il cittadino limita la sua presenza al giorno del voto senza poter disporre, per il resto della legislatura, della possibilità d’influire, in assenza di una continua ed efficace mediazione politica, sulle scelte della persona investita del potere?
Una ulteriore giustificazione del “premierato” viene, d’altro canto, addotta richiamando l’esperienza nel complesso positiva che nel nostro Paese si è realizzata introducendo l’elezione diretta del sindaco e del presidente della Regione. Se l’elezione diretta ha funzionato bene per i vertici del governo locale – si dice – perché non può funzionare ugualmente bene ove venga adottata per il vertice del potere nazionale? L’osservazione non sarebbe priva di pregio se fosse in grado di comparare realisticamente due realtà istituzionali che restano, invece, tra loro del tutto differenti. Il fatto è che alla forma di governo nazionale spetta il compito di sorreggere, al piano più alto, l’indirizzo politico ed il sistema delle libertà di un intero Paese, compito ben diverso, con riferimento al rapporto tra “governabilità” e “sostenibilità” di un impianto istituzionale, da quello che caratterizza la forma del governo locale, dove i rischi dello squilibrio in questo rapporto sono limitati dalla presenza di un sistema politico e istituzionale sovrastante e di strumenti di controllo di livello nazionale. Il potere del sindaco e del presidente della Regione, per quanto rafforzato da un’elezione diretta, non può mai giungere al punto di presentare un pericolo per l’equilibrio politico complessivo del Paese e per il sistema delle libertà garantito dalla Costituzione.
Queste sono le impressioni che a prima lettura questo disegno di “premierato” appena messo in campo viene a suscitare. Impressioni che lasciano intravedere la presenza di un rischio non trascurabile ove lo stesso il disegno dovesse trovare concreta attuazione. Di questo rischio, al di là di qualsivoglia considerazione ideologica, l’opinione pubblica, che oggi appare sul tema delle riforme costituzionali piuttosto distratta e addomesticata, deve acquistare consapevolezza prima che si giunga alle definitive scelte parlamentari o, se ci sarà, prima che si giunga ad un referendum confermativo della riforma.
Riforme, dunque, sì per consolidare la stabilità e l’efficienza delle funzioni di governo, ma senza trascurare i dati oggettivi che ci vengono offerti dalla nostra storia e dal nostro diritto costituzionale oltre che da una valutazione realistica del nostro sistema politico. —