il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2023
La verità sul Jobs Act
È ritornato il dibattito sul Jobs Act, con Cgil e in parte il Pd che chiedono un referendum contro e Renzi che lo difende, dicendo che ha creato oltre un milione di posti di lavoro.
Sono stato fortemente critico di una parte del Jobs Act: quella che fa riferimento al Contratto a tutele crescenti (Ctc), che abolendo di fatto l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, permetteva il “licenziamento illegittimo”, attraverso un meccanismo sanzionatorio monetario che è stato già dichiarato incostituzionale dalla Corte costituzionale; e quella che fa riferimento al decreto collegato della disciplina del lavoro a termine, il cosiddetto decreto Poletti. Ne ho scritto su articoli scientifici e su quotidiani (anche sul Fatto il 22 febbraio del 2017: “Jobs Act, le 5 verità sul flop: il precariato è peggio che nel 2014”) per evidenziarne le principali criticità, da quando nel 2017 si cominciavano a vedere gli effetti, dati alla mano, sul mercato del lavoro.
Obiettivi falliti: occupati, investimenti, produttività
Innanzitutto, il Jobs act fallisce, come tutti i decreti sul mercato del lavoro negli ultimi 30 anni, nei suoi tre obiettivi dichiarati: 1) aumento dell’occupazione; 2) aumento degli investimenti; 3) aumento della produttività. È noto a tutti che la nostra occupazione è sempre stata intorno a 23 milioni di lavoratori negli ultimi due decenni e nessuna riforma ha aumentato il tasso di occupazione, sempre intorno al 59%. Anche l’incremento recente del relativo tasso dal 59 al 61% è frutto solamente di un effetto statistico, dovuto alla riduzione della forza lavoro in età attiva, tra i 15 e 65 anni, per via del calo demografico pari a -800mila unità (come dice anche l’ultima relazione del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco). Gli investimenti, al netto di quelli previsti nel Pnrr, sono scesi del 25% negli ultimi due decenni, anche quelli dall’estero. E la produttività è stagnante da un quarto di secolo. Sarebbe velleitario sostenere veramente che un decreto aumenti l’occupazione.
Quello che succede in genere, dopo ogni riforma del mercato del lavoro in Italia, è la ricomposizione dell’occupazione, ovvero l’aumento o la diminuzione del lavoro a tempo indeterminato e del lavoro a termine. E questo è successo sia con il Jobs act (quando è aumentato il lavoro a termine) sia con il decreto Dignità (quando è aumentato il lavoro a tempo indeterminato), le ultime due riforme del mercato del lavoro.
Il Jobs act, un impianto composto da diversi decreti, aveva alcune contraddizioni, la più evidente era che se da una parte incentivava il nuovo contratto a tempo indeterminato, chiamato Contratto a tutele crescenti (Ctc), dall’altra liberalizzava il contratto a tempo determinato, togliendo qualsiasi causale per l’assunzione a termine, favorendo quindi la precarietà, attraverso il cosiddetto decreto Poletti, contestuale alle misure del Jobs act. In effetti, oggi non si può proprio dire che il Jobs act abbia creato 1 milione di nuovi posti di lavoro stabili, ma semmai ha aumentato l’occupazione a termine, che per definizione è di breve periodo, generando più precarietà, ma in totale con un numero di ore totali lavorate inferiore oggi rispetto a 20 anni fa.
Falso storico: nessun aumento di posti stabili
Sulla spinta degli esoneri contributivi pari nel primo anno alla cifra piena di 8.060€ euro annui per ogni assunto a tempo indeterminato (con il nuovo Ctc), nel 2015, primo anno di applicazione, si hanno 1,9 milioni di assunzioni a tempo indeterminato, e contestualmente 1,7 milioni di cessazioni, per una variazione netta di nuovi assunti a tempo indeterminato pari a 250mila lavoratori. Già nel 2016, quando l’incentivo si riduceva, il saldo tra assunzioni (1,2 milioni) e cessazioni (1,6 milioni) diventava negativo, pari a -391mila lavoratori. Contestualmente aumentava il tempo determinato, spinto dal decreto Poletti, determinando un saldo positivo per via dell’occupazione precaria, che era cresciuta dal 2015 al 2016 per circa 206mila unità (circa il 10% in più). Nel 2017, terzo anno del Ctc, con incentivo ulteriormente ridotto, i nuovi rapporti a tempo indeterminato erano pari a 1,1 milioni e le cessazioni sempre intorno a 1,6 milioni, quindi molto più alte, e il saldo dell’occupazione stabile era pari a -523 mila assunzioni (fonte: Inps, Osservatorio sul precariato, open data).
La crescita dell’occupazione fu trainata unicamente dall’occupazione temporanea che era cresciuta fino a 3,2 milioni (da 2,5 milioni nel 2016) e crebbe ulteriormente nella prima parte del 2018. Alla vigilia dell’introduzione del decreto Dignità, nell’estate del 2018, che di fatto aboliva il decreto Poletti introducendo le causali, il tempo determinato aveva raggiunto il suo picco con circa 3,5 milioni di lavoratori a termine (fonte: Inps, Osservatorio sul precariato).
Dalla seconda metà del 2018 in poi, grazie al decreto Dignità, avveniva l’inversione: cresceva il lavoro a tempo indeterminato e diminuiva il lavoro a termine, fino alla pandemia Covid, quando di nuovo si raggiunse il livello più basso di lavoro a termine, pari a circa 2,5 milioni nel 2020. Questo dicono i dati dell’Inps, pubblici, dell’Osservatorio sul precariato.
Regalo alle imprese: 17 mld di sgravi senza veri effetti
Il Jobs act è costato 17 miliardi in 3 anni in termini di incentivi alle assunzioni ed esoneri contributivi e non è stato capace di creare nuova occupazione stabile e di qualità. Del resto, l’occupazione non si crea con decreto e nemmeno con incentivi, ma solo con investimenti che aumentino i posti vacanti e accrescano la domanda aggregata. Tutto il resto è palliativo, flessibilità spuria, turn over, cambiamento della composizione del lavoro, precarietà e disuguaglianze tra lavoratori considerati di serie A e di serie B.
Anche un recente studio della Banca d’Italia, che prende a riferimento le liberalizzazioni del lavoro a termine introdotte nel 2001, arriva a conclusioni simili e dimostra che la flessibilità – per tanti anni è stata considerata, erroneamente, la panacea del mercato del lavoro italiano – non ha prodotto aumento di occupazione, ma ha solo aumentato il turn over, la precarietà, i profitti e le disuguaglianze.
Infine, e non meno rilevante, in un articolo pubblicato sulla rivista internazionale Economic Policy, tre professori (De Paola, Nisticò e Scoppa) nel 2021 trovano un risultato sbalorditivo: il Jobs act ha anche ridotto il tasso di fecondità nelle donne dell’1,4% a causa di incertezza e instabilità. In un Paese come il nostro, caratterizzato dal declino demografico, questo forse è il più brutto dei risultati di quella riforma.