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 2023  settembre 06 Mercoledì calendario

Vittorio Orlando e quei 48 giorni da Zara alla Sicilia dopo l’8 Settembre

«Campagna campagna», scriverebbe Andrea Camilleri, il soldatino carabiniere Vittorio Orlando, profugo dell’8 Settembre, si fece oltre settecento dannatissimi chilometri a piedi per tornare a casa rimpiangendo a ogni passo, piaga su piaga, gli stivaletti di cuoio che aveva dovuto scambiare con delle vecchie e malandate scarpe da ginnastica troppo corte per lui. Un calvario. D’altra parte, non aveva avuto scelta: «Se ti fermavano, i tedeschi ti guardavano per prima cosa le scarpe. Se avevi quelle militari finivi diritto nei lager in Germania...»
Quando ci pensa, alla vigilia dei suoi novantanove anni, ancora ringrazia la Madonna Nera di Tindari, protettrice del suo borgo natio, dei naviganti e tutti i viaggiatori: «Quando mi misi in viaggio per tornare a casa ero ancora picciriddu. Poco più di diciotto anni. Ero una “cosa cruda”, diciamo noi. Avevo la quinta elementare, dopo aver fatto il mozzo su un peschereccio mi avevano preso a 17 anni nei carabinieri e mandato su, sul fronte jugoslavo. Manco sapevo, quando crollò tutto, che il Re a luglio aveva deposto Mussolini e ora c’era Badoglio. Era una cosa immensamente più grande di me. Niente sapevo. Men che meno quant’ero lontano da casa e quanto ci avrei messo a rivedere la Sicilia».
Racconta Stefano D’Arrigo nel suo monumentale (1.264 pagine) capolavoro Horcynus Orca che il protagonista Andrea Cambria, il marinaio della Regia Marina Italiana sconvolta dal ribaltamento delle alleanze, scese in cinque lunghissimi giorni da Napoli a Cariddi. Lui, Vittorio, per tornare dalla veneziana Zara in Dalmazia fino a Patti, in faccia a Lipari e alle Eolie, ne impiegò quarantotto.
Via le uniformi
«Il 3 settembre 1943, senza alcuna avvisaglia nei giorni precedenti (solo dopo avremmo saputo dell’armistizio segretamente firmato quel giorno) ci fecero salire su una nave per Fiume. Ignari di tutto. Arrivati lì ci caricarono su una tradotta con destinazione Trieste. Ma il treno non ci arrivò mai. E si fermò a Prestane, un paese di poche anime sotto Postumia. E restammo lì, fermi, per giorni. In attesa di cosa? Boh... Forse gli ufficiali forse sapevano qualcosa. Noi no. Zero. Finché l’8 Settembre, mentre calava la sera, piombò enorme la notizia che la guerra era finita. Finita, ma continuava. I tedeschi? Boh... Poche ore e gli ufficiali non c’erano più. Arrestati, forse... O già in fuga. Un caos. Passammo la notte a chiederci: cosa facciamo? “Andiamo a casa!” All’alba abbandonammo lì le armi e via, in marcia...»
Sapevano, o immaginavano, che i nazisti si sarebbero concentrati su Trieste. Scelsero di restare alla larga dalla città e buttarsi tra i boschi carsici verso il monte Nanos e Gorizia. Giorni di fatica estrema. Fame. Angoscia. Paura dei tedeschi che stavano occupando pezzo a pezzo il territorio. Paura dei partigiani titini che mentre contendevano il territorio ai nazisti davano anche la caccia agli italiani, compromessi o meno che fossero col fascismo: «L’unico che avesse un po’ di esperienza era mio cugino, Pietro Ligari. Pure lui carabiniere. Come me e altri cinque colleghi tutti siciliani coi quali saremmo rimasti sempre insieme fino al ritorno nell’isola. Avevamo una bussola. A Gorizia chiedemmo aiuto a una famiglia di contadini. La figlia era fidanzata con un carabiniere. Avevamo addosso ancora le divise. Lasciammo lì tutto. Giacche, pantaloni, maglioni, camicie, stivaletti... Tutto. E così, vestiti di povere cose ma civili, tornammo a camminare verso Udine. Restando alla larga dai paesi e dalle strade principali. Possibilmente sui viottoli, tra i boschi».
Buona sorte
Udine, finalmente: «Restammo appostati, muti, vicino alla stazione. A un certo momento arrivò lontano l’annuncio di un treno di sfollati per Roma. I tedeschi pattugliavano armati i binari. Ma il caos era indescrivibile. Dovevamo giocarcela. Non so come, all’ultimo istante, mentre il treno partiva, riuscimmo a salirci sopra...» Una botta di fortuna. «Poteva capitare», conferma lo storico Roberto Spazzali, autore de Il disonore delle armi. Settembre 1943: la mancata difesa della frontiera orientale (edizioni Ares) in uscita in questi giorni, «Stavano rimpatriando verso il Sud, in aree relativamente più sicure, le famiglie di tanti militari e dipendenti pubblici. Gli stessi tedeschi non riuscivano ancora a controllare a tappeto. Mischiarsi in quel caos...»
Tre giorni e due notti dopo («Saltò fuori, prima che arrivassimo a Bologna, che uno di noi aveva tenuto una pistola: un errore che potevamo pagare caro») il convoglio coi carabinieri clandestini era alle viste della stazione Termini. Occupata già il 9 settembre dei nazisti. Che rastrellavano i nostri militari per spedirli in Germania: «Il treno, per fortuna, prima di entrare sotto le pensiline, si fermò. Riuscimmo a scendere. Miracolosamente liberi. Meglio ancora: sempre clandestinamente, poche ore dopo, approfittando della baraonda, riuscimmo perfino a salire su un treno locale che scendeva verso Napoli...».
Fame e freddo
Superata Cassino prima che la «Linea Gustav» dei tedeschi contro gli Alleati che risalivano la penisola, operativa dal 4 ottobre, diventasse una barriera impossibile da penetrare, Vittorio e i suoi sei commilitoni arrivarono fino a Pignataro Maggiore, una ventina di chilometri a nord di Caserta: «Da lì in avanti, niente treni. Proseguimmo a piedi, guardinghi, decisi a evitare Napoli e Salerno dopo lo sbarco anglo-americano, verso Potenza. Mangiavamo la frutta sugli alberi, le carote, le verdure che trovavamo negli orti. Mai avuta tanta fame. E tanto freddo di notte. All’addiaccio. A Potenza, stanchi morti, ci presentammo ai carabinieri. Il comandante si guardò e disse: “E io che devo fare? Non abbiamo disposizioni”. Proseguimmo scendendo verso Sapri. E da lì, faticosamente, con le piaghe ai piedi, ci facemmo tutta l’interminabile costa campana, lucana e calabrese fino a Bagnara Calabra. Di là del mare, nel sole, c’era la Sicilia».
Horcynus Orca racconta che lì Andrea Cambria, il profugo dell’8 Settembre, riuscì a farsi portare in barca da una «femminota, Ciccina Circè, che per la traversata si fa aiutare dalla fere: le incanta con il suono di una campanella che tiene a bordo, gli animali che saltano intorno alla barca tengono lontani gli spiriti dei molti soldati morti in quel tratto di mare». Lui e i suoi compagni di odissea no: «Ci aiutò un pescatore con una barca di sei metri. A remi. Erano otto miglia marine. Remammo e remammo. Quando misi il piede a Torre Faro, sulla terra nostra, mi sentii scoppiare il cuore». Mancavano ancora, seguendo la costa per arrivare a Patti, al paese, alla casa dei genitori che da settimane non avevano notizie di Vittorio e degli altri quattro figli in guerra, 74 interminabili chilometri. Un golgota. Ancora a piedi. Quando arrivò era il 26 ottobre. La mamma pianse. Poi buttò la pasta. Col pomodoro e la cotica.