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 2023  settembre 06 Mercoledì calendario

A 80 anni dall’armistizio

Ottanta anni fa, il giorno dello sgomento e poi delle scelte: una patria che muore, un’altra che prova a rinascere. Alle 19.42 dell’8 settembre 1943 la voce del maresciallo Badoglio, incisa su disco, annuncia alla radio la firma dell’armistizio. Testo conciso, poche righe fredde redatte nello stile dell’ufficialità di stato: «Il Governo, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria (…) ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze anglo-americane. La richiesta è stata accolta». I quotidiani del giorno dopo, nello sforzo di temperare il dramma del Paese con l’appello ad un improbabile orgoglio guerriero, richiamano il Badoglio della Grande Guerra e parlano di «Una voce maschia e ferma eppure attraversata da un velo di tristezza». Più realisticamente, Cesare Pavese ricostruisce l’emozione di quella sera in una pagina de La casa in collina: «Alla radio la voce monotona, rauca, incredibile, ripeteva macchinalmente ogni cinque minuti la notizia. Cessava e riprendeva, ogni volta con uno schianto di minaccia. Non mutava, non cadeva, non aggiungeva mai nulla. C’era dentro l’ostinazione di un vecchio, di un bambino che sa la lezione». In quel particolare clima di guerra, dove su tutti grava la stanchezza di un conflitto senza sbocchi, l’annuncio dell’armistizio suscita smarrimento, angoscia per il futuro, confusione.
La storiografia resistenziale ha trasformato l’8 settembre nell’inizio della nuova Italia della democrazia e del coraggio: in una prospettiva di lungo periodo è vero, perché la Resistenza ha le sue radici in coloro che da subito si armano per opporsi all’occupazione tedesca. Ma è altrettanto vero che le scelte antifasciste della prima ora sono poche e non sempre consapevoli: a volte si tratta semplicemente di scappare in montagna per non essere catturati e internati in Germania. Il tratto che domina l’8 settembre e i giorni successivi è lo sgomento per uno Stato che si è liquefatto, per un Re, un Governo e un gruppo dirigente che sono fuggiti da Roma senza lasciare alcuna indicazione operativa. «Conseguentemente – prosegue il comunicato di Badoglio – ogni ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane. Esse però reagiranno a eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza». Reagiranno come? Da quale livello di comando devono partire gli ordini? Che cosa significa «qualsiasi altra provenienza»? Nessuna chiarezza, solo una circolare, la “Memoria 44 OP” inviata ai comandi d’armata, più equivoca e omissiva dello stesso comunicato radio: essa stabilisce infatti che i reparti reagiranno solo in caso di «un’iniziativa d’attacco di proporzioni tali da sottintendere un piano di aggressione generale e preordinato». Se per rispondere a un’azione armata bisogna prima verificare su quanti chilometri questa si estende, si finisce per essere catturati prima ancora di aver sparato un colpo. Come infatti accadde: secondo i dati degli archivi tedeschi, sono 1.006.730 i soldati italiani disarmati dai Tedeschi dall’8 al 30 settembre. Una patria che muore.
Ma l’8 settembre è anche il momento della scelta: nella totale mancanza di certezze e di riferimenti, il cittadino si ritrova solo con se stesso, in un clima di tensione che obbliga a schierarsi e a rischiare. Come ha scritto Claudio Pavone, «eventi eccezionali, catastrofici, pongono gli uomini davanti a drastiche opzioni. Il vuoto istituzionale creato dalla gestione dell’armistizio caratterizza in questo senso il contesto in cui gli Italiani furono chiamati a scelte alle quali molti di loro mai pensavano che la vita potesse chiamarli». Sostenere che la maggioranza abbia scelto la Resistenza facendone una consapevole guerra di popolo fa parte di una vulgata costruita nel dopoguerra e che, come tale, ha fatto il suo tempo. Molti giovani, in realtà, scelgono volontariamente la Repubblica sociale, perché rappresenta la continuità con i valori nei quali sono stati cresciuti dalla scuola fascista (l’onore, la fedeltà alla parola data, la bella morte, il sacrificio); altri scelgono invece la rottura con il fascismo, con l’alleanza con Hitler, con la guerra, e danno vita alle prime bande partigiane. I dati, per quanto approssimativi e non verificabili, parlano di 18mila militanti partigiani alla fine di dicembre 1943 (la fonte è Giorgio Bocca) e oltre 100mila militi di Salò alla stessa data. Scelte fatte in buona fede, dall’una e dall’altra parte; tutti disposti a mettere in gioco la propria vita, a vent’anni o poco più, per un ideale creduto giusto.
Dunque, tutti assolti e tutti equiparabili (come spesso si sente richiedere)?
Personalmente, credo sia necessario liberare la memoria di chi ha scelto la parte sbagliata dalla dannazione morale e riconoscerne le motivazioni, ma a patto di non trasformare la buona fede in alibi interpretativo assolutorio. La buona fede è una categoria che vale per le biografie dei singoli uomini; quando si fa la biografia dei popoli, cioè quando si fa Storia, il giudizio va dato sui progetti per i quali gli uomini si sono battuti, non sulla sincerità dei singoli, altrimenti tutti sarebbero sempre assolti.
Nel biennio 1943-45 si sono contrapposti due progetti: se avesse vinto la continuità, avremmo avuto l’Europa divisa non secondo i confini tra gli Stati, ma secondo la gerarchia tra i popoli, con gli ariani destinati al comando, i mediterranei e gli slavi al lavoro, gli ebrei, i rom e chissà quant’altri all’estinzione. Ha vinto invece la rottura, che voleva dire basta con la guerra, con il razzismo, con i lager, con l’antisemitismo. Qualcuno intendeva la rottura in vista della costruzione di una società socialista, qualcun altro guardava al modello delle democrazie liberali: sono contento di essere nato nella parte di Europa dove ha vinto la rottura democratica. È a queste categorie che va riferito il giudizio storico su quanto accade in Italia dopo l’8 settembre e sulla “patria nuova” che ne nasce. Lo scriveva Italo Calvino già nel 1947, ne Il sentiero dei nidi di ragno: «La rabbia che fa sparare noi con speranza di riscatto è la stessa che fa sparare i fascisti. E allora dove sta la differenza? La differenza è che noi, nella storia, siamo dalla parte della ragione e loro dalla parte del torto».
Non sono forse in buona fede i criminali dell’Isis? Per le loro idee si fanno addirittura saltare in aria, e ciò non toglie che chi si fa esplodere nei mercatini di Natale o travolge i passanti sul lungomare di Nizza sia a tutti gli effetti un criminale.