Domenicale, 3 settembre 2023
Quando la penna sostituirà il computer
Pagina deriva dal latino pagus, originariamente riferito – secondo la glossa del teologo e filosofo Ivan Illich – a «una distesa coltivata di campi ed edifici, ideale per una passeggiata». Si trattava di una zona di campagna con le relative abitazioni. Gli abitanti del pagus erano contadini, in inglese peasants, termine che deriva dalla medesima fonte. Nell’arare i campi attorno al villaggio, cioè al p agus, i contadini scrivevano una pagina. Infatti il verbo scrivere, in inglese to write, deriva dall’antico sassone writan, che originariamente significava graffiare, strappare, segnare. Pertanto, quando sul terreno c’era qualcosa di inciso, graffiato, tagliato o strappato – ad esempio impronte animali, pezzi di legna, solchi arati – esso costituiva del writing, ovvero dello scrivere. Solo per estensione la parola è giunta a riferirsi all’atto umano dell’incidere segni in una pietra, e da lì all’iscrizione su altri tipi di superficie, dalla pergamena alla carta. Solo a quel punto l’accezione del termine si è ristretta dalle iscrizioni di ogni tipo alla specifica forma delle lettere.
Oggi, ovviamente, la pagina sta uscendo di scena, in quanto il piano delle lettere si è tramutato nella sua stessa apoteosi, ovvero lo schermo del computer. Sullo schermo, dietro un pannello di vetro trasparente che chi fabbrica sistemi informatici paragona a una finestra, le lettere nere sembrano andare alla deriva su uno sfondo bianco. Illich ha descritto come, nei primi giorni della videoscrittura, la visione del testo che spariva istantaneamente, e delle linee eliminate non appena veniva premuto il pulsante «canc», gli causava una sensazione fisica di disgusto. La pagina stessa, come superficie sostanziale, è svanita. Agli uomini del Medioevo l’idea che si potesse leggere della scrittura priva di una pagina da cui leggere sarebbe apparsa tanto assurda quanto supporre di poter fare una passeggiata senza un suolo su cui camminare. Il fatto che possiamo fare a meno di questa superficie con equanimità – il fatto che non siamo sconcertati dal pensiero della lettura senza pagina – dimostra quanto abbiamo perso contatto con le superfici del mondo, e quanto percepiamo la nostra vita come liberamente fluttuante al di sopra di esse.
La tecnologia digitale ha dunque fatto qualcosa per ridurre lo iato fra nero e bianco, occhio e mano, linea e superficie? Fino a ora, la risposta è decisamente no. Lo iato, se mai, si è solo ampliato. La scrittura a mano è già diventata una cosa del passato. Non più in grado di esprimere i propri sentimenti direttamente nelle linee, i nativi digitali hanno dovuto ricorrere a un vocabolario surrogato di emoticon standardizzate. La prossima cosa che perderemo sarà la voce. Cantare una ninna nanna, una melodia triste, un canto natalizio o anche solo una melodia a bocca chiusa diventerà una cosa del passato: bisognerà visitare un museo per ascoltarli grazie ad antiche registrazioni digitalizzate. In futuro, le persone dimenticheranno come cantare, allo stesso modo in cui hanno dimenticato come scrivere a mano. Invece, dei sintetizzatori digitali, operati da neurotrasmettitori collegati al cervello, pomperanno messaggi assemblati da un repertorio standardizzato di suoni.
C’è tuttavia speranza, in quanto la rivoluzione digitale ha di certo i giorni contati. Quasi sicuramente si autodistruggerà, probabilmente già entro questo secolo. In un mondo che fronteggia l’emergenza climatica, è manifestamente insostenibile. Non solo perché dai supercomputer dipende il consumo di colossali quantitativi di energia; ma anche perché l’estrazione di metalli pesanti tossici da utilizzare nei dispositivi digitali, a costi massicci per chi si trova in fondo alla scala del processo lavorativo, sta fomentando conflitti genocidi in tutto il mondo, e verosimilmente renderà molti ecosistemi inabitabili per sempre. Intanto, la digitalizzazione continua a dissolvere a un ritmo senza precedenti gli archivi in cui abbiamo custodito la storia. Cosa sarà allora di noi? Privi della mano e della voce, saremo destinati ad andare nella stessa strada della tecnologia, quella della certa distruzione reciproca?
Una piccola invenzione potrebbe salvarci la vita, e forse anche il pianeta. Consisterebbe in niente più che un tubicino da tenere in mano, montato su un’asta e riempito di un liquido nero o colorato, estratto da materia vegetale. Questo tubo da un capo è chiuso, mentre all’altro è apposta una punta di cheratina – la materia delle piume o delle unghie – con in mezzo un taglio. Al contatto della punta con una superficie, un’azione capillare trascina il contenuto liquido giù dalla fessura, così da lasciare una traccia. Per mezzo di questo strumento è possibile scrivere su qualsiasi superficie di tessuto, che sia lino, carta o papiro. Il suo potenziale espressivo e la sua versatilità non hanno pari in nessuna interfaccia digitale contemporanea. Farla non costa quasi nulla, in quanto vengono utilizzati ingredienti naturali che si trovano praticamente ovunque. È facile da usare, non richiede nessun apporto di energia esterna e non lascia alcun inquinamento dietro di sé. Questa semplice invenzione potrebbe assicurare il futuro della scrittura per centinaia se non migliaia di anni, come ha già fatto in passato, fino a che le forze della digitalizzazione l’hanno portata sul punto di estinguersi. E forse, mentre reimpariamo a scrivere tramite questo dispositivo, riscopriremo anche la voce. Ci ricorderemo come cantare e come parlare. Nella storia, gli esseri umani hanno parlato e cantato per molto tempo prima di imparare a scrivere. Ma, in futuro, potrebbe succedere il contrario.
(Traduzione di Antonio Gurrado)