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 2023  settembre 05 Martedì calendario

Intervista a Massimo Cacciari

Massimo Cacciari, nella veste di supervisore scientifico del Festival della Politica (Mestre, 7-10 settembre, anteprima il 6) ci spiega il titolo di quest’anno, “La globalizzazione dopo la globalizzazione”?
«Lo slogan non implica affatto che la globalizzazione ha fallito, ma che si è trasformata. Per quanto contraddittorie le interconnessioni, dal punto di vista economico, finanziario, tecnico, non sono in discussione. I meccanismi attualmente in vigore nel mondo renderebbero possibile la fine di questo processo solo con una radicale, immane catastrofe».
Cos’è cambiato allora?
«C’è stata una lezione di realismo. È tracollata l’idea che tutto ciò avrebbe portato quasi meccanicamente alla creazione di un qualche governo sempre più unitario, condiviso, di questo pianeta, e dei problemi colossali che lo investono».
Dunque a essere imploso è il versante politico del fenomeno?
«Esatto. Si pensava che la scatenata globalizzazione che si è imposta a fine Novecento, con la fine della Guerra fredda e la caduta del Muro di Berlino, sarebbe stata non solo economica: avrebbe dovuto portare, appunto, a unaforma di governo globale. Erano opinioni molto diffuse, pensiamo ad esempio a teorie politiche serie come quella della fine della Storia: cioè la fine del conflitto politico come elemento regolatore degli spazi imperiali».
A favore di un multilateralismo realizzato?
«C’erano diverse idee: alcuni pensavano a questo traguardo in termini multilaterali, altri, soprattutto negli Stati Uniti, pensava al governo di uno solo, cioè dell’America. Il sogno di un Campidoglio a Washington. Ad accomunare le varie teorie era pensare che la globalizzazione economico finanziaria avrebbe indotto un processo pattizio – non la pace vera e propria, certo – tra le diverse aree del mondo».
E invece…
«… Invece, come alcuni realisti avevano detto già diversi anni fa, le cose non sono andate secondo questa vulgata».
Lei era tra loro.
«Non è questo il punto».
Ok, ci dica qual è.
«Il punto è che sono riemerse la politica, la Storia, in modo prepotente. E tutti abbiamo visto che ci sono interessi culturali e politici, aree culturali e politiche, che non si possono conciliare.
La guerra attuale ha segnato il punto di non ritorno di ogni illusione».
C’è l’ombra di errori pregressi nel risorgere dei conflitti?
«Il problema è che nei decenni successivi alla caduta del Muro non si sono attivati quei processi politico-diplomatici che, accompagnandosi alla globalizzazione tecnico-economica, avrebbero forse potuto prevenire il caos attuale. Non se ne è curato nessuno».
Nemmeno la Ue, che pure ne avrebbe la vocazione?
«L’Europa ha sempre sostenuto a paroleil multilateralismo, il policentrismo, è questa la sua cultura politica. Ma in realtà non ha svolto alcun ruolo fattivo: dopo il traguardo della moneta unica, qualsiasi spinta in questa direzione si è arrestata. E si è abbandonata l’idea dell’unità politica, che avrebbe potuto agevolare i rapporti di mediazione tra le varie aree del mondo. Così ci siamo condannati all’irrilevanza e alla subalternità».
Del protagonismo dell’Unione perciò non resta nulla?
«Al momento gli attori principali sono altri, la Russia, la Cina, ma anche i Paesi terzi come India o Brasile, che in questo scenario potenzialmente catastrofico si stanno riorganizzando. Come fecero decenni fa i Paesi cosiddetti non allineati».
Visto lo scenario, è ancora possibile una rivincita della ragione sull’irrazionalità degli ultimi anni?
«In un contesto del genere prevedere cosa accadrà è impossibile. Bisogna innanzitutto capire come si concluderà la guerra in Ucraina; come evolveranno le tensioni all’interno della leadership russa; e l’esito delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti».
Partiamo dalla guerra.
«L’idea che la contesa possa risolversi sul campo, con un sistema di vittorie e sconfitte stile Seconda guerra mondiale, è suicida. Alla luce del sole la Ue non sta facendo niente. Ma in giro alcuni segnalidi consapevolezza di non poter puntare su una soluzione militare ci sono».
Cosa cambierebbe se venisse rieletto Trump?
«Dice che farebbe finire la guerra in cinque minuti, ma sono solo parole. Le politiche estere delle grandi potenze non si svolgono in base alle dichiarazioni propagandistiche ma in base a strutture e ceti dirigenti che si muovono. Bisogna capire se l’economia e gli interessi forti sono orientati a trovare una soluzione, come sembrerebbe, o meno».
E la Cina?
«Il vero conflitto che dobbiamo avere davanti agli occhi, infinitamente più netto, è quello con Pechino. È un conflitto tecnologico, culturale, ma soprattutto un conflitto geopolitico straordinario. Mi riferisco a quello che investe l’area del Pacifico, con uncasus bellipazzesco: Taiwan».
Eventuali soluzioni?
«Se fossimo saggi dovremmo risolvere al più presto il conflitto ucraino, che se si conosce un po’ di storia bisogna considerare un conflitto intra-occidentale, per affrontare poi, se possibile pacificamente, questa che è la vera questione cruciale per il nostro prossimo futuro. Dobbiamo impegnarci affinché non nasca un blocco russo-coreano-cinese: è un chiaro interesse nazionale che ciascun Paese occidentale dovrebbe perseguire».
Concludendo, al Festival della Politica affronterete tutti questi complessissimi nodi?
«Sì, lungo tre direttrici. Fare il punto su come procede la globalizzazione sul piano tecnico-economico. Analizzare i fenomeni geopolitici in atto. E capire come gli interessi economici e commerciali dei Paesi possano aiutare a trovare una soluzione alle crisi».
È tracollata l’idea che sarebbe nato un governo sempre più unitario e condiviso di questo pianetaPer il futuro dobbiamo impegnarci affinché non nasca un blocco russo-coreano-cinese