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 2023  settembre 04 Lunedì calendario

Pirandello fascista convinto?

Sarebbe lo zolfo di Girgenti, l’elemento fondante, catalizzatore, della vita, del carattere e del pensiero di Pirandello. È lo zolfo che rende strani, giarnusi, cioè pallidi, senza colore nel corpo e nell’anima. Omu senza culuri o è ‘nfami o è tradituri, dice un proverbio del luogo. E i girgentani, che i paesi viciniori ancora oggi chiamano, per via dello zolfo, “razza gialla”, hanno fama di essere appunto inaffidabili, cavillosi, doppi e sfuggenti.
Su questo antico pregiudizio intorno ai girgentani Silvana La Spina costruisce L’uomo di zolfo. Il romanzo di Pirandello (Bompiani, pagine 416, euro 20) e per accreditarne la fondatezza chiama in appoggio lo zio materno di Pirandello, uno di famiglia appunto, Rocco Ricci Gramitto, l’eroe garibaldino che in Aspromonte aveva sfilato al Generale lo stivale insanguinato. Singolare figura di avvocato-poeta, Rocco amava la polemica, le stramberie, l’avventura e si considerava – questa è notizia di prima mano – un antesignano dei “comunisti”, perché dopo la nascita dell’Internazionale, che voleva abolire la proprietà e la famiglia, aveva mandato alle stampe un opuscolo poetico, dal titolo prudhoniano La proprietà è un furto. La famiglia un nome (Girgenti, Tipografia E. Romito, 1871).
Rocco, dunque, così si rivolgerebbe al nipote, aprendogli gli occhi: «Io l’ho capito da sempre. Per questo sono scappato. Dev’essere tutto quello zolfo sottoterra che ci rende giarnusi non solo le carni ma anche i pensieri. Anche tu, guardati. Credi che se non fossi di Girgenti scriveresti certe cose? Pure tu sei un uomo di zolfo, Luigi». Il giovanotto, nella narrazione di La Spina, resta turbato dalle parole dello zio. Però lo deve ammettere, la sua «stranezza» viene dalla terra dove è nato. «Non è come gli altri, assolutamente no. Ha sempre capito che è tutto quanto finto, mascherato. Perché è quello che vuole la società».
Il romanzo di Pirandello è già qui, si può dire, bell’e tracciato, per determinismo d’ambiente, lo zolfo, la pazzia, la maschera, la finzione; ci sono tutti gli ingredienti. Quanto basta per farne, come si legge in seconda di copertina, «una biografia sorprendente» e un ritratto dell’uomo Pirandello «liberato dalle incrostazioni dell’icona». Scritto con prosa accattivante e con largo uso di apporti dialettali, il libro è una biografia romanzata, un genere ibrido che mette insieme il vero e il verosimile, storia e invenzione, sarà poi compito del lettore scervellarsi dove sta il vero e dove sta l’inventato. Una biografia insomma manipolata e piegata alle esigenze e alle scelte del disegno narrativo con tutti i rischi che questa operazione comporta. Non rientra per esempio nelle giuste attenzioni dell’autrice il periodo della Grande Guerra. Eppure provocherà un enorme sconquasso nell’animo di Pirandello. Il suo «edifizio culturale» costruito in Germania, sua patria ideale e spirituale, soprattutto nelle discipline storiche e filologiche, crolla d’un tratto. Pirandello scivola così in una profonda crisi interiore, si sente «smarrito» come il protagonista della novella autobiografica Berecche e la guerra. Sarà l’affetto di padre per il figlio Stefano volontario al fronte, ma anche l’affetto di figlio per la madre morta se Pirandello finisce a poco a poco per ravvedersi e ritrovare in sé la vera patria. Sicché, dopo i «fervidi giorni di maggio», il suo atteggiamento verso la nazione tedesca muterà radicalmente. Lo dimostra uno scritto patriottico finora sconosciuto, apparso nel numero unico di “L’Idea Nazionale” del 2 ottobre 1915, in cui Pirandello chiama gli italiani, in particolare gli scrittori, a uno scatto d’orgoglio, alla dignità di fronte agli stranieri, a non essere più scimmie. Con questa guerra, afferma lo scrittore, «le parti sono invertite».
Di tutto questo non c’è traccia nel libro di Silvana La Spina. Non c’è nemmeno traccia della gestazione durante il turbinio della guerra di un romanzo che diventerà poi il capolavoro più alto della drammaturgia del Novecento. Ed è proprio mentre Stefano è prigioniero che Pirandello, anch’esso prigioniero della pazzia della moglie, lavora alacremente. «Il teatro – scrive il biografo Nardelli – fu la sua seconda liberazione, fu la sua guerra»: ecco i Sei personaggi appena in boccio e lo scrive a Stefano nel ‘15: «Mi stanno in mente sei personaggi…». Già, la seconda liberazione, perché la prima fu il Mattia Pascal, dopo il disastro della miniera che inghiottirà la dote di Antonietta.
A fronte di queste omissioni è legittimo chiedersi fin dove può spingersi la libertà d’invenzione e soprattutto qual è il confine tra invenzione e falsificazione in questo genere di biografie romanzate. Valga per tutti un esempio. Che Grazia Deledda abbia firmato «il manifesto degli intellettuali antifascisti» pubblicato su Il Mondo del primo maggio 1925 non esiste in nessun libro di storia ma soltanto in questo libro di La Spina. Non crediamo esistano ragioni narrative che possano giustificare questo falso storico biografico. Così come non si può ancora accettare di narrare il Pirandello politico coi soliti stereotipi che hanno ingrossato lo sciocchezzario della critica pirandelliana di questi ultimi settant’anni.
La sua adesione al fascismo non fu «un’autentica operazione umoristica» né «ppi currìo» (per dispetto) verso D’Annunzio né per altre motivazioni romanzesche messe in campo da La Spina. Ma fu una precisa scelta di campo con tutto il peso della sua notorietà mondiale. Il suo fu un consenso «storico» al fascismo, com’ebbe a scrivere allora “Il Popolo d’Italia”; una vera e propria «sentenza» in favore di Mussolini per il delitto Matteotti. C’è poco da girarci intorno. E Pirandello, sia ben chiaro, non fu un semplice iscritto al partito fascista ma addirittura un fanatico militante pronto a tirar fuori una insospettata grinta squadrista contro le morte ideologie democratiche fino ad offrirsi come becchino per seppellire i nemici del regime. Sconcertante è un suo pensiero autografo riprodotto in prima pagina del quotidiano “L’Impero” del 12  marzo 1927 dove, tra l’altro, scrive: «Come volentieri, amici miei, mi metterei a fare il becchino per sbarazzare l’Italia da tutti i cadaveri che l’appestano!». Firmò nel 1932 in occasione del decennale della marcia su Roma l’indirizzo di «fede» degli accademici d’Italia al Duce sulla virtù creatrice del fascismo. E l’anno successivo, il 1° febbraio del 1933, pubblicherà sulla rivista “Milizia Fascista” uno scritto scandaloso dal titolo Vivono in luce, dove si produce in uno sperticato elogio delle camicie nere e dello «spirito armonioso» di Mussolini. Che altro avrebbe dovuto fare questo Pirandello per guadagnarsi la patente di fascista presso i posteri? Purtroppo, sono questi gli effetti del pirandellismo, di cui lo stesso Pirandello ne aveva avvertito i pericoli, tanto da scrivere nel 1931 un indignato articolo contro la critica, apparso su “Il Dramma”, intitolato Abbasso il pirandellismo !
A questo stereotipo non sfugge neanche il romanzo di La Spina nella misura in cui scrive: «L’adesione al regime è il suo capolavoro reale, diciamo capolavoro di vita. Perché niente è più pirandelliano della sua conversione al fascismo». Questo «capolavoro» sarebbe un testamento scritto per vendetta, una vera e propria beffa contro quel buffone di Mussolini e l’intero fascismo, disponendo di essere seppellito nudo per non indossare da morto la camicia nera. Quale finale più pirandelliano di questo? Peccato. Peccato perché Pirandello s’era scordato di avere indossato più volte la camicia nera, l’ultima volta il 29 ottobre 1935, quando all’inaugurazione del nuovo anno di prosa al teatro Argentina proprio lui, in camicia nera, pronuncia il suo discorso salutando romanamente il Duce tra uno scroscio di applausi. E s’era scordato pure, questo è ancora più grave, anzi ancora più pirandelliano, che quel testamento l’aveva scritto addirittura nel 1911, quando Mussolini era ancora socialista.