4 settembre 2023
Ultime sulla morte
Brian Freema Polvere alla polvere. Un’indagine tra i mestieri della morte
Il Margine Erickson
Marzo 2023
Pagine 336
Euro 17,50
In media nel mondo muoiono 6 mila 324 persone ogni ora – 151 mila 776 al giorno, circa 55,4 milioni all’anno.
«La morte è insieme la fine e il motore del mondo» (Ernest Becker, Il rifiuto della morte San Paolo edizioni 1982)
«Come si fa a sapere che è proprio della morte che si ha paura? La morte è una cosa così vaga. Nessuno sa in cosa consiste, cosa si prova o come è. Magari il tuo è un problema personale che però si traveste da importante questione universale» (Don DeLillo, Rumore Bianco).
Il dottor Southowood Smith, esecutore testamentario di Jeremy Bentham, provò a conservare la testa del filosofo. Per mantenerla intatta, la trattò con dell’acido solforico e si servì di una pompa pneumatica per estrarne i fluidi. Risultato: la testa divenne viola.
Descrizione della testa del filosofo Jeremy Bentham, conservata per i posteri su sua richiesta. Sopracciglia bionde e morbide, pelle rinsecchita che odora di manzo essiccato, occhi azzurri di vetro. Quando era vivo, Bentham teneva in tasca i suoi futuri bulbi oculari di vetro e li tirava fuori alle feste per farsi due risate.
Jeremy Bentham credeva nei diritti degli animali, delle donne e degli omosessuali. Fu uno dei primi a donare il proprio corpo alla scienza. Volle che fosse dissezionato in pubblico dai suoi amici.
L’etilmercaptano, primo di una serie di composti generati dal processo di putrefazione. Viene normalmente aggiunto al gas naturale per rendere le fughe identificabili dall’odore. La pratica fu adottata negli anni 30 del Novecento, dopo che alcuni operai in California avevano notato che gli avvoltoi fluttuavano sulle correnti ascensionali in prossimità delle perdite delle condutture. Fecero dei test sul loro prodotto per capire cosa avesse attirato gli uccelli, e trovarono tracce di quel composto. Decisero di amplificare artificialmente quell’effetto, di modo che anche gli uomini potessero percepirlo.
Le donne che, per reggere il dolore di restare sui tacchi a spillo per tutto il giorno, si fanno iniettare botulino nei piedi.
Tecnica per imbalsamare un cadavere. Si dirige un tubo nero di gomma verso la parte superiore della coscia: serve a pompare una miscela di alcol, glicerina, fenolo e formalina nel sistema vascolare. Ricordarsi di mettere una scodella di ceramica sotto la testa, di modo che il sangue spinto fuori dalle vene dal sopraggiungere del liquido non vada in giro, sporcando dappertutto. Quindi: lasciare riposare il tutto, in modo da consentire alle sostanze chimiche di rassodare i tessuti. Risultato: il corpo apparirà gonfio, poi si sgonfierà nel corso dei mesi, a mano a mano che si disidraterà.
Tempo necessario per scongelare un cadavere congelato. Per le estremità e le teste, basta un giorno. Per i tronchi, in base alle dimensioni, fino a tre giorni.
Il Dalai Lama ha avuto il cancro alla prostata.
Il problema di rendere la cremazione eco-sostenibile.
Per donare il proprio cadavere alla Mayo Medical School di Rochester, Minnesota, che lo utilizzerà «per il progresso della formazione e della ricerca medica», bisogna rispondere a dei requisiti. Il cadavere può essere rifiutato in caso di: malattie trasmissibili che possano rappresentare un rischio per gli studenti e lo staff, obesità, deperimento estremo, corpi mutilati, corpi che abbiano subito un esame autoptico, corpi decomposti o giudicati per qualsiasi ragione «inaccettabili per la donazione anatomica». Capita che i donatori i cui corpi vengono rifiutati si offendano, telefonino alla clinica e gliene dicano di tutti i colori.
I cadaveri degli obesi sono incompatibili con la donazione anatomica: se sei troppo grasso, non riescono a trovare i tuoi organi in mezzo all’adipe.
Nel 1506 Giacomo IV di Scozia aveva deliberato che la Corporazione dei chirurghi e dei barbieri di Edimburgo potesse usufruire dei corpi di alcuni criminali giustiziati e dissezionarli. Seguì l’Inghilterra, nel 1540, quando Enrico VIII concesse agli anatomisti il diritto di disporre dei corpi di quattro impiccati all’anno – che poi divennero sei quando Carlo II, sostenitore delle scienze, ne aggiunse altri due. Il sezionamento fu riconosciuto per legge come pena, da aggiungersi a quelle già esistenti: un destino speciale e peggiore della morte, da compiersi in pubblico, descritto come «terrore ulteriore e marchio particolare di infamia».
Alcuni condannati a morte, ma non alla dissezione, prima di essere giustiziati mercanteggiavano il proprio cadavere con i rappresentanti dei chirurghi, in cambio di abiti costosi con cui fare una bella figura al momento dell’esecuzione.
William Harvey, medico inglese, il cui studio pubblicato nel 1628 dimostrò la circolazione del sangue, dissezionò il proprio padre e la propria sorella.
Nell’Inghilterra dell’età moderna i cadaveri necessari alla scienza medica erano così pochi, rispetto a quelli legalmente disponibili per la dissezione, che nacque l’industria del trafugamento delle salme.
Negli anni Cinquanta del Settecento John Hunter si occupava di procurare corpi per la scuola di anatomia del fratello maggiore. Li comprava dai ladri di cadaveri o li disseppelliva da solo. Fu durante questo periodo che riempì il suo famoso museo, l’Hunterian, di meraviglie e mutazioni mediche. Corpi privi di cuore, bambini minuscoli, lucertole a due teste, etc. L’Hunterian esiste ancora, a Londra, accanto al Lincoln’s Inn Field.
All’epoca di Mary Shelly il trafugamento di cadaveri dilagava. Erano in vendita vari congegni, ad esempio gabbie di ferro per contenere le bare, che servivano per contrastare i ladri di morti. Anche dal camposanto dove era sepolta sua madre, Mary Wollstonecraft, furono rubate alcune salme. Tutto questo confluì nella sua opera: nessuno dei corpi che in Frankenstein danno forma al mostro ha firmato un contratto per essere dov’era – lui non ha nome, è un prodotto, una cosa – mentre il vero mostro era lo scienziato, talmente preso dalla sua ansia di creazione da perdere di vista cosa fosse giusto o sbagliato.
Nel 1828, due ladri di cadaveri di nome Burke e Hare divennero famigerati a Edimburgo per aver deciso di saltare il passaggio della riesumazione ricorrendo direttamente all’omicidio, con pagamento alla consegna. Burke commise sedici omicidi, e alla fine fu giustiziato per soffocamento, e condannato al sezionamento, ironica pena post mortem. Il suo scheletro si trova tuttora nel museo dell’Università di Edimburgo, con un cartellino appuntato a una costola: «Maschio irlandese. Scheletro di William Burke, famoso assassino». Un pezzo del suo cervello se ne sta pallido e rattrappito sul fondo di un vaso della Wellcome Collection, a Londra, sistemato sullo stesso scaffale di una porzione del cervello di Einstein. Che sia di genio o criminale, la mente, come materia, ha più o meno lo stesso aspetto.
L’Anatomy Act del 1832 stabilì che i chirurghi potessero disporre dei corpi non reclamati dalle prigioni, dai ricoveri di mendicità, dai manicomi e dagli ospedali. Grandi polemiche, perché la legge, di fatto, equiparava poveri e criminali.
Oggi gli studenti di medicina studiano anatomia su un tavolo virtuale che si chiama Anatomage. Un tablet con schermo tattile delle dimensioni di un vero tavolo autoptico, programmato con strati sovrapposti di immagini, ognuno dei quali ritrae una lamina di corpo spessa un millimetro. In questo modo è stato creato un insieme tri- dimensionale osservabile internamente dagli studenti senza che si debba toccare davvero una salma. Due dei quattro corpi utilizzati per la creazione delle immagini, un uomo e una donna, erano parte del Visible Human Project – un progetto condotto dalla US National Library of Medicine a metà degli anni Novanta – che ha realizzato le immagini congelando i cadaveri, poi rimuovendone uno strato alto 1 millimetro dopo ogni foto scattata.
William Hunter, il maggiore dei due fratelli anatomisti, in una lezione introduttiva disse agli studenti che «l’anatomia è la base della chirurgia. Informa la testa, conferisce destrezza alla mano e avvicina il cuore a una sorta di disumanità necessaria» (Hunter, 1784).
Grande differenza tra le lezioni di anatomia fatte con cadaveri veri e fatte con simulatori virtuali. Con i cadaveri veri, gli studenti chiedono di vedere i polmoni, lo stomaco, l’intestino. Con il tavolo per autopsie virtuali, gli studenti vanno subito a guardare i genitali.
Le protesi testicolari rimbalzano.
Non solo l’imbalsamazione limita la flessibilità del tessuto, ma le sostanze chimiche tendono a scolorirlo; gli studenti che vengono a contatto con un corpo vivo per la prima volta, avendo operato solo su un corpo imbalsamato, si accorgono di aver imparato su una mappa stinta.
Charles Byrne, il gigante irlandese alto due metri e trenta, sapeva, quando cominciò a stare poco bene, negli anni Ottanta del Settecento, che gli anatomisti volevano il suo corpo. Non voleva finire tra gli esemplari del museo di patologia di John Hunter, diventare un fenomeno da baraccone conservato per secoli in una teca di vetro a guardare i turisti con indosso i loro giubbotti imbottiti. Chiese di essere seppellito in mare. Ma quando morì, all’età di ventidue anni, lo scheletro non arrivò mai all’oceano. La bara vuota fu riempita di sassi da un becchino corrotto, in modo che i portantini non si accorgessero di nulla. Le sue ossa massicce sono finite proprio lì dove lui non voleva finissero.
Se si decapita una tartaruga azzannatrice, le sue mascelle continuano a serrarsi, nello stesso modo in cui la coda amputata di una lucertola continua a dimenarsi nell’erba. Il suo cuore è in grado di battere per ore a sangue freddo.
Il problema di un tumore così complesso e potenzialmente letale che vari chirurghi di diverse parti del mondo si erano rifiutati di toccarlo; si originava nel collo e procedeva verso il basso avvolgendo la colonna vertebrale, come la banda rossa attorno a un palo del barbiere, fermandosi sotto il petto. Si sarebbe dovuto coinvolgere un team multidisciplinare nelle diverse fasi della rimozione della massa ritorta – in modo da muoversi tra le diverse specialità a mano a mano che ci si spostava giù per la colonna vertebrale, dal davanti al di dietro, ruotando l’uomo come un pollo allo spiedo – perciò si sono esercitati nel laboratorio di anatomia della Mayo Clinic Scholl. Arrivavano alle 22, dopo il lavoro, e andavano via all’alba, passando la notte a rigirare cadaveri per elaborare il loro piano. Il paziente è sopravvissuto.
Il caso del trapianto di faccia. Il paziente trentaduenne, Andy Sandness, originario del Wyoming – lo Stato al centro dell’epidemia di suicidi maschili negli Stati Uniti – si era distrutto quasi completamente il viso con un colpo di pistola che si era esploso nel mento quando di anni ne aveva ventuno. Dieci anni dopo, Calen Ross si era sparato ed era morto nel sud del Minnesota (AP, 2017). La loro età, il gruppo sanguigno, il colore della pelle, e la struttura facciale coincidevano quasi alla perfezione. Erano tre anni che i medici aspettavano il donatore giusto, esercitandosi nel mentre. Per prepararsi all’operazione, i chirurghi, gli infermieri, gli strumentisti e gli anestesisti hanno trascorso cinquanta fine settimana nel laboratorio di Terry, diviso in due salette per replicare le dimensioni ristrette della sala operatoria (Roth, 2019). Hanno studiato ogni singola ramificazione nervosa e la sua funzione per la faccia, hanno scattato fotografie e fatto riprese, e si sono esercitati a con- giungerle. A ogni seduta lavoravano su una diversa coppia di teste. Hanno scambiato cento facce. I donatori non lasciano questo luogo integri, ma Terry si assicura che lo facciano con la faccia giusta. Perciò, una volta che i medici avevano ultimato le operazioni, Terry si tratteneva per scambiare di nuovo le facce. Se non lo avesse fatto, nessuno lo avrebbe mai saputo: nelle carni del viso non c’è nessun osso che andrebbe a finire nell’urna sbagliata dopo la cremazione. Lo faceva perché era la cosa da fare.
Il viso di una giovane estratta dalla Senna all’inizio dell’Ottocento, è il più baciato del mondo, essendo quello riprodotto nel 1960 sul primo manichino per l’addestramento alla rianimazione cardiopolmonare, Resusci Anne. Albert Camus, che aveva una copia della maschera, la chiamò la «Gioconda annegata». I surrealisti ne fecero la loro musa immobile e silenziosa.
In tutto il Regno Unito c’è solo un realizzatore di maschere mortuarie professionista. Non riesce a mantenersi solo con quell’attività, ha soltanto quattro, cinque clienti all’anno.
Farsi realizzare una maschera mortuaria costa 2.500 sterline.
Quando moriamo abbiamo un aspetto splendido. Tutta la tensione del viso si allenta, le rughe scompaiono, gli anni di preoccupazione e dolore svaniscono in pochi istanti. Appariamo sereni. Il nostro viso prende un colore uniforme.
Nel xix secolo, i calchi dell’intera testa dei criminali erano parte dello studio della frenologia, la scienza, ormai da tempo demistificata, che pretendeva di capire la psicologia di una persona – e, per estensione, la sua propensione biologica al crimine e alla violenza – attraverso la conformazione del cranio.
Frankie «Mad» Fraser, un criminale violento del mondo delle gang il cui metodo di tortura caratteristico era inchiodare le sue vittime al pavimento e cavare loro i denti con delle tenaglie placcate d’oro, un’abitudine che gli guadagnò il soprannome di «Il dentista».
«Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà» (Shirley Jackson, L’incubo di Hill House).
Tre mesi dopo l’incendio della Grenfell Tower, a Londra, il 14 giugno 2017 – 72 persone morte, 70 ferite – nella torre annerita fu trovato un acquario. In qualche modo, nonostante la mancanza di cibo e di corrente elettrica per ossigenare l’acqua, e i ventitré pesci morti che galleggiavano pancia all’aria sopra di loro, sette erano ancora vivi. Quando due di loro riuscirono a riprodursi, l’ottavo pesciolino neonato fu chiamato Phoenix.
Willy il Coyote è la mascotte di uno squadrone dei marines. Moltissimi se lo fanno tatuare.
Quando, per effetto di un’esplosione o di uno scontro, gli effetti personali si mescolano e potrebbe succedere il portafogli con carta d’identità trovato su un cadavere non sia il portafogli di quel cadavere.
Spesso accade che i parenti stretti abbiano dubbi sull’identità di una persona deceduta, la neghino, o la confermino erroneamente, persino in caso di morte molto recente. Gli effetti della gravità sui lineamenti, l’appiattimento delle parti del corpo che hanno avuto contatto con superfici dure, il gonfiore e il pallore contribuiscono a rendere la persona diversa da come potremmo averla riconosciuta.
Quando un cadavere rimane a lungo in acqua la pelle diventa bianca qualunque sia la nostra etnia.
Quando un cadavere rimane a lungo in acqua le impronte digitali diventano invisibili. Conseguenza: per identificare il morto, le mani vanno mozzate, portate in un laboratorio, collocate in un armadio essiccatore. Una volta asciutte, si può procedere all’analisi delle impronte digitali.
Dopo l’incidente del volo 804 della Egypt Air (19 maggio 2016) dei passeggeri furono ritrovati solo pezzi. Il più grande era grande come un’arancia. Il numero più alto di resti umani attribuibile a una singola persona era cinque.
Dopo la morte del generale Franco, nel 1975, dopo quasi quarant’anni di dittatura, il governo spagnolo decise che, invece di andare a scavare tra i crimini del passato – «l’olocausto spagnolo», centinaia di migliaia di vittime – si sarebbe concentrato unicamente sul futuro della Spagna. Fu istituito un Patto dell’oblio, una amnistia generale, una specie di amnesia prevista per legge: prevedeva che nessuno sarebbe stato processato per le sofferenze di massa inflitte durante il regime. Il Paese sarebbe semplicemente andato oltre.
«Mostratemi come una nazione si prende cura dei suoi morti e determinerò con precisione matematica l’amorevole compassione del suo popolo, il suo rispetto per la legge della terra e la sua fedeltà a ideali elevati» (William Gladstone).
Negli Stati Uniti non esiste un ente governativo che, dopo una morte violenta, arrivi a ripulire lo spargimento di sangue, risparmiandone la vista ai proprietari dell’immobile o ai familiari. Una volta che il corpo è nel furgone, le dichiarazioni sono state raccolte, le impronte digitali rilevate e il nastro segnaletico rimosso, si viene lasciati allo scempio e al silenzio.
Crime Scene Cleaners Inc., ditta specializzata nel pulire case e automobili dove è avvenuto un omicidio. Ha il suo merchandise – felpe con il cappuccio, magliette, berretti – e mezzo milione di followers su Instagram.
Il sito rotten.com, oggi defunto. Un compendio di malattie, violenza, torture, morte, depravazione e crudeltà umane in un jpeg sgranato dopo l’altro. Tra le varie foto: il comico del Saturday Night Live Chris Farley in overdose con la faccia viola, morto sul pavimento del suo appartamento; una giovane bionda morta, ai primi stadi di decomposizione; un ultranovantenne morto e, senza volerlo, rimasto a cuocersi a bassa temperatura per due settimane in una vasca da bagno riscaldata dal filamento di un bollitore elettrico. Il fondatore era Thomas Dell, programmatore trentenne, che lavorava per Apple e Netscape, gestiva anonimamente il sito con lo pseudonimo di Soylent. Nel 1997, a un anno dall’apertura, postò una foto del cadavere della principessa Diana. Anche se era una fake, la notizia che avesse osato pubblicarla finì sui giornali e sulle tivù di tutto il mondo. Il sito divenne famigerato, cliccatissimo da voyeuristi di tutto il mondo.
«Una scena orripilante ci invita a essere meri spettatori o vigliacchi, incapaci di guardare» (Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri).
Andy Warhol aveva ricevuto un’educazione cattolica ed era ossessionato dalle immagini della morte. La sua fissazione divenne particolarmente grave all’inizio degli anni sessanta, quando aveva circa trentacinque anni. Nel giugno 1962, un giorno, a pranzo, il suo amico e curatore Henry Geldzahler gli passa una copia del New York Mirror. Il titolo declama: «MUOIONO IN 129 A BORDO DI UN JET»; l’articolo dice che i morti provengono dal mondo dell’arte. Wharol dipinge a mano su tela l’immagine del relitto dell’aereo. Due mesi dopo, muore Marilyn Monroe. Solo pochi giorni dopo, Warhol realizza le prime serigrafie del famoso volto sorridente di Marilyn. I mesi successivi vedono arricchirsi la serie, che Warhol chiama Death and disaster: vittime di suicidi, incidenti stradali, esplosioni di bombe atomiche, manifestanti per i diritti civili attaccati dai cani, due casalinghe avvelenate da tonno in scatola contaminato e un’immagine dopo l’altra della sedia elettrica del carcere di Sing Sing, cinquanta chilometri a nord di New York. Con ogni stampa e ogni ripetizione dell’immagine, alcune replicate più volte in una griglia sulla stessa tela, Warhol si allontanava sempre più dalla sensazione che la scena gli suscitava, creando maggiore distanza tra lui e la realtà, come se avesse imparato che una continua ripetizione mette la sordina alle storie. Lo disse lui stesso: «Più guardi la stessa identica cosa, più quella cosa perde di significato, più ti svuoti, più ti senti bene».
Andy Warhol, secondo i fratelli John e Paul, cominciò a essere ossessionato dalla morte all’età di tredici anni, quando morì il padre. Il corpo era stato portato in casa ed era rimasto esposto in soggiorno per tre giorni. Andy si era nascosto sotto un letto, aveva pianto e pregato la madre di lasciarlo andare a casa di sua zia, e lei – temendo che il suo disturbo neurologico, la corea di Sydenham, nota anche come ballo di San Vito, potesse ripresentarsi – glielo aveva lasciato fare. Così, non avendo mai visto la morte vera con i suoi occhi, non gli restò che vedere la morte che si pubblicava sui giornali, filtrata dall’obiettivo di un fotografo. Solo negli anni Settanta, quando si trovò dall’altro capo del proiettile sparato da Valerie Solanas, che si rivelò quasi fatale, che iniziò a esplorare la propria mortalità attraverso autoritratti e teschi. Ma la paura gli rimase per tutta la vita: non partecipò mai a funerali e veglie, si rifiutò persino di andare alla tumulazione della madre.
I vittoriani montavano le macchine fotografiche sui treppiedi per fotografare moribondi e i morti – a volte l’unica immagine che avrebbero mai avuto dei loro figli.
Nel 1945, Margaret Bourke-White – prima fotocronista di guerra donna americana – attraversò la Germania sconfitta insieme alla terza armata del generale Patton. Le sue foto delle atrocità naziste sono documenti lucidi e importanti, che riuscì a elaborare psicologicamente solo più tardi, nella camera oscura. «Continuavo a ripetermi che avrei creduto a ciò che vedevo davanti a me nel campo, così orribile da essere indescrivibile, solo quando avrei avuto la possibilità di guardare le mie fotografie» scriveva l’anno successivo nel suo memoir riguardo alle scene di Buchenwald. «Era quasi un sollievo usare la macchina fotografica: interponeva una sottile barriera tra me e l’orrore bianco che avevo davanti».
Kevin Carter ha vinto il premio Pulitzer per la fotografia scattata nel 1993 in Sudan a una bambina malnutrita accasciatasi al suolo, sorvegliata da un avvoltoio. Quando è apparsa sul giornale, i lettori hanno scritto al New York Times per sapere che cosa le fosse successo, se il fotografo l’aveva aiutata. Giorni dopo, il giornale ha pubblicato un avviso in cui si diceva che l’avvoltoio era stato scacciato e la bambina aveva continuato il suo viaggio, anche se non si sapeva se fosse arrivata alla tenda dove distribuivano il cibo. Tre mesi dopo aver vinto il Pulitzer, all’età di trentatré anni, Carter si è ucciso con i gas di scarico nel suo pick-up, lasciando un biglietto in cui diceva, tra le altre cose: «Sono ossessionato dai vividi ricordi di uccisioni, cadaveri, rabbia e dolore... di bambini affamati o feriti, di pazzi dal grilletto facile, spesso poliziotti, di carnefici assassini».
Il 27 febbraio 2017 è stato annunciato che lo Stato dell’Arkansas avrebbe accelerato l’iter per l’esecuzione di otto detenuti nell’arco di undici giorni. Era un ritmo senza precedenti nella storia recente degli Stati Uniti, e nell’Arkansas stesso non si registravano esecuzioni da dodici anni. La motivazione era che le loro limitate scorte di midazolam, uno dei tre farmaci previsti dal protocollo dello Stato per l’iniezione letale, si avvicinavano alla data di scadenza e quindi, per estensione, scadeva anche la data per quegli otto uomini.
Nel 1992, l’Arkansas ha visto il governatore Bill Clinton tornare a casa in fretta e furia dal suo tour elettorale per presenziare all’esecuzione di Ricky Ray Rector, un uomo la cui salute mentale era stata pregiudicata da una ferita da arma da fuoco autoinflitta al punto che aveva messo da parte il dessert del suo ultimo pasto, una fetta di torta di noci pecan, per mangiarlo dopo l’esecuzione. Il rifiuto di concedergli la grazia era stata una mossa di pubbliche relazioni da parte di Clinton. Voleva apparire meno blando.
Negli Stati Uniti, oggi, l’identità del boia è anonima.
Ogni Stato degli Stati Uniti in cui vige la pena di morte ha il proprio modo per nominare un boia: prima della moratoria, alcuni non facevano nemmeno parte del personale della prigione, ma lavoravano come «elettricisti» autonomi che venivano chiamati al solo scopo di azionare l’interruttore. Nello Stato di New York, alcuni erano noti al pubblico per nome: uno ha ricevuto minacce di morte, a un altro hanno messo una bomba in casa. Alcuni hanno fatto un sacco di soldi, spostandosi da uno Stato all’altro, prendendo un assegno per ciascuna vita cui mettevano fine. Altri lavoravano anonimamente: uno di loro cambiava la targa della propria auto prima di uscire dal garage nel cuore della notte per la lunga traversata fino a Sing Sing, in modo da non poter essere identificato o localizzato.
La prima sedia elettrica della Virginia, costruita dai detenuti nel 1908 utilizzando una vecchia quercia.
Nel 1890, a New York: un alcolizzato che aveva assassinato la sua convivente durante una lite da ubriaco, colpendola venticinque volte in testa con un’ascia. Fu il primo a essere giustiziato con l’uso della corrente elettrica, se non si conta il cavallo su cui avevano testato il voltaggio (Essig, 2003, p. 225). Fu anche il primo a dimostrare che il cranio umano è un cattivo conduttore di elettricità, come la pelle: nel referto autoptico pubblicato sul «New York Times» il giorno dopo la sua esecuzione, il medico forense descrive l’aspetto dei muscoli spinali una volta rimossa la pelle bruciata della schiena come simile al «manzo troppo cotto» (s.a., 1890). Il sudore, invece, è un ottimo conduttore – essendo essenzialmente acqua salata e quindi contenendo più ioni conduttori rispetto all’acqua pura – e la maggior parte delle persone che vengono condotte in una camera delle esecuzioni e lega- te a una sedia elettrica gronda di sudore (Notley, 1993, p. p. 66). Gli addetti alle esecuzioni hanno imparato a impregnare una spugna in una soluzione salina e a sistemarla sulla testa rasata della persona condannata, tra la pelle e il casco.
Scrive Paul Friedland, nel suo libro Seeing justice done: The age of spectacular capital punishment in France, che questa immagine che abbiamo del boia come agente della legge, una persona il cui lavoro è eseguire una sentenza emessa dall’alto, è un’idea relativamente moderna introdotta volutamente dai riformatori illuministi che cercavano di costruire un diverso sistema penale, un sistema che fosse razionale e burocratico, che diffondesse la responsabilità, e quindi la colpa, tra molti ingranaggi di un vasto sistema. Prima di questo, almeno in Francia, il boia era considerato un essere fuori dell’ordinario, un reietto, una persona universalmente vituperata «il cui tocco era così sacrilego che non poteva entrare in contatto con altre persone o oggetti senza alterarli profondamente» (Friedland, 2012, pp. 71- 72). I boia vivevano ai margini delle città e si sposavano nella cerchia dei loro pari. Quello del boia, in genere, era un ruolo ereditario: si era dannati per il fatto di avere sangue di boia nelle proprie vene, come se si fosse calata la lama della ghigliottina con le proprie mani. Quando morivano, i boia venivano seppelliti in un’area a parte del cimitero, per paura che la loro presenza – che fossero vivi o morti non faceva differenza – avrebbe contaminato la popolazione comune. Erano intoccabili, letteralmente, venivano loro dati cucchiai dalla lunga impugnatura per prendere i prodotti dai banchi del mercato e indossavano una particolare insegna cosicché nessuno potesse scambiarli per «persone onorevoli». «Per tutta l’età moderna, e anzi fin oltre la Rivoluzione» scrive Friedland, «uno dei modi più efficaci di mettere in dubbio la moralità di una persona era insinuare che era stata vista a tavola con il boia» (Friedland, 2012, pp. 80-81).
In ogni Stato è diverso, ma di norma l’identità del boia viene mantenuta vaga non solo per il detenuto e i testimoni, ma anche per gli stessi addetti alle esecuzioni, in modo che tutti abbiano la sensazione di non aver fatto nulla da soli. A volte ci sono due interruttori che vengono schiacciati contemporaneamente ed è la macchina a decidere quale dei due pulsanti sia quello attivo, poi cancella subito la cronologia, così nessuno può avere la certezza di aver sferrato il colpo, che sia elettrico o chimico (Lifton e Mitchell, 2000, p. 87).
Albert Camus scrisse della ghigliottina, dell’effetto che ebbe su suo padre, favorevole alla pena capitale, che tornò a casa dopo averla vista in azione sull’assassino di un bambino, vomitò accanto al proprio letto e non fu mai più la stessa persona. Camus scrisse che se la Francia avesse sostenuto con convinzione l’uccisione dei prigionieri condannati, avrebbe trascinato la ghigliottina davanti a una folla, dov’era prima, non l’avrebbe nascosta dietro le mura di un carcere e le formule stereotipate dei notiziari del mattino. Se la Francia fosse stata coerente con le sue pratiche, disse, avrebbe mostrato al suo popolo le mani del boia (Camus, 1993, pp. 2-3)
Non esistono due corpi che si decompongono allo stesso preciso ritmo; fattori sia ambientali (la temperatura esterna, etc.) sia personali (gli abiti, il grasso corporeo, etc.) provocano variazioni a tutti i livelli. Le fasi fondamentali però sono le stesse: qualche minuto dopo la morte le cellule, a corto di ossigeno, cominciano ad autodistruggersi; gli enzimi al loro interno attaccano le pareti che le tengono insieme. Tre o quattro ore dopo la morte, il crollo della temperatura corporea innesca il rigor mortis, che inizia il suo percorso verso il basso e le proteine, prive di una fonte di energia, si bloccano nello stato in cui sono. Cominciano a irrigidirsi le palpebre, poi il viso e il collo. Dodici ore dopo, il corpo intero è rigido e per ventiquattro ore, a volte quarantotto ed oltre, rimane fisso nella posizione in cui si trovava. Poi la rigidità scompare, nell’ordine in cui è arrivata: palpebre, viso, collo. Il corpo si rilassa. Ha inizio la fase successiva: la decomposizione.
Il caso dell’eccentrico dentista britannico e ciarlatano Martin van Butchell che nel Settecento ricorse all’imbalsamazione per aggirare la clausola di un contratto matrimoniale che prevedeva che potesse rimanere nella proprietà della moglie solo fino a quando lei fosse rimasta sulla faccia della terra. Nel 1775 le fece iniettare conservanti e tintura, la vestì con l’abito del matrimonio e la depose in soggiorno in una bara con il coperchio di cristallo, con i suoi nuovi occhi di vetro che guardavano fissi da lì sotto, finché la sua seconda moglie, giustamente, non ebbe qualcosa da ridire (Martin, 2019).
Abraham Lincoln, quando fu assassinato nel 1865, fu trasportato da un capo all’altro del Paese: da Washington DC alla sua città natale in Illinois, dove fu deposto nella sua tomba. Fu un viaggio di tre settimane, che attraversò sette Stati e tredici città. Lincoln fu esposto nella camera ardente con il coperchio della bara aperto, e migliaia di persone passarono a rendergli omaggio. Poterono vedere con i loro occhi il lavoro dell’imbalsamatore: quello era un corpo morto, ma non era come i corpi morti che conoscevano. Nonostante il fatto che l’atteggiamento generale nei confronti degli imbalsamatori durante la guerra fosse di sospetto e ostilità – l’esercito degli Stati Uniti ricevette lamentele da parte delle famiglie che dicevano di essere state imbrogliate dagli imbalsamatori e almeno due furono ufficialmente incriminati per aver tenuto in ostaggio i corpi imbalsamati fino a quando le famiglie non li avessero pagati – l’imbalsamazione divenne molto ambita, oltre che profondamente commerciale (Faust, 2008, pp. 96-97).
Un imbalsamatore di Porto Rico che ha spinto all’eccesso la tecnica, mettendo i corpi in posa come statue per le loro veglie funebri: il pugile morto in piedi nell’angolo di un ring per dire che è ancora in pista, il gangster che stringeva ancora in mano mazzette di centoni nonostante il proiettile che lo aveva ucciso (Kirkpatrick, 2014)
Nel Regno Unito, oggi, in un anno normale, vengono imbalsamati tra il 50% e il 55% dei cadaveri.
In Inghilterra e Australia durante i funerali le bare in genere sono chiuse, diversamente dagli Stati Uniti, dove i dolenti possono passare accanto al coperchio aperto e guardare il morto da vicino, come fu fatto per Abraham Lincoln.
Il corpo imbalsamato di Aretha Franklin, sembra addormentata, i tacchi scintillati sollevati su un cuscino bianco, in fondo a una bara d’oro brillante.
L’arsenico non viene più utilizzato nelle imbalsamazioni: sopravviveva al corpo e, nelle zone attorno ai cimiteri, contaminava le falde acquifere.
A Tana Toraja, in Indonesia, le famiglie tirano fuori periodicamente i loro defunti dalle tombe per lavarli e vestirli, offrirgli doni, accendergli sigarette. Nel lasso di tempo tra la morte e il funerale, un corpo può essere tenuto a casa anche per anni.
La rete arteriosa è disposta in maniera diversa per ciascun individuo.
Nel processo di mummificazione praticato dagli Egizi, tutti gli organi venivano rimossi e riposti in barattoli, eccetto il cuore. Il cuore – considerato il centro del sé, l’intero essere della persona, la sua intelligenza, la sua anima – veniva lasciato al suo posto per essere giudicato dagli dei. Nell’oltretomba, il suo peso sarebbe stato confrontato con quello di una piuma, per verificare se la persona avesse vissuto una vita virtuosa. Se l’ago non si muoveva, la persona otteneva l’accesso alla vita ultraterrena. Se il cuore si rivelava più pesante della piuma, la dea Ammit – parte leone, parte ippopotamo, con la testa e i denti di un coccodrillo – lo avrebbe mangiato.
Lo scioccante dato visivo che, per quanto grassi si diventi, la gabbia toracica rimane sempre uguale.
Odore di una cavità addominale fresca: carne refrigerata e merda umana, mista all’odore metallico e pungente del sangue.
Per decretare la morte in culla, il corpicino del neonato deve essere sottoposto ad autopsia.
La bereavement midwife, ostetrica del lutto, ostetrica specializzata che si occupa di far partorire solo feti morti o neonati che lo saranno presto.
Le bare più piccole sono grandi come le chiavi di una macchina.
La temperatura di un forno crematorio, per poter incenerire e cuocere, deve raggiungere gli 862 gradi centigradi.
Percentuale delle cremazioni nel Regno Unito: 78%. Negli Stati Uniti: 55%.
Le imprese funerarie vendono bare fatte di vimini o cartone, presentandole come alternative più ecologiche a famiglie che vogliono fare la cosa più giusta per l’ambiente. Quando sono state immesse sul mercato, nessuno ha considerato l’azione fisica di «caricare» una bara e quanto quell’azione facesse affidamento sulla capacità del legno massiccio di scivolare sul cemento. I primi modelli prendevano fuoco e scomparivano prima che la bara fosse tutta all’interno, lasciando gli addetti dei crematori a spingere dentro il corpo senza bara.
A chi studia da prete viene insegnato di prendere un po’ di tempo per ricaricarsi, dopo un funerale.
Non tutto si incenerisce. Gli addetti ai forni crematori rimuovono dai cadaveri protesi e impianti per paura che esplodano. Alcuni pezzi non organici – come il mercurio dei denti – si fondono e si disperdono nell’atmosfera, o, nel caso delle protesi al seno, che le pompe funebri a volte dimenticano di eliminare, si appiccicano come gomme da masticare sul fondo del forno crematorio.
Durante una cremazione, il tumore è l’ultima cosa a bruciare. Quando il resto del corpo è già sparito, la massa tumorale a volte resta nera e immobile in mezzo alle ossa.
Nel 1995 Camilo José Vergara, un fotografo cileno che avrebbe scattato foto degli stessi edifici di Detroit anno dopo anno per seguire la loro lenta rovina, aveva suggerito che la città venisse celebrata lasciando dodici isolati del centro a disintegrarsi, un monumento a ciò che accade se lasciamo che le cose muoiano e marciscano, se consentiamo ad altra vita di prendere il sopravvento. L’idea era stata accolta freddamente dalle persone che ancora vivevano lì: era una città viva che aveva bisogno di aiuto, non un museo dedicato alla morte.
Benjamin Franklin nel 1773 aveva desiderato che ci fosse un modo per imbalsamare una persona morta, magari in una botte di madera, in modo da poter eventualmente essere riportati in vita cent’anni dopo e vedere in che stato si sarebbe trovata l’America (Regis, 1990, p. 84).
Nei centri di criogenica, dove si conservano i cadaveri in attesa di una tecnologia futura che permetta di riportarli in vita, appendono i corpi a testa in giù: di modo che, nel caso si verifichi una perdita di azoto, il cervello sia l’ultima parte a scongelarsi.
In inglese il compressore toracico automatico si chiama thumper, come il coniglietto di Bambi. Sembra uno sturalavandino sospeso su un torace umano.
I centri di criogenica non accettano suicidi, qualunque sia il metodo utilizzato: non vogliono che la prospettiva di un’altra vita, una vita migliore, diventi la ragione per mettere fine a questa.
La tradizione ebraica di collocare una pietra accanto a una tomba ogni volta che la si visita. La ragione: le pietre, a differenza dei fiori, non appassiscono. È una questione di permanenza del ricordo, di cose che durano oltre il tempo che gli è stato dato sulla Terra.
«Qualunque tecnologia sufficientemente avanzata non è distinguibile dalla magia» (Arthur C. Clarke).
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