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 2023  settembre 04 Lunedì calendario

Intervista a Jorge Coulón Larrañaga, membro fondatore degli Inti-Illimani. Parla del golpe in Cile

Santiago del Cile
Mi riceve a casa di suo fratello Marcelo, a Nuñoa, quartiere storico di Santiago fatto di casette monofamiliari di un solo piano tra stradine ancora tranquille e piste ciclabili: il traffico e la frenesia del business si concentra in ben altri lidi, un po’ più al nord un po’ più a oriente.
Jorge Coulón Larrañaga, membro fondatore degli Inti-Illimani, 76 anni a novembre, di Temuco, nel sud del Paese australe, fa mostra di una serenità lieta e inscalfibile mentre si racconta in perfetto italiano, a 50 anni dal colpo di Stato che instaurò la dittatura pinochettista, e legò per sempre la sua esistenza allo Stivale.
Jorge, facciamo un salto nel tempo: dov’eri quell’11 settembre del ‘73 quando bombardarono La Moneda?
«Ero a Roma, nella nostra prima tournée in Europa, che cominciava proprio in Italia. In mattinata andammo a fare un po’ di turismo e ricordo che eravamo sulla cupola di San Pietro, quando è arrivato correndo un ragazzo della Figc, ha salito gli 800 gradini di corsa per dirci che c’era stato un colpo di Stato in Cile, che avevano bombardato La Moneda… Una cosa completamente fuori dalla nostra comprensione, e immaginazione».
La vostra reazione qual è stata?
«Stupore penso sia stata la prima però anche molto smarrimento… adesso sappiamo cos’è l’esilio, abbiamo vissuto 15 anni di esilio, però in quel momento non sapevamo proprio cosa fare. Era come se ci avessero tagliato le radici, così di netto. Adesso io mi sento tanto italiano quasi quanto cileno, ho vissuto tra i 25 e i 40 anni in Italia. Non sapevamo niente dell’Italia non parlavamo neanche la lingua e anche l’Italia all’epoca era un Paese molto lontano dal Cile».
E quindi eravate là e avete deciso pur di non tornare.
«Non è stata una decisione nostra siamo stati bloccati, ci hanno impedito di tornare. Esisteva una tradizione antica, dagli anni Venti forse, per cui gli artisti che lasciavano il Paese, scrittori, intellettuali avevano un passaporto ufficiale del governo che facilitava loro i tramiti, i visti. Avevamo questo passaporto, che dopo il golpe era diventato scomodo per noi. Siamo allora andati all’ambasciata cilena a Roma per rinnovarlo, ma fu impossibile: ci dissero che eravamo nell’elenco di coloro che non potevano tornare in Cile. Siamo stati costretti all’esilio, diciamo, non per scelta nostra».
Questo per il tipo di canzoni che portavate in giro per il mondo? Come avete interpretata questo esilio forzato?
«Ma, sapevamo di un precedente in Spagna, un dirigente franchista di cui non ricordo il nome che diceva: “quando sento la parola cultura la mia mano va alla pistola"!»
Quindi vi è parso non dico normale, ma per lo meno, prevedibile?
«No, non ci pareva normale, però abbiamo capito che sarebbe stata una cosa lunga. In effetti il colpo di Stato ci ha cambiato la vita. Il giorno dopo il colpo di Stato ci ha ricevuto Giancarlo Pajetta, e lui ci ha detto: “Guardate che un colpo di Stato con queste caratteristiche non è destinato a durare poco”. Non ci volevamo credere. Quindi ci disse: “Continuate pure il tour che avete programmato, poi tornate in Italia che noi vi accoglieremo e vi aiuteremo”. E così facemmo. E dopo poco tempo, già nell’estate del 74 abbiamo capito che il gruppo era un fenomeno, e che stava accadendo qualcosa di assolutamente imprevisto e straordinario».
E siete rimasti apolidi fino all’88 quindi?
«No perché c’era tanta pressione sul regime totalitario da parte delle Nazioni Unite, della comunità internazionale dell’epoca, che alla fine hanno dato il passaporto a noi come a tutti quelli che eravamo in esilio. Ma sulla prima pagina c’era una “L” gigante che voleva dire “limitato” cioè non era valido per tornare in Cile».
A proposito, recentemente il brigadiere Hernan Chacòn Soto, di 86 anni, condannato a 15 anni di carcere per il suo assassinio, si è tolto la vita. E l’altro giorno nell’atto pubblico della presentazione del Piano di ricerca dei detenuti desaparecidos, il presidente Boric ha fatto un’allusione alla sua morte usando l’aggettivo “vile”, provocando così forti polemiche fra i rappresentanti dell’opposizione. Che pensi di questo?
«Penso che ha avuto coraggio il presidente a dire quel che ha detto. Naturalmente ci sono subito levate le voci critiche dicendo che non ha rispetto. Ma da chi viene questo commento? Da chi non ha non ha mai avuto nessun rispetto per Allende, per le migliaia di vittime… Ed è vero, questi soldati, questi militari, che parlano tanto dell’onore, della patria, prima hanno eluso tutte le responsabilità, Pinochet è stato di una viltà assoluta, tutti a negare, a dare la colpa ad altri. È un momento complicato per questo dico che è stato coraggioso a dire quello che ha detto perché non è facile farlo in questo momento».
In che senso non è facile? E lui al potere in questo momento, è il presidente!
«Ma, non so se ha il potere. Il potere non è del governo adesso. E forse non lo è mai stato del governo, quello reale. Questa materia oscura fatta di potere, di mafia di servizi segreti: è’ lì che si concentra il potere».
Tutt’ora?
«Penso più ora che mai».
Dovendo riassumere la tua esperienza italiana in tre parole, tre concetti, che diresti?
«Per me è stata un’esperienza straordinaria. Per varie ragioni: anzitutto per la serietà, la profondità del dibattito politico in Italia di quegli anni; si tende molto a parlare degli anni di piombo, ma tutto questo penso che sia parte della propaganda non della storia. L’Italia è straordinaria ed era un Paese all’avanguardia, nel pensiero, nella proposta sociale… assolutamente all’avanguardia. Adesso tutto questo si è appiattito a livelli incredibili. Tutti questi anni di piombo, io ho seriamente il dubbio su da dove veniva il piombo, se il piombo non era precisamente una forma per porre fine a questa esperienza che era all’avanguardia in Europa».
Rispetto al Cile attuale, dove cinquant’anni dopo ancora c’è bisogno di un Piano di ricerca per gli desaparecidos; dove famiglie, discendenti delle vittime, ancora reclamano il loro diritto disatteso ad ottenere i resti dei propri congiunti scomparsi o perlomeno a sapere dove si trovano. Rispetto ad un popolo che ancora avverte una ferita aperta quindi, rendendo impossibile una vera riconciliazione, qual è la tua lettura?
«C’è una canzone di Serrat che parla di lasciare il paese, però” i morti sono imprigionati e non ci lasciano abbandonare il cimitero”. Quella frase riassume molto bene la situazione del Cile. Da una parte Cile ha una ferita profonda che non non si riesce a chiudere, perché cercano di farlo in superficie, ma bisogna sanare prima la parte più profonda e poi la superficie. E allora mentre non ci siano alcuni atti rituali, e non si riconosca l’esistenza di questa ferita, mentre si continui a fare ironia e a ridicolizzare le vittime, si continui a dire che i desaparecidos in realtà non sono tali, ma sono andati all’estero, dove vivono felici e contenti… mentre si continui a diffondere queste idee da parte di un gruppo che ha molto potere in Cile, è molto difficile che che si possa parlare di riconciliazione. L’Italia dopo il fascismo ha prodotto una Costituzione che è molto bella e molto attuale, e questo ha fatto sì che il fascismo e tutte le sue brutalità siano una verità accettata da tutti. Ci possono essere minoranze negazioniste, però c’è stato un processo di sanazione, attraverso la storia, la celebrazione del 25 Aprile, tutta una serie di iniziative che sono istituzionali, e che passano a far parte della cultura condivisa. In Cile non c’è stato questo processo. E quello che tu dici è vero siamo ancorati a cinquant’anni fa. Ci hanno ucciso e poi ci hanno lasciato come guardiani del sepolcro. Ci chiedono di dimenticare di non essere così pieni di rancore».
Come commemorerete questo Undici settembre?
«Come tutti gli 11 settembre degli ultimi vent’anni: partecipando al concerto davanti allo allo Stadio Nazionale.
Canteremo “El pueblo, unido, jamás será vencido” ovviamente, perché quello è un classico e poi una inedita con le parole dell’ultimo discorso di Salvador Allende. Poi faremo canzoni di Victor Jara, e alcune nuove, naturalmente: perché siamo vivi!».