La Stampa, 4 settembre 2023
L’Italia è l’ultimo paese dove gli stipendi sono più bassi rispetto a quelli di inizio Anni ’90
Inviato a Cernobbio
Il mercato del lavoro è più asfittico che altrove, i salari sono al palo. Se poi si guarda ai giovani siamo secondi solo alla Romania per numero di “neet”, quei ragazzi che non lavorano e non studiano, con l’età di indipendenza dalla famiglia che si alza a 30 anni.
Se l’Italia si trova ancora solo al 17esimo posto nella classifica di attrattività globale guidata da Germania, Stati Uniti e Gran Bretagna, lo si deve anche al lavoro povero, che dalle ricerche presentate nel corso del Forum Ambrosetti, chiuso ieri a Cernobbio appare in tutta la sua drammaticità. Una galleria degli orrori del mondo del lavoro declinato all’italiana.
Anche chi il lavoro ce l’ha, ha mediamente un lavoro più povero che altrove. L’Italia, come segnala un rapporto di Ambrosetti sul “Global Attractiveness Index” è «l’unico tra i grandi paesi europei dove i salari sono più bassi rispetto a trent’anni fa».
Nel 2022 il salario medio è stato di 44.893 dollari (circa 41.500 euro), 488 dollari in meno rispetto al 1991 quando l’entrata media annua di un lavoratore era di 45.342 dollari. Nello stesso periodo per un tedesco, tanto per fare un esempio, è andata molto meglio.
Non solo in media guadagna molto di più, ossia 58.940 dollari (54.600 euro), ma si ritrova anche 13.747 dollari in più rispetto all’inizio degli Anni 90. Tendenza più favorevole anche per i francesi, che guadagnano in media 52.764 dollari (poco meno di 49 mila euro) e hanno avuto un incremento di 7.871 dollari. Perfino in Spagna, dove il lavoro è mediamente meno lucrativo (42.859 dollari, quasi 40 mila euro) c’è stata una progressione di 1.508 dollari.
C’è poi la questione del cuneo fiscale, la cui riduzione è un pallino (irrisolto, ancora) del governo. L’Italia è al 5° posto tra i paesi Ocse per il differenziale più alto tra costo del lavoro e quanto finisce effettivamente nelle tasche dei lavoratori: tra tassazione e contributi siamo al 45,9%, contro il 34,6% della media Ocse. Se siamo immobili nei salari, l’ascensore sociale è bloccato, rotto si direbbe. Chi nasce precario, precario resta, chi è disoccupato fa fatica più che altrove a barcamenarsi. «In Italia – si nota nella ricerca, dove si analizza la media delle variazioni trimestrali occupazionali – solo il 13% dei disoccupati riesce a trovare lavoro da un trimestre a quello successivo».
Anche in questo caso il confronto con gli altri paesi europei è impietoso: siamo al terzultimo posto. In Spagna tale percentuale sale al 21%, in Francia al 22% per non parlare della Danimarca che stacca tutti col 34%, primato europeo. Non solo. Se poi guardiamo agli inattivi, ovvero chi non può essere qualificato né come un occupato, né come un disoccupato, come chi il lavoro non lo cerca, la situazione risulta ancora più grama: solo il 3% di questi inattivi entra nel mondo del lavoro da un trimestre all’altro. Siamo lontani dalla Finlandia (8%) e possiamo consolarci, per così dire, solo con Grecia e Slovacchia (15).
Gli inattivi, tra i giovani, sono un vero e proprio flagello italiano. In un’altra ricerca presentata al Forum e relativa allo squilibrio demografico, si spiega che «negli ultimi dieci anni il numero di giovani occupati tra i 20 e i 24 anni, già molto al di sotto della media europea, è lentamente diminuito».
Partivamo, nel 2012, con una percentuale del 32,2% contro una media Ue del 46,1%. E ci ritroviamo nel 2022 al 31,5% ben 19,1 punti in meno rispetto al resto d’Europa. In media i giovani cominciano a lavorare a 25,1 anni (i numeri delle statistiche danno i decimali anche all’età…). Vuol dire 4,7 anni dopo i ragazzi del Regno Unito, 1,8 anni dopo i greci.
In compenso siamo però pieni di ragazzi confinati sul sofà, i “neet” che non lavorano e non studiano.
Dopo la Romania, che registra il primato col 19,8% di 15-29enni in tali condizioni, arriviamo noi col 18%. È un allarme sociale, un numero lontano anni luce da realtà come la Germania (6,5%) per non parlare di Svezia (4,9%) o di Paesi Bassi, dove il tasso di giovani inattivi è il più basso ed è al 4%. Per questo l’indipendenza dalla famiglia per i ragazzi resta un miraggio fino alla veneranda età di 30 anni, contro una media europea di 26,4 anni. In Italia va meglio che in Croazia (la peggiore, con 33,4 anni) e di altri 5 stati incluse Grecia e Spagna. Ma molto peggio della nazione più virtuosa, la Finlandia, dove i giovani escono di casa in media a 21,3 anni, o di altre nazioni vicine al podio come la Francia e la Germania dove l’età è rispettivamente di 23,4 e 23,8 anni.
Anche per questo di fronte a dati del genere lo sguardo sul futuro è cupo: secondo una rielaborazione di Ambrosetti su dati Censis, il 40% non ritiene che il futuro sarà migliore, il 49% vive nell’incertezza e il 45% dichiara di vuole passare il maggior tempo possibile in casa. Spesso più che una scelta, è una mancanza di alternative