Corriere della Sera, 4 settembre 2023
Intervista a Gianfranco Zola
Gianfranco Zola: «Oggi il calcio è uno spartito tutto uguale e senza i numeri dieci c’è meno fantasia. Con Roby in Nazionale
io non giocavo, ma gli sono grato. Maradona era un uomo buono, aveva premure per tutti. Mancini? La sua scelta mi ha sorpreso e deluso»
Gianfranco Zola, lei che l’ha indossata tante volte: cosa significa il numero 10 sulla maglia di un calciatore?
«Ero un ragazzino che viveva in un paesino piccolo della Sardegna e il calcio di alto livello era non so quante galassie lontano da me. Vivevo di emulazione, non avendo il calcio di qualità vicino mi abbeveravo a quello che vedevo in televisione e liberavo le fantasticherie di un bambino che guardava i calciatori e cercava di copiarli, di imparare da loro. E quelli a cui mi ispiravo avevano tutti le stesse caratteristiche: grande tecnica, grande inventiva, grande creatività. Quei giocatori, sempre o quasi, indossavano la maglia numero dieci. Per me quel numero, quel modo di giocare era la bellezza del calcio, il suo Dna».
Chi erano i suoi riferimenti in quel momento?
«Michel Platini, Zico, Maradona. Con uno di loro, Diego, ho avuto anche la possibilità di allenarmi e di giocare. E quella penso sia stata la svolta della mia carriera».
Torniamo al suo paese, Oliena. Mi racconta della sua famiglia?
«Vengo da una famiglia molto povera. I nonni lavoravano in campagna e mio padre era aiutante pastore, da noi la principale economia era la pastorizia. Bambini come mio padre vivevano sui monti, accudivano il gregge… Dopo qualche tempo è diventato camionista e poi ha aperto un bar insieme a mia mamma».
Era appassionato di calcio?
«Mio padre non sapeva neanche cosa fosse un pallone, almeno fino ai trent’anni… Un giorno, credo ne avesse trentatrè, degli amici lo portarono a vedere una partita e lui disse “Che cos’è il calcio?”. Ma da quel giorno impazzì per il pallone, diventò dirigente della squadra locale, persino presidente. Quando avevo tre anni mi portava agli allenamenti. Se quegli amici non lo avessero invitato al campo, quel giorno, forse anche la mia vita sarebbe stata diversa, sliding doors... Lui non mi insegnava come calciare la palla, ma mi indicava valori e aveva fiducia in me. Mi ha fatto vedere una strada e mi ha dato la libertà di percorrerla. Penso sia questo il compito dei genitori».
Si ricorda il primo pallone della sua vita?
«Credo sia stato proprio per il mio terzo compleanno. Mio padre era diventato amico di alcuni giocatori della squadra del paese che erano chiamati gli “stranieri”, perché venivano dai paesi vicini. Loro mi regalarono quel pallone di plastica, un Super Tele, e mia mamma dice che non l’ho mai più mollato. Ci andavo anche a dormire. Dormivo con mia sorella. Quando mamma e papà presero il bar, che era un’attività molto dura, andammo a vivere in una stanza sopra al locale. La dividevamo tutti. Era piccola, ma ci stringevamo. Una stanza per tutti».
Stiamo alla definizione di Platini che distingue, nel numero dieci, i registi e i fantasisti... Lei a quale delle due categorie è appartenuto, come giocatore?
«Ci sono dei numeri dieci che sono più portati a creare gioco, sono più bravi nella manovra e altri che sono più finalizzatori, credo che Michel, nella vostra intervista, li chiamasse “nove e mezzo”. Io credo di appartenere di più a questa seconda interpretazione del ruolo. Nelle squadre giovanili ho sempre giocato come attaccante, poi a 18 anni, quando andai alla Torres in serie C, ho fatto invece il centrocampista, offensivo ma centrocampista. E così anche quando sono andato al Napoli. Il passaggio al Parma mi ha riportato davanti, per ragioni tattiche, e in quella posizione ho dato il meglio di me stesso. Forse, quindi sono un “nove e mezzo”, felice di esserlo stato».
Non le sembra che il numero dieci, quell’impasto di regia e creatività, sia sparito nel calcio moderno? Che anche questo ci racconti di un tempo frettoloso, poco incline alla visione e alla fantasia?
«È un processo iniziato alla fine degli anni Novanta con Sacchi. Con lui si è cominciato a dare molto meno spazio alla creatività e molto di più all’organizzazione. Prima tutte le squadre erano strutturate allo stesso modo, con difese molto forti e marcatori capaci di annullare gli avversari. I due centrocampisti che recuperavano la palla la davano al numero dieci, o comunque al regista, che creava gioco, inventava l’assist per il bomber. Si lavorava molto per difendere, recuperare e impostare. Con Sacchi si è arrivati a una struttura più rigida, con i quattro centrocampisti, il 4-4-2, si faceva un grande pressing, tutti partecipavano alla manovra... Il fantasista doveva rientrare rigidamente in uno schema tattico predefinito. Non era come prima, quando il numero dieci era libero di andare dove voleva, seguire la palla, impostare la manovra».
Lei ha sofferto in questa rigidità?
«Io ci sono passato in mezzo, ero uno di quei giocatori che per inserirsi nel modello tattico di Sacchi doveva trovare un ruolo che però non era il mio: o facevo l’esterno di destra o di sinistra o la seconda punta. Anche Roberto Baggio si è trovato nella stessa condizione. Ora, ancora di più, tutti cercano di attaccare, di mantenere il possesso di palla, ma in un contesto tattico molto rigido e di conseguenza il numero dieci o diventa un sette, un undici o un finto nove. Il dieci non esiste più».
Anche nel calcio si è persa un po’ di fantasia e forse un po’ di libertà..
«A me nessuno si è mai sognato di dirmi, quando avevamo la palla noi, “Vai di qua o vai di là, fai così o fai colì”. Io diventavo matto, quando cercavano di imbrigliarmi. Qualche allenatore ci ha provato, ma non era per me. Io al calcio sapevo giocare solamente in quel modo. Non ero uno sregolato, facevo disciplinatamente il pressing quando gli avversari impostavano il gioco. Ma, quando avevo la palla, volevo essere libero di fare quello che sapevo fare: inventare. Al mio amico Luca Vialli, dicevo: “Tu dimmi come vuoi la palla, poi a come fartela avere ci penso io, non preoccuparti”. Tenevo alla mia indipendenza, al modo in cui cercavo la posizione, al tempo delle mie giocate. Mi dava certezza, sicurezza. Perché era quello che sapevo fare».
Un po’ di poesia in meno?
«Sì, perché tutto è cambiato, tutto è molto più costruito, molto più ripetitivo. Quello che si vede oggi non è che non sia piacevole, per chi ama il calcio, ma è sempre lo stesso schema, è uno spartito sempre uguale. Quando giocavo io era tutto più libero e questo aiutava lo spettacolo e la creatività del gioco. Si inventava, oggi si ripete. Sia chiaro, c’era anche tanta mediocrità, ma in ogni partita c’era, a un certo punto, una luce che si accendeva e succedeva qualcosa che non avevi mai visto prima».
I grandi numeri dieci non erano dei superuomini, in termini di altezza e prestanza fisica.
«Sì ma non si faccia ingannare dai centimetri. Tutti noi, anche io, avevamo dei dati di esplosività muscolare che facevano impressione. Maradona aveva delle gambe da far paura. Il bello del calcio è che in fondo è complesso. Si può far bene in molti modi diversi. Si può essere grandi o piccoli, avere il centro di gravità più o meno basso, ma, se si ha talento, alla fine questo emerge. Noi non avevamo i centimetri, ma volevamo primeggiare e allora abbiamo usato quello che di cui eravamo dotati, abbiamo costruito le nostre armi: l’intuito, l’anticipo, la tecnica, l’agilità e la fantasia. Io ho visto grandissimi giocatori che erano alti o bassi, minuti o muscolosissimi. Calciatori come Socrates o Poyet, che giocava con me al Chelsea, pur lentissimi, erano essenziali. Il bello del calcio è che, se lavori duro su te stesso, se non molli, alla fine trovi le doti, i tempi, il ruolo che ti consentono di primeggiare».
Lei ha allenato in Arabia, cosa pensa di quello che sta succedendo con l’esodo dei migliori talenti verso quel mondo?
«Non mi piace, sinceramente. Ma non voglio giudicare. Io non mi trovo in quella situazione. Non è facile rinunciare a quei compensi. In qualsiasi lavoro, se l’offerta è cinque volte superiore a quello che prendi abitualmente, è naturale che uno ci pensi o accetti. Mi rendo conto che i soldi sono molto importanti però, non lo so, io vengo da un’epoca in cui, certo si guardava agli ingaggi, ma ci tenevamo molto anche a giocare nei campionati più importanti, nelle coppe più importanti. Ci piacevano la nazionale, gli europei, i mondiali... Molti giocatori di qualità, nella storia del calcio, hanno fatto scelte in cui l’aspetto economico non è stato quello primario. Io sono stato uno di questi. Non voglio fare paragoni, non amo l’ipocrisia. Tutto è cambiato e il contesto va valutato. Ma rimane che per me la competitività del torneo in cui si gioca è importante, non meno del conto in banca».
Della vicenda Mancini cosa pensa?
«Sono rimasto sorpreso. Se devo essere sincero, non me lo aspettavo. Roberto ha fatto un grande lavoro, quando ha vinto l’Europeo. Non solo per il risultato, ma per il modo, lo stile in cui lo ha raggiunto. Dopo l’eliminazione ai mondiali io sono tra quelli che ha sostenuto lui dovesse continuare. Pensavo volesse arrivare ai mondiali. Sono, anche per questo, sorpreso e molto dispiaciuto della sua rinuncia».
Due nomi che per lei sono stati importanti. Il primo, ovviamente è quello di Maradona. Com’era umanamente?
«Meraviglioso. Mi creda, non glielo dico per l’affetto che ho avuto per lui, per la gratitudine per tutto ciò che mi ha insegnato. No, penso di esprimere l’opinione di tutti quelli che hanno incontrato Diego. Come persona, al di là del calciatore che, mi creda, era inimmaginabile. In quegli anni c’erano Zico, Gullit, Falcao, Platini, dei fenomeni. Ma lui era ancora di più. Era irragionevole quello che riusciva a fare in campo. Dal punto di vista umano lui, che era il giocatore più conosciuto al mondo, viveva tutto con una semplicità, una tranquillità che erano d’esempio. Aveva attenzioni e premure per tutti. Se c’era da battersi per un suo compagno di squadra lo faceva, lo difendeva sempre e comunque, contro chiunque. Ci faceva vincere la partite e i campionati ma noi lo abbiamo amato per com’era. La sua vicenda finale mi ha fatto male perché non meritava quello che è successo. Aveva delle debolezze a cui non riusciva a resistere ma, mi creda, era un gran bravo ragazzo. Buono come pochi».
Il secondo nome è quello di Baggio, che è stato suo coevo, con la maglia numero dieci.
«Sono molto contento di averlo trovato sulla mia strada. Mi ha fatto migliorare moltissimo perché la competizione, a quel livello di tecnica e di fantasia, fa solo bene. Per me la nazionale era la cosa più importante che ci fosse. Io ho deciso di diventare calciatore guardando la vittoria azzurra del 1982. Quindi può immaginare quanto ci tenessi, però io in nazionale non giocavo perché c’era Roberto. Mi rendevo conto che lui era un talento straordinario e sapevo che per prendere quella maglia numero dieci avrei dovuto cercare di fare cose più belle delle sue. Alla fine degli allenamenti mi sedevo per cercare di capire quello che Roberto sapeva fare e magari per analizzare se c’era qualcosa che potevo fare meglio di lui. Sono stati momenti importantissimi, perché mi hanno fatto lavorare a fondo su me stesso. Io gli sono grato. È stata una fortuna, checché se ne dica, che lui sia stato nel mio stesso periodo. Però, peccato, in quegli anni non era prevista una nazionale con due fantasisti. Ma lei oggi provi a immaginare una squadra con Baggio e Zola insieme, cosa potrebbe fare, che spettacolo sarebbe».
Se lei potesse fare un assist a un giocatore della storia del calcio, chi vorrebbe rendere felice?
«Gigi Riva. Mi sarebbe piaciuto giocare con lui».
Credo ci saremmo divertiti molto.