il Giornale, 3 settembre 2023
A trent’anni dalla «pace» di Oslo, Israele deve lottare per esistere
M olti anni fa, quando sembrava ancora che la Pace, il Nuovo Medio oriente e altri encomiabili obiettivi fossero raggiungibili, all’aurora degli anni ’90, Uri Savir, il braccio destro di Shimon Peres, mi telefonò: «È possibile trovare un luogo di incontro segreto dove alcune persone importanti possano parlare di pace senza essere visti?». La persona che ci fornì quel luogo segreto fu una gentildonna intelligente e sensibile, Bona Frescobaldi: così, nottetempo, in una delle più belle ville nobiliari nei dintorni di Firenze si compì un incontro storico fra ignoti partecipanti ebrei e palestinesi, una pietra miliare verso gli accordi di Oslo, un impegno di reciproca pace. Il più importante documento, cioè la Dichiarazione di principi degli accordi per un Governo ad Interim (Dop o Oslo 1) fu votata il 30 agosto dal governo in Israele e poi ratificata dalla stretta di mano fra Rabin e Arafat davanti alla Casa Bianca il 13 settembre 1993. Chiunque prese parte all’evento se ne sentì fiero. Racconta Baiga Shohat, allora ministro dell’Economia, che nel giorno del voto israeliano era stata data ai membri del governo solo un’oretta per leggere lo sconosciuto accordo: «Capimmo che era finalmente dopo tanto soffrire un accordo di pace, che i Palestinesi accettavano con la risoluzione 242 dell’Onu che prevede la trattativa, e che riconoscevano lo Stato d’Israele. E questo – dice Shohat – dopo che avevano perfino sostenuto Saddam Hussein durante la guerra del ’91 saltando sui tetti mentre bombardava Israele».
A 30 anni da quel giorno devo sinceramente dire che rimpiango persino la telefonata a Firenze, e tutte le parole che ho speso negli articoli encomiastici anche per il premio Nobel per la Pace che un anno dopo fu assegnato a Rabin, Shimon Peres, Arafat. Questo, perché da Oslo scaturì una cascata di violenza palestinese più violenta che mai.
Arafat, tornato, ebbe subito in mano Gerico, nel cuore della West Bank, e Gaza, confinante col mondo arabo e col Sud del Paese. Due anni dopo, reinsediatosi a Ramallah, avrebbe avuto in mano tutte le città e i villaggi ad alta presenza palestinese, fino a coprire il 99 per cento della sua popolazione. Nessuno lo ricorda: aveva fondi e aiuti molto generosi, la maggior parte del territorio sotto la sua giurisdizione e, dal ’93, cinque anni di tempo per stabilire, secondo gli accordi, con elezioni che non venivano mai (che poi si svolsero nel 2006 per non ripresentarsi mai più e lasciare in sella Abu Mazen) come disegnare il suo nuovo Stato, come organizzare le sue forze, e come porre fine alla persecuzione terroristica degli ebrei. Aveva il supporto di tutto il mondo. Doveva accettare finalmente l’esistenza degli ebrei come abitanti legittimi del loro Stato, lo Stato d’Israele. Questo non è ancora avvenuto.
Gli israeliani votarono all’unanimità, con due astensioni, per il piano. I mediorientalisti che avvertivano basandosi sulla conoscenza della cultura islamica la pericolosità dell’impresa, erano guardati come gufi, o come coloni con le mani sugli insediamenti. L’opposizione di destra era una minoranza esaltata, e purtroppo il risultato tragico e folle fu l’assassinio di Ytzhak Rabin, una ferita che non si rimargina.
Se il rifiuto e quindi il bagno di sangue era prevedibile non lo era che un grande concerto di forze, prima fra tutte l’Onu e l’Unione europea, avrebbero fatto dell’accordo un distorto manifesto di guerra alla politica di Israele, una guerra cocente che dura tuttora, basandosi per altro non sul testo del Dop ma su una reinvenzione falsificata. L’assunto fondamentale, che i territori occupati appartenessero di fatto ai palestinesi, e che la loro richiesta in primis doveva essere soddisfatta senza considerarne le conseguenze per la sicurezza dei cittadini israeliani, e in secondo luogo che difendersi dal terrorismo contenesse una sorta di ingiustizia genetica, legata al concetto di oppresso e di oppressore: l’Europa colonialista proiettava su Israele una storia cui gli ebrei scampati dalla Shoah erano totalmente estranei.
L’accordo si basa sulle risoluzioni dell’Onu post guerra del ’67 (242) e del ’73 (338) che stabiliscono che ci debba essere un accordo su territori occupati per necessità nella West Bank a seguito della Guerra dei 6 giorni, e sui vari trattati di pace con l’Egitto, con la Giordania oltre che sull’accordo col Libano, mai ratificato. Sono pochi punti e soprattutto fece testo uno scambio di lettere di Rabin con Arafat del 9 settembre 1993. Vi si dice che «tutti i temi relativi allo status permanente si risolveranno con trattative», che in cinque anni di governo dell’Olp si deve arrivare a un accordo definitivo; e che l’Olp rinuncia «all’uso del terrorismo e di altre forme di violenza». Le carte dell’accordo, non un vero trattato ma un documento di impegno, stabiliscono che una nuova Autorità Palestinese gestita dall’Olp amministrerà il potere; la responsabilità, la giurisdizione delle aeree della West Bank rimanevano a Israele. Le aree molto popolate da palestinesi (aree A e B) sarebbero state amministrate dall’Olp in attesa di deciderne il destino con una trattativa. Mai sono state dichiarate illegalmente occupate o proprietà palestinese; a Israele fu assegnata la giurisdizione sull’area C, dove sono dislocati i maggiori insediamenti e le istallazioni di sicurezza. Il seguito è una serie di tentativi palestinesi di ottenere attraverso l’assemblea generale dell’Onu, le risoluzioni dell’Ue, e i vari corpi internazionali giudiziari o di svariato interesse (per esempio l’Unesco o le organizzazioni per i diritti umani) l’introduzione ovunque del concetto che Israele è «un potere di occupazione», che lo stato dei territori sia quello di «occupazione belligerante» di una zona di proprietà palestinese, che di sicuro quelle terre sono destinate a uno Stato palestinese e niente deve disturbare la strada verso questa meta. Ovvero, sparisce il concetto di trattativa...
Negli accordi non si fa nemmeno menzione della tanto decantata quanto impossibile «two state solutions». L’invenzione del 2012, naturalmente dell’Onu e delle sue maggioranze automatiche, di create uno «Stato di Palestina» osservatore, è un’opzione politica, non una conseguenza dell’accordo. Rabin per esempio non ci pensava affatto. Oslo ancora da prima della firma è ruzzolato giù per una china di delegittimazione di Israele, una negazione del suo diritto all’esistenza: ne nacque la seconda fase della guerra, una valanga insanguinata di attentati, terroristi esplosivi o con kalashnikov o coltelli, un’educazione nazionale all’odio antisemita mentre Edward Said denunciava la resa al nemico. Due anni dopo la firma, la seconda fase di Oslo promosse lo sgombero dell’occupazione israeliana da tutte le città, i villaggi, le zone popolate, per cui il 98 per cento dei palestinesi vive da allora in aeree governate dal Consiglio Palestinese: ma la vita civile è stata oppressa da due astute dittature corrotte, quella di Arafat e quella di Abu Mazen. La Giudea e la Samaria e Gaza furono trasformati in nidi di terrorismo che avrebbero «forzato i sionisti a realizzare che è impossibile per loro vivere in Israele» disse Arafat. E nel ’94 prendendo possesso di Gaza: «So che siete contro gli accordi di Oslo, ma ricordatevi sempre quel che vi dico: verrà il giorno in cui vedrete milioni di ebrei fuggire dalla Palestina... gli accordi di Oslo ci aiuteranno a realizzare questo disegno».
Arafat non cambiò mai idea rispetto alla sua strategia: «Forzare i sionisti a capire che è impossibile per loro vivere qui». La sua costruzione di una vasta rete terrorista andò consolidandosi negli anni, in flagrante violazione degli accordi di Oslo. Presto, le strade di Israele dal nord al sud conobbero il bagno di sangue che Arafat preparò e fornì di cinture esplosive e di ideologia: «Cosa c’è di più bello di un bambino martire, shahid, per la causa palestinese». Gli shahid diventarono gli eroi della mancata pace di Oslo.
Ma il consesso internazionale, entusiasta della stretta di mano di Rabin e Arafat davanti alla Casa Bianca, ubriacato dal Premio Nobel, ha preso spunto dagli accordi per costruire una gabbia concettuale di delegittimazione che definisse l’assalto a Israele già iniziato negli anni ’70 dall’Onu a partire dalla risoluzione votata a maggioranza «sionismo uguale razzismo». Intanto avveniva una svolta mentale di Israele rispetto al concetto di sicurezza, Ehud Barak, allora capo di Stato maggiore, mentre perorava una pace col tiranno siriano Hafez Assad, avviava una trasformazione dell’esercito da esercito di popolo a esercito intelligente in cui invece della massa pronta alla guerra di terra e alla vittoria, si disegnava una forza di contenimento centrata su armi intelligenti, tesa a evitare gli scontri diretti. Fu Barak che, mentre nel 2000 veniva lanciata l’Intifada mortale dei duemila morti, da Primo Ministro si accordava per consegnare a Arafat, sostenuto da Clinton, tutta la West Bank, la Striscia di Gaza, gran parte di Gerusalemme.
A Durban, che io coprivo da giornalista nel 2001 alla vigilia dell’attacco delle Twin Towers, fu messa in scena sotto il titolo di conferenza dell’Onu sul razzismo una grande conferenza di odio razzista verso Israele: Arafat, insieme a Fidel Castro e Mugabe arringarono una folla che marciò dietro il ritratto di Bin Laden. Gli ebrei presenti alla conferenza fuggivano, letteralmente, di fronte a turbe di giovani delle Ong. Gli accordi di Oslo, più che realizzare una sacrosanta aspirazione alla pace, hanno costituito l’alibi per l’antisemitismo dei diritti umani, quello che in questi anni si è affacciato di nuovo a sinistra e anche a destra bussando colpi sordi e continui. La «special rapporteur per la Palestina», un’italiana con un passato di odiatrice professionale di Israele, ha accusato nel luglio scorso Israele di «aver trasformato i territori occupati in una prigione a cielo aperto», ignorando che Oslo pose fine all’occupazione della West Bank avviando un processo concordato, e che Gaza non vede l’ombra di un ebreo dal 2005. Ma, se glielo chiedete, lei parla in nome degli accordi di Oslo.