la Repubblica, 3 settembre 2023
Mps divide il governo
Un altro fronte si apre nel governo e si chiama Mps. La banca, nazionalizzata nel 2017 profondendo 8 miliardi di euro pubblici, non ha ancora terminato un annoso risanamento che già torna a essere una pedina politica. Con la Lega a frenare sulla privatizzazione, promessa a Bruxelles entro metà 2022 (e slittata di due anni dopo che il governo Draghi ottenne una proroga biennale), e le altre due forze di maggioranza a sostegno della “linea Giorgetti” sulla cessione tempestiva del 64,2% tuttora in mani pubbliche. Pare un dejà vu dei tempi passati, che su fronti politici opposti, portarono allo sfacelo l’istituto. «Su Mps si deve procedere alla privatizzazione, lo Stato non deve fare il banchiere. Prima si fa meglio è», ha detto ieri, dal Forum Ambrosetti il ministro degli Esteri Antonio Tajani, presidente di FI. «Credo che sia giusto andare su questa strada», ha fatto eco Adolfo Urso, ministro di imprese e Made in Italy per FdI. Tajani e Urso hanno indicato nel ministro dell’Economia il soggetto da cui «deve venire la proposta di tempi e modalità» dell’uscita da Mps. Pochi giorni fa proprio Giorgetti, illustrando il nuovo investimento nella rete di Tim, diceva: «Oggi discutiamo di uno Stato che entra in partecipazione strategica, può darsi ci siano altre realtà in cui sia opportuno in qualche modo disinvestire».
In teoria il governo, tornato da poco a studiare le privatizzazioni per ridurre il debito in vista di un’onerosa legge di bilancio, potrebbe cedere anche quote di Fs, Poste, Enav, Enel, Eni, Leonardo, Rai Way. Ma nell’interpretazione diffusa, e non smentita, l’allusione era anzitutto a Mps: che tra l’altro, grazie alla fase propizia del settore credito dopo il rialzo dei tassi che ha gonfiato gli utili bancari in Europa, sarebbe ora attuabile senza perdere altri soldi. Anzi, realizzando una plusvalenza almeno sull’ultima ricapitalizzazione Mps 2022: quando il Tesoro pagò 2 euro azioni che ora quotano a 2,54. In Borsa la quota pubblica della banca vale sui 2 miliardi.
L’idea di vendere però non piace alla Lega: che ieri, a stretto giro, ha replicato a Tajani e Urso. Il sottosegretario leghista del Mef, Federico Freni, pure ospite al Forum ha invitato alla cautela: «La maturazione dei tempi non dipende solo dalla volontà del governo, ma da fattori esogeni come l’andamento della Borsa e dei mercati, del titolo Mps e del sistema bancario. Verrà il giorno in cui sarà ceduta, ma la fretta non è una buona consigliera». E una dichiarazione ancor più piccata è venuta da Alberto Bagnai, vicepresidente della commissione Finanze della Camera e responsabile economico della Lega: «Così come la privatizzazione dei porti, già opportunamente smentita dalla premier, anche la vendita della quota di Monte dei Paschi non è all’ordine del giorno. Il governo ha il dovere di approfondire i dossier e discuterne attentamente e riservatamente», ha detto l’economista leghista. L’ipotesi di vendere i porti era stata sollevata proprio da Tajani, il 23 agosto.
La Lega, a Siena e su Mps, ha messo gli occhi fin dal 2020, quando in asse con M5s promosse la nomina dell’ad Guido Bastianini. E nel rinnovo del cda della scorsa primavera, a fianco dell’ad Luigi Lovaglio, è stato indicato Nicola Maione, vicino al partito di Salvini. Proprio il 4 agosto, dopo l’uscita dei conti semestrali di Mps in utile per 619 milioni, i leghisti diffusero un irrituale comunicato per salutare gli «ottimi risultati, una grande soddisfazione per il partito di Matteo Salvini che per anni ha difeso, quasi da solo, la banca più antica del mondo da quelli che la volevano svendere». Le divisioni nel governo sul dossier, e la probabile confusione che genereranno tra gli investitori, rischiano di inverare gli auspici di Bagnai e di Freni: ritardando comunque la vendita di azioni Mps, che il Tesoro mesi fa sp erava di poter avviare, anche in tranche, nei prossimi mesi.