Corriere della Sera, 3 settembre 2023
Intervista a Chiara Francini
Chiara, ma allora è vero che lei ha la casa piena di lucine di Natale!
«Certo, guardi qui la mia luminaria, attraversa il salotto. E questo è uno dei tre alberi di Natale, belli pieni di lucine e di palle tutto l’anno, anche a fine agosto».
Ma che dice il suo fidanzato, Frederick Lundqvist, che abita assieme a lei?
«Mi supplica di toglierli, ma non se ne parla, stanno lì da undici anni e lì restano. Le lucine fanno parte di me, non le spengo perché sarebbe come spegnere una parte di Chiara Francini».
Perché questa mania delle luci? Lei ne parla nei libri e nelle interviste.
«Perché amo la vita, ho il terrore di perderla. Sono una che ama mangiare, fare cose, sono una donna colorita, sia quando scrivo che quando sono a teatro. Tutta mia mamma, donna inflessibile però con un eloquio ricchissimo. Papà invece è più distaccato, ironico ma posato».
Il «Gianca» e la Sara, che tornano spesso nella sua autobiografia «Forte e chiara».
«E la nonna Orlanda, detta anche Orlanda Furiosa? Aveva la terza media ma non le ho mai sentito sbagliare un congiuntivo».
Nonna Orlanda le allungava anche qualche «labbrata», come a Campi Bisenzio viene detto un manrovescio dalla parte della fede nuziale, perché «fa più male».
«Sono cresciuta alla periferia di Firenze, vengo dal contado. Ma in casa l’educazione era una cosa seria. Una volta dissi vaffancuffia e nonna mi diede una labbrata. Ancora oggi quando dico vaffancuffia ho paura».
Quando ha detto loro che voleva fare l’attrice?
«Mamma avrebbe preferito altro, però se lo ricorda bene quando, alle elementari, in una recita feci Santa Caterina e caddi a corpo morto. Le venne un colpo, avevo recitato così bene che pensava mi fossi sentita male».
Cinque libri, ma tanti film, spettacoli teatrali e tanta televisione. Eppure lei dice di sentirsi più scrittrice che attrice.
«Perché è così, ma sembra che se hai gli occhi grandi, la bocca carnosa, anche se io le chiamo “labbra da ciuco” e il seno grande, non tutti ti prendano sul serio quando decidi di scrivere. Una volta per un romanzo mi consigliarono di mettere, nella quarta di copertina, una foto con gli occhiali da vista, sarei apparsa più credibile».
L’ultima volta che ha pianto?
«Quando è morta Michela Murgia. Mi ha commosso quella lucidità con cui ha affrontato la malattia, l’intelligenza con cui si è avvicinata alla morte. Ho pensato a me, a quelli che mi circondano, ho pensato che aveva ragione Quintiliano quando diceva Credo quia absurdum, cioè credo perché è assurdo. Bisogna credere in qualcosa che non sia razionalmente definibile e non parlo di fede religiosa».
E l’ultima volta che ha riso fino alle lacrime?
«Mi fa ridere Rollone, uno dei miei gatti, guardi qui come se ne sta sdraiato sul divano. Lui fa i bisogni e si sporca, mi fa tenerezza, è buffo. Forse perché anche io a modo mio, sotto questo atteggiamento così diretto, sono buffa».
Quando ha capito di saper far ridere?
«Quando frequentavo il Teatro della Limonaia di Firenze mi fecero fare Cleopatra e nel dialogo con il servo, che doveva essere tragico, tutti si buttarono a terra per le risate».
Come ha conosciuto Frederick?
«In una pausa tra un palcoscenico e l’altro mi misi a lavorare in un’agenzia di comunicazione. Lui era il mio dirimpettaio ma il giorno dopo che ero arrivata chiese al capo di togliermi dal posto dinanzi a lui perché lo distraevo».
Era vero?
«No, era lui che mi lanciava gli elastici. Quando siamo usciti insieme per la prima volta mi fece trovare una pallina composta da tutti gli elastici con cui aveva attentato alla mia incolumità».
Elastico dopo elastico, sono passati diciotto anni.
«Di fila».
Perché non se lo sposa?
«Perché non voglio estranei in casa».
Chiara...
«Però adesso che ci penso... magari succede. Il vestito, i fiori, i capelli. Quasi quasi mi sposo».
Alt. A Sanremo tutti l’abbiamo sentita prendere le difese anche delle donne che decidono di non sposarsi e di non avere figli.
«Quello era un monologo che ero pronta a difendere con le unghie, perché l’ho scritto io. Ma tutti ci hanno visto qualcosa di diverso e forse è questa la sua bellezza. Qualcuno ci ha visto una donna spaventata nell’avere figli anche se profondamente desiderosa di farlo, qualcun altro ci ha visto l’inadeguatezza che molte donne oggi si sentono addosso. Era dal 1985 che in quel punto orario, certamente in tarda serata, il Festival non otteneva così tanti ascolti ma io non me lo aspettavo, mi creda».
Com’è Amadeus?
«Un signore d’altri tempi. Quando mi telefonò pensai a uno scherzo, perché mi disse: “Buongiorno Chiara, volevo sapere se sei libera la sera dell’8 febbraio”. Straordinario, presente ma tranquillo, gode facendo quello che fa».
Facciamo uno pseudo Questionario di Proust? Io le dico una parola e lei mi dice quello che le viene in mente. Cominciamo con “Gianni Morandi”.
«Latte».
La canzone?
«Sì, ma anche il suo essere morbido, dolce, educato. Una volta me lo sono trovato tra il pubblico a teatro, è venuto a vedermi a Bologna».
Pippo Baudo.
Sanremo
Amadeus è un signore d’altri tempi. Quando mi telefonò pensai a uno scherzo, perché mi disse: «Buongiorno, volevo sapere se sei libera la sera dell’8 febbraio»
«Padre. Quando mi chiese di affiancarlo a Domenica In giurai a me stessa che avrei fatto di tutto per non deluderlo. Cominciavamo le dirette tenendoci per mano, nessuno dei due usava cartelli né gobbi. Ancora oggi, per il mio compleanno, mi manda fiori con un cartoncino. Che conservo, ma io conservo tutto, anche i pass temporanei per entrare in Rai».
Se le dico «figli»?
«Penso alle lucine».
Dunque, la cosa più presente nella sua vita?
«In un certo senso sì. Un pensiero costante che non diventa mai un’ossessione, qualcosa di elettrizzante ma che mi rallegra».
Ci pensa?
«Sì, ci penso. Ho 43 anni, c’è questo benedetto orologio biologico. Però ci penso a modo mio. Senza nascondere le fragilità o le paure».
Per chi ha votato alle ultime elezioni?
«Nemmeno sotto tortura lo dirò».
Un indizio?
«Piero Calamandrei, nel 1955, parlando ai giovani disse che la libertà va toccata, non è una cosa astratta, che la politica va fatta con le azioni. Io faccio politica appoggiando questa o quella causa. Sono vicina al movimento Lgbtqi+, difendo ogni tipo di libertà. Se proprio devo dirlo, il colore che mi rappresenta è un insieme di colori, diciamo pure un arcobaleno».
Eccola!
«Eh, ma mica ci voleva tanto a capirlo».
No, perché lei con quella storia dei «sinistri» ha messo in subbuglio il Paese.
«Ma non capisco perché ogni volta che apro bocca si apre un caso nazionale. Secondo me la Treccani mi assumerà come inventrice di nuove parole. Dunque, chiariamo: io – come tra l’altro scrivo nel libro – a Cartabianca ho fatto distinzione tra sinistri, mancini e poveri paghi. I sinistri sono i ricchi di famiglia che vorrebbero essere nati poveri per essere considerati intelligenti. I mancini sono gli arricchiti che se ne fregano della cultura. I poveri paghi sono quelli come mio padre, i migliori: consapevoli delle proprie condizioni ma che godono di un cappotto nuovo e che non sprecano nulla. Ora, una come me che è cresciuta nel contado a colpi di sacrifici, che ancora oggi usa con parsimonia lo scopino del bagno per non sporcarlo e non consumarlo, come può essere trattata dai sinistri e dai mancini?».
Nel suo libro lei scrive che i sinistri la volevano «decorativa» e i mancini «prona».
«Ecco».
Se c’è una cosa difficile da definire questa è proprio Chiara Francini.
«E meno male. Perché le etichette mi gonfiano come la ribollita di mia madre. Ti vogliono sempre o in un modo o in un altro. O bella o colta. O fai cinema o fai tv. O zozza o immacolata. Ecco perché io scherzo sempre parlando delle mie “volitive” (i seni, ndr): perché sembra che se porti una quinta di reggiseno tu non possa scrivere bene o pensare bene».
Si è mai innamorata di una donna?
«No, però mi affascinano. Se sono in una stanza e entra un bell’uomo, manco lo guardo, prima mi deve eccitare le sinapsi. Se però entra una donna la guardo attentamente, mi piace osservare la bellezza femminile».
Torniamo a Proust? Se le dico «Carlo Vanzina»? Lui l’ha diretta in «Buona giornata».
«Mi viene in mente un cono gelato. Perché è godurioso, colto, rasserenante».
E Leonardo Pieraccioni?
«Penso a un fratello. Forse il fratello che a me, figlia unica, è sempre mancato. In questo suo nuovo film (Pare Parecchio Parigi, ndr) io sono sua sorella e certe volte mi sembra di rivedere in lui una parte di me, toscana, verace».
E se le dico «Frederick»?
«Il divano».
Nel senso di «casa»?
«Certo. Lui è tanto “casa”, lui è tutti i miei plaid colorati che tengo in salotto, lui è il profumo del rientro in casa la sera».
Le ha mai detto «ti amo»?
«Sì, ma fa di meglio».
Cioè?
«Mi prepara il “fungo”, cioè il cappuccino con un biscotto sopra che sembra un fungo».
Gelosie?
«Assolutamente no».
E se le dico...
«Aspetti che suonano alla porta».
Francini sta via un po’, poi torna. E dice: «Uh, era il postino, che quando mi ha visto mi ha chiesto un autografo. Lo sa che io a questa cosa della popolarità ancora non riesco a abituarmi?»