Corriere della Sera, 3 settembre 2023
Un giorno in Centrale, tra negozi di lusso e clochard
A Milano si può andare a Zurigo e a Timbuctù senza muoversi da Milano. Basta andare alla stazione Centrale.
Precisazione, essenziale di questi tempi: Zurigo e Timbuctù non sono luoghi geografici, e neppure etnici. Sono il dentro e il fuori. Dentro ci sono anche molti neri ricchi, e fuori anche molti italiani poveri.
Alla stazione Centrale soltanto alcuni vanno a prendere il treno. Altri vanno a lavorare: oltre ai ferrovieri, baristi, tassisti, netturbini, poliziotti, ristoratori, librai, tranvieri. Altri ancora vanno a vivere, o a sopravvivere: borseggiatori, spacciatori, mendicanti, contrabbandieri di sigarette, prostitute, profughi, clochard, lavoratori in nero e loro reclutatori, aspiranti campioni di skateboard, persone alla ricerca di un riparo e soprattutto di una compagnia.
Due mondi che non si vedono o fingono di non vedersi. Non si parlano, non interagiscono mai. O quasi mai.
Ore 7 Come in Svizzera
La metropolitana di Milano, al confronto di quella di Roma, è davvero di efficienza elvetica. Di prima mattina tutti escono dai tornelli con biglietto, abbonamento o carta di credito, sotto lo sguardo attento di controllori, poliziotti, vigilantes. Ce n’è uno in divisa Italpol con mostrine tricolori: come va oggi? «Non sono autorizzato a dare informazioni a nessuno». Mi scusi, buon lavoro, rispondo porgendo la mano. Il vigilante non dà la mano.
Da fuori, la stazione Centrale è ancora il mausoleo assiro-babilonese che nel 1955 ad Anna Maria Ortese incuteva soggezione: «C’era nel grande traffico una sorta di immobilità, nella solennità di quelle mura un che di oppressivo e feroce, complicato da un minimo di ridicolo, che le rendeva più tetre…».
Dentro, la stazione Centrale pare una clinica svizzera: illuminata, pulita, costosa, asettica.
Non la si può definire un «non luogo», considerando la memoria che si è sedimentata: qui venne Mussolini a prendere il vagone-letto per Roma, festeggiato dalle camicie nere che manganellavano chi non si scappellava al suo passaggio; un’iscrizione ricorda che l’edificio venne rinnovato «nell’anno MCMXXXI dell’era di Cristo», insomma il 1931, sotto si indovina ancora un altro numero romano di un’altra era e la scritta rimossa «fasci». Dal binario 21 partivano i treni per Auschwitz carichi di ebrei italiani. Nell’ansia della ricostruzione si pensò di sostituire la facciata con un grattacielo; ci si accontentò di installare nel 1952 le prime scale mobili. L’inaugurazione fu segnata da un piccolo incidente: due contadine di Oleggio, prese dal terrore, si lasciarono cadere urlando, e trascinarono con sé tutti gli altri, come Fantozzi quando tenta di prendere l’autobus al volo («Ugo, non l’hai mai fatto, non hai il fisico adatto…»; «Non l’ho mai fatto, ma l’ho sempre sognato»).
Oggi gli italiani che rientrano dalle ferie sono in minoranza rispetto agli stranieri in arrivo. Agosto è stato tranquillo, anche perché in vacanza molti non sono potuti andare; settembre ormai per l’Italia è alta stagione. Turiste elegantissime con grandi cappelli a fiori tipo Belle Époque. Un tizio con occhiali scuri e precoce cappotto. Telecamere ovunque: nulla sfugge. Gli americani sono ammirati, dicono che da loro le stazioni sono molto peggio; i prezzi in compenso sono newyorkesi.
Perché la stazione Centrale di Milano è in realtà una gigantesca macchina per fare soldi, anzi per estrarli.
I negozi dei grandi marchi ci sono tutti, anche se spesso vuoti. Dentro, a Zurigo, il cibo costa ovviamente molto più che fuori, a Timbuctù: al Juicebar una centrifuga 6 euro e 20; da Spizzico un trancio di margherita 6 e 50; al Bistrot centrale un tramezzino veg 6 e 90, l’insalata con la feta 12 e 90, l’hamburger con patatine 15 e 90; sempre meno che da Joe’s American, il barbecue di Joe Bastianich, dove un panino con il pastrami come appunto a New York può arrivare a 21 euro.
Ma il vero segno del cambiamento della stazione è il mezzanino. Fino a qualche anno fa, era un luogo di rifugio, da cui si potevano seguire a distanza le crisi umanitarie, pieno prima di albanesi, poi di somali, siriani, eritrei. Oggi, appena scesi dalle scale mobili, un grande cartello indica che in fondo a destra – come da canzone di Gaber – ci sono le «nuove toilet a zero impatto ambientale», anzi «new sustainable toilet on the mezzanine floor». Entrare nel bagno sostenibile, qualunque cosa voglia dire, costa un euro; ci sono anche le macchinette per cambiare le banconote; si accettano le carte di credito. La toilet è affollata ma pulitissima. Musica da lounge. Però, mentre mi asciugo le mani fiero dell’efficienza italica, una vocina improvvida e retrograda mi ricorda che per fare sostenibilmente la pipì ho speso duemila lire.
Ore 13 Il paese della Cuccagna
«Cento lire a collo» indica l’insegna storica del deposito bagagli. Accanto, un’antica mappa delle chiese di Milano, Santa Maria delle Grazie San Babila Sant’Ambrogio, al centro il Duomo, anzi «El Domm». Oggi qui c’è la mostra «Squali e abissi. Predatori perfetti in una terra aliena», con la possibilità di scattare «selfie per coraggiosi» con i pescecani. Una famiglia della Louisiana compra i biglietti, sono 16 euro e 50 a testa.
Il deposito bagagli nuovo è al piano terra: 6 euro le prime quattro ore, poi prezzi a scalare; far dormire una valigia costa venti euro, fino a non molto tempo fa ci pagavi una camera in una pensioncina.
La stazione Centrale non è un posto per pendolari. Da qui partono soprattutto treni ad alta velocità, infatti la destinazione più remota è Napoli; se qualche masochista volesse proseguire per Palermo dovrebbe cambiare e calcolare minimo 14 ore e mezza. L’altoparlante informa che il regionale veloce da Torino – la linea dell’incidente di Brandizzo – oggi non arriverà.
Il vero giardino delle delizie, il paese della cuccagna è il Mercato centrale. Qui ci sono più sedie che in tutta la stazione, ma la cameriera con l’accento bresciano, i capelli rasati e il piercing caccia in malo modo la ragazza con il paninetto nella carta stagnola: «Non è un’area picnic!». In compenso il bagno è gratis. Qui trovi il meglio della gastronomia milanese, dai ravioli fatti al momento dal maestro cinese Agie Zhou al bistrot Pedol, dove lo chef che serve ostriche e Chablis è davvero francese, bretone di Saint-Malo. Parla con accento francese anche la cameriera: «Sarebbe imbarazzante dire da dove vengo davvero». Il vicino di tavolo pensa che sia russa e sorridendo le sussurra «spassìba», lei per un attimo si irrigidisce: «Nella mia lingua grazie si dice dyakuyu!». Allora lei è ucraina? «Sì, ma non lo dico volentieri. I clienti si intristiscono».
La cameriera bresciana, il vassoio dei bicchieri vuoti in mano, rincorre al bagno la ragazza con il paninetto, ma non per rimproverarla, per scusarsi: «Sono stata brusca, lo so. Perdonami. Ma a noi ci pagano con quello che i clienti consumano». Anche la ragazza si scusa, quasi si abbracciano. Molti locali espongono cartelli per la ricerca di personale: gli stipendi non devono essere altissimi.
A un tratto, Timbutcù fa irruzione dentro Zurigo. Un pezzetto del mondo di fuori si stacca e irrompe in stazione. È un signore con la maglietta rossa, che palesemente non è in sé. Ma lo conoscono tutti, e lo lasciano fare. Chiede sigarette ai viaggiatori, controlla se nelle macchinette dei biglietti è rimasta qualche moneta, aiuta un turista straniero a cambiare l’orario della prenotazione per Firenze, mentre il porter cingalese lo guarda: «Viene dal Marocco, è un po’ fuori di testa ma non è cattivo». Arriva un vigilante dell’Italpol, si danno il pugnetto, «quanto hai bevuto oggi? Un goccetto? Due goccetti?». Arriva anche un poliziotto vero con due militari in mimetica, lui li saluta militarmente, loro sorridono, contraccambiano. Una mossa però la sbaglia. Passa un gruppo di giovani, il marocchino grida: «Forza Juve!». Quelli lo circondano, con fare più scherzoso che minaccioso: «Cos’hai detto? Qui siamo a Milano! Grida: forza Milan!». Lui, eroico, rifiuta. Lo lasciano andare.
Ore 18 L’altra anima
Non è che la stazione di un tempo – il rifugio, i borseggi – non esista più. Si è semplicemente spostata fuori. Prima sul piazzale. Poi nelle vie attorno.
I bivacchi sono molti, e si animano man mano che cala il sole. L’unico gruppo rumoroso è quello dei ragazzi con lo skateboard: un nero, un bianco, un latino, un cinese, è l’unico melting pot, anche se nessuno si rivolge la parola, hanno tutti gli auricolari nelle orecchie; si esprimono e comunicano con i loro salti impressionanti, i viaggiatori in arrivo con il trolley devono slalomeggiare tra loro e le biciclette che passano a tutta velocità.
Gli altri abitanti di Timbuctù stanno in silenzio. Puoi osservarli per ore senza vederli fare nulla. Alcuni sono poveri: una bottiglia di birra in mano, pochi denti in bocca. Altri sono vestiti da rapper americani, felpa con cappuccio pure d’estate, berretti da baseball, due telefonini, cuffie nelle orecchie. Odore di marijuana. Ad avvicinarli, si viene accolti con simpatia: «Bianco vaffanculo!», «bianco non ci rompere i coglioni!».
All’angolo con via Galvani un clochard ha comprato al supermarket cosce di pollo con cui sta sfamando il suo molossoide: il cane deve essere a digiuno da tempo, la scena in sé non è pericolosa ma impressionante.
Un nordico maniaco della pulizia raccoglie con un fazzoletto i chewing-gum sputati, come se dovesse pulire casa sua, e li getta nel cestino.
Attorno al cantiere infinito dell’hotel Michelangelo la strada si restringe, e scoppiano brutte risse tra gli automobilisti e i latinos che parcheggiano i loro Suv sull’angolo, impedendo il passaggio. Ora ad esempio si è creato un ingorgo infernale con un Tir e un taxi, che suonano il clacson a martello nel tentativo di indurre il latino a interrompere la telefonata e spostare il Suv. Dalla casa di fronte scende un signore con orecchini, capelli biondi ossigenati e una maglietta vintage con la scritta Versace a filmare la scena con il cellulare: «Maledetti! Vi credete i padroni del quartiere, stanotte per colpa della vostra musica non ho chiuso occhio!».
Passa una signora anziana, molto elegante, con un biglietto del treno per Venezia e un ombrellino destinato a parare più il sole della pioggia. Osserva e sospira: «Qui ci vorrebbe il generale Vannacci…».
In realtà è bastata una stretta del Viminale e della questura per ridurre i reati. Il gabbiotto dell’Atm, un tempo fortino assediato e difeso da tranvieri con il tirapugni, ora è presidiato da tre vigilantes con taser e pistola vera.
L’anno peggiore fu il 2007: ventinove le rapine sui treni partiti dalla Centrale, innumerevoli i borseggi; a un commerciante bengalese fu staccato un orecchio a morsi; un migrante del Mali si impiccò a mezzogiorno calando una corda dalla stecca ferroviaria, le arcate del treno. Nel 2013 la volante Vitruvio, istituita accanto a quelle storiche – Ticinese, Duomo, Magenta, Napoli, Accursio… – proprio per occuparsi della stazione, sgominò la banda delle catenine: uno fingeva di chiedere informazioni, l’altro strappava e scappava. Il Corriere pubblicò in prima pagina la foto del ragazzino che rubava un computer da un trolley senza che il viaggiatore se ne accorgesse; la polizia individuò 39 bambini rom e arrestò i loro 19 sfruttatori. Ci si è dovuti arrendere a Bilal, il superladro: gli esami ossei al Laboratorio di antropologia forense confermarono che aveva davvero 12 anni come dichiarava, al massimo 12 e mezzo.
Erano maggiorenni invece i 101 lavoratori in nero che la guardia di finanza ha scovato in un controllo nei locali attorno alla stazione.
Questo non ha fermato i caporali. A un capannello si offre una donna: non è una prostituta, è una badante, alta e bionda. L’affare si potrebbe concludere in una bisca di via Ponte Seveso, dove ogni tanto le bande facendo intravedere i coltelli trascinano i ragazzi di buona famiglia a farsi offrire birra e sigarette.
Un musulmano si lava i piedi nella fontanella con lo stemma di Milano: sono le sue abluzioni, poi si inginocchia sul tappetino e recita le preghiere della sera in direzione della Mecca, cioè del McDonald’s della piazza.
(Piccolo aneddoto. Si avvicina uno spazzino e mi punta il dito: «Ti ho visto in tv e tu hai parlato male della Meloni». Rispondo che il giornalista ha il dovere di essere critico, ma lui tiene il punto: «Va bene, ma ti prego non parlare più male della Meloni». E perché? «Perché è una di noi». Vorrei replicare che lei fa il presidente del Consiglio, lui fa lo spazzino che è un lavoro dignitosissimo ma molto diverso, e come appartenente ai ceti popolari dovrebbe riconoscersi semmai nel partito democratico della Schl… ma qui la stessa vocin a di prima mi consiglia di lasciar perder e).
Ore 24 La terra di nessuno
Il confine tra l’odio e il disprezzo è sottile. Si odia chi riteniamo pari o superiore a noi; si disprezza chi consideriamo inferiore. C’è più disprezzo che odio nello sguardo con cui i rider in bicicletta, venuti a ritirare gli hamburger dell’ultima consegna, guardano gli spacciatori che con meno fatica, più guadagno e stesso rischio offrono la loro merce ai passanti.
A quest’ora i tornelli della metro vengono saltati con balzi che fanno ben sperare per i prossimi Giochi olimpici: l’eredità di Gimbo Tamberi è in buone gambe.
Ci sono ancora taxi, che a dire il vero non sono mai mancati, almeno per oggi (ma spesso non riuscivano a caricare a causa degli ingorghi).
Mezzanotte e mezza è l’ora della cacciata.
La stazione chiude. È arrivato l’ultimo treno, l’Italo da Salerno, è partito il convoglio Trenord delle 0.25 per Pavia.
Resta aperto un ristorante che secondo TripAdvisor è il peggiore di Milano, ma è sempre pieno.
Il gabbiotto dell’Atm non è più presidiato, qualcuno orina lì davanti, come per sfregio.
I senzatetto si attrezzano per dormire. I posti più ambiti sono al riparo della statua della Mela, che non è quella di Apple come molti pensano ma di Pistoletto. Un clochard su una sedia a rotelle e un altro con le stampelle si piazzano vicino alle tre jeep del presidio dell’esercito, da cui all’evidenza si sentono protetti. L’unico problema è che è partita la musica salsa al Paradise Hell, il locale dove si balla sino a notte fonda. Di fronte, le luci del Pirellone e del Gallia, boom economico e calciomercato; sullo sfondo, i Giardini d’Inverno e il grattacielo Unicredit, le icone contemporanee.
I sotterranei della stazione, dove una donna tedesca, Angelica, visse oltre dieci anni, ora sono sbarrati. In via Sammartini, dove c’era fratel Ettore, la comunità chiude alle 18 del venerdì e riapre lunedì mattina, una scritta in italiano e ucraino invita a rivolgersi in via San Marco. Un modo per entrare nella stazione anche quando è chiusa ci sarebbe: passare dal deposito di viale Monza 113. Ma è tutto tranquillo. In questa notte tiepida non è il caso di correre guai per cercare uno scompartimento vuoto, a coprirsi bastano quattro ombrelli come questi che avvolgono la signora addormentata sulla soglia di «Paul patisserie viennoiserie sandwicherie», davanti all’insegna di Meatball Family con gli occhi spiritati di Diego Abatantuono quando gridava «viulenzaaa!».
«Sentivamo addosso la stazione Centrale come una montagna – scriveva ancora la Ortese – e, strano, quel senso di libertà e fuga ch’è in tutte le stazioni si faceva in noi limite e fine: di qui non si partiva più, si entrava, e la destinazione era ignota». Eppure la stazione Centrale di Milano, nel suo duplice volto di Zurigo e Timbuctù, resta uno dei rari luoghi dove ascoltare e annusare il respiro a volte corto e affannoso, a volte lento e solenne, a volte interrotto e disperato di una grande città.