Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  settembre 03 Domenica calendario

La (brutta) piramide di Tirana sarà il simbolo del futuro

Come quelle egiziane, ma con meno storia. Come quelle del Messico, ma con meno mistero. Come quella del Louvre, ma più brutta. Vista dall’alto, la Piramide di Tirana ha la sagoma della grande aquila bicefala che celebra la bandiera albanese. Vista dal basso, ha la forma d’un piccolo ziggurat che si perde nel centro del lungofiume, il Lana.
Vista oggi, è la memoria ingombrante d’un dittatore e dei suoi deliri: «L’ultimo monumento europeo dell’era comunista – spiega Leon Cika, un tempo grand commis del regime —, che venne eretto soltanto un anno prima del crollo del Muro di Berlino». Oggi il suo nome ufficiale sarebbe «Centro congressi Pjeter Arbnori», ma nessuno l’ha mai chiamato così anche perché nessuno sa più chi fosse il costituzionalista Arbnori, mentre tutti ricordano benissimo che cosa rappresenti quell’eco-mostriciattolo tutto marmo che decora il boulevard Dëshmorët e Kombit, il viale dei Martiri della Nazione: la «Piramida» è l’ultimo pezzo ancora in piedi dello stalinismo-maoismo albanese.
Una cupola di vetro, 12 mila metri quadri di container impilati, scivoli di cemento. La tomba dell’era Hoxha. Che dopo tante polemiche e discussioni – «va abbattuta, è un simbolo del comunismo!», «va salvata, è un’icona del Novecento!» – s’è deciso alla fine di lasciare dov’era. E di trasformare, da quel mausoleo della collettivizzazione che fu, in un santuario della globalizzazione che verrà.
«È un’opera architettonica che non ha eguali», dice il sindaco, Erion Veliaj, e il recupero con capitali americani sarà affidato a un’archistar olandese, Winy Maals: alberi, scale mobili, fontane, tanto vetro che dia luce. «Ne faremo un centro di formazione per giovani. Per insegnare robotica, animazione, software. Perché Tirana dovrà diventare la città dei Big Data, dei ragazzi che parlano java, delle start up informatiche. Vogliamo essere la Tel Aviv dei Balcani».
La Piramide è lì dal 1988. Da quando il più paranoico e folle dittatore dell’Est Europa la mollò in eredità al più isolato e malridotto popolo d’oltrecortina. Appena prima di morire, Enver Hoxha incaricò dell’opera la figlia e il genero, architetti.
Per inaugurarla ci vollero tre anni, dando fondo alle poverissime casse dello Stato e mettendoci dentro un museo celebrativo del Piccolo Timoniere, gigantografie e storiche frasi, a due passi dai palazzi presidenziali e del governo. In quell’Albania tagliata fuori dal mondo, nessuno si stupiva troppo di tanta megalomania. E in ogni caso nessuno fiatava: era un regime che in quarant’anni aveva zittito seimila dissidenti, impiccandoli. E quanto a pazzie, innalzava statue a Hoxha e aveva già costruito 750 mila bunker un po’ ovunque, per difendersi da improbabilissime invasioni sovietiche, cinesi, italiane...
Era una Tirana senz’auto dove sul viale dei Martiri passavano perlopiù i carretti tirati dagli asini, le moschee erano chiuse perché l’ateismo era di Stato e la meravigliosa caršija, l’antico mercato ottomano, era stata rasa al suolo perché il mercato era una piaga occidentale.
Con la caduta del comunismo, fu un miracolo se la Piramide di Hoxha non venne presa a picconate: saccheggiata e svuotata, negli anni ’90 Gianni Amelio l’usava per giraci «Lamerica» e i giornalisti per farne una facile metafora delle piramidi finanziarie, collassate, che stavano squassando il Paese. Nei decenni, la Piramide rimase abbandonata a vari destini.
Iniziarono i ragazzini a usarne le pareti in discesa, per lo skate. Quindi arrivarono i papponi, a sfruttare i saloni bui per un night-club dal nome inevitabile, «La mummia». Poi toccò alle forze Nato, con la guerra del Kosovo, che installarono un comando per il monitoraggio dei profughi. Infine, ci entrarono una tv, gli studi d’una radio, via via una gran quantità di gatti e cani randagi.
Il primo a volerla demolire fu Sali Berisha, l’eterno ex presidente. Il primo a difenderla fu Edi Rama, l’attuale premier. E quando partirono le speculazioni immobiliari per farci un nuovo parlamento, un teatro nazionale o un altare della patria, quando si fecero avanti i sauditi per rilevarla con un assegno da cento milioni di euro, fu allora che l’aquila schipetara riaprì orgogliosa le ali, intenzionata a difendere il suo passato per quanto tragico: gruppi Facebook, petizioni, proteste. Ora, l’ultima idea: in quest’estate d’Albania riscoperta, meta di turisti low cost e premier in vacanza, perché non fare del sarcofago di Hoxha un’occasione di rinascita?
Parafrasando Napoleone: albanesi, dall’alto di questa Piramide quarant’anni di storia vi guardano. Guardate di fare le cose per bene.