Corriere della Sera, 3 settembre 2023
Ustica nell’ultimo articolo di Andrea Purgatori
Quarantuno anni dopo l’esplosione del DC9 Itavia nel cielo di Ustica, i magistrati della Procura della Repubblica di Roma (Maria Monteleone e Erminio Amelio) che procedono per il reato di strage potrebbero chiudere l’inchiesta, dopo aver raggiunto non poche certezze nel mare dei «non ricordo» di molti testi ascoltati e dei continui tentativi di sviare l’indagine verso scenari (una bomba piazzata a bordo da un fantomatico terrorista) che hanno come unico obiettivo quello di azzerare le responsabilità dei vertici militari e dei servizi segreti dell’epoca.
La motivazione di questi tentativi è chiara. Dopo che la Cassazione civile, la Corte dei conti e la Corte d’appello di Palermo hanno condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti a risarcire i familiari delle 81 vittime e gli eredi della compagnia Itavia per una cifra che potrebbe superare di molto i 400 milioni di euro, lo Stato potrebbe rivalersi su chi nel 1980 guidava l’aeronautica militare e non garantì la sicurezza dello spazio aereo italiano da un atto di guerra in tempo di pace, questo dicono le sentenze, svendendo e svilendo nei fatti e con comportamenti omissivi la nostra sovranità nazionale. La Procura di Roma ha ricostruito in questi anni il volo del DC9 minuto per minuto: dal decollo da Bologna con rotta verso Palermo, fino a pochi istanti prima dell’esplosione nel cielo sulle isole di Ponza e Ustica. Il risultato dell’incrocio dei tracciati radar disponibili (quelli non distrutti o manipolati) ha permesso di confermare che sull’Appennino toscano l’aereo di linea venne agganciato da uno o due velivoli militari non identificati e presumibilmente libici, che ne sfruttarono la scia per nascondersi (ma resta in piedi l’ipotesi che la loro presenza sia stata volutamente «cancellata» per evitare che il dato entrasse nel sistema alleato di difesa aerea Nadge).
I tracciati radar dicono anche molte altre cose. Primo. Che il DC9 e l’intruso/gli intrusi furono incrociati a vista da un F104 biposto pilotato dai capitani istruttori Mario Naldini e Ivo Nutarelli (entrambi morti nel tragico incidente delle Frecce Tricolori a Ramstein in Germania, poco prima di essere interrogati sulla strage di Ustica dal giudice istruttore Rosario Priore). Secondo. Che rientrando alla base di Grosseto i due piloti segnalarono l’allarme secondo la procedura prevista dal manuale Nato (la stessa Nato lo ha messo nero su bianco e il documento è agli atti dell’inchiesta).
Terzo. Che i radar registrarono tracce di caccia diretti verso l’area della strage provenienti dalla base francese di Solenzara in Corsica e da quella italiana di Grazzanise, dove sembra fossero posizionati alcuni caccia della portaerei americana Saratoga, che in quelle ore effettuò manovre sospette al largo di Napoli, prima confermate e poi smentite dalle autorità militari Usa in due rogatorie internazionali.
Lo scenario della Procura
Il DC9 si trovò al centro di uno scontro tra caccia della Nato e caccia presumibilmente libici
Secondo gli elementi a disposizione della Procura di Roma, il DC9 si trovò al centro di uno scontro tra caccia Nato e caccia presumibilmente libici (un Mig23 con la carlinga perforata da colpi di cannoncino precipitò sulla Sila dopo essere stato avvistato da diversi testimoni, mentre veniva inseguito da due caccia nel cielo della Calabria) e venne colpito da un missile o collassò dopo una collisione con uno dei velivoli militari.
Lo scenario di una bomba piazzata nella toilette dell’aereo civile, una bomba «salvatutti» che molti ex alti ufficiali dell’Aeronautica cercano improvvidamente di sostenere, è smentito dalle evidenze (l’asse della toilette ed altri reperti della toilette recuperati non mostrano alcuna traccia di esplosivo), dalla sentenza penale della corte che si occupò del reato di depistaggio (non della strage) e dalla logica.
Come avrebbe fatto un terrorista a sapere che l’aereo sarebbe partito con 2 ore di ritardo a causa del maltempo? Come avrebbe potuto salire a bordo del DC9 parcheggiato con l’equipaggio a bordo, sistemare la bomba e poi scendere indisturbato?
Ma soprattutto con quale coraggio il discusso perito britannico Frank Taylor citato dagli ex ufficiali dichiarò ai magistrati italiani che anche se avesse avuto la foto di un missile che colpiva il DC9 avrebbe detto che era stata una bomba? Per non parlare dell’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga che, pur essendo a Palazzo Chigi nel 1980, impiegò 25 anni per confessare di aver sempre saputo dai servizi segreti che l’aereo «era stato abbattuto dai francesi». I generali pensavano di averlo dalla loro parte. Avevano fatto male i conti. E ancora oggi.