La Lettura, 3 settembre 2023
Sulla mostra veneziana "Tiziano 1508. Agli esordi di una luminosa carriera"
Una sfida: provare a raccontare, documentandola con ricerche inedite e suggestive ipotesi attributive, l’alba di un genio, ovvero i primi passi, ancora assai poco noti pur essendo trascorso oltre mezzo millennio di studi, di un artista di lì a poco destinato a mutare radicalmente le sorti della storia dell’arte: Tiziano, nato a Pieve di Cadore in un anno ancora imprecisato, ma che ormai gli studiosi collocano tra il 1488 e il 1490, morto a Venezia il 27 agosto 1576. Una sfida piena di insidie e irta di difficoltà, la stessa che da secoli vede impegnati tizianisti di tutto il mondo, perennemente immersi in infinite discussioni in merito sia all’autografia sia alla cronologia di molte opere. Ma è proprio questo l’obiettivo dichiarato della mostra “Tiziano 1508. Agli esordi di una luminosa carriera”, che sarà aperta al pubblico dal 9 settembre al 3 dicembre presso le Gallerie dell’Accademia a Venezia. Raccontare Tiziano prima dei trionfi, prima delle committenze imperiali e del sodalizio con Carlo V, molto prima della produzione degli ultimi anni, quella delle pennellate rapide e drammatiche a cui lo stesso museo veneziano dedicò, nel 2008, l’esposizione L’ultimo Tiziano e la sensualità della pittura.
«Il progetto — spiegano i curatori Roberta Battaglia, Sarah Ferrari e Antonio Mazzotta — nasce per valorizzare e fissare definitivamente come caposaldo della giovinezza di Tiziano un dipinto delle Gallerie dell’Accademia: l’Arcangelo Raffaele e Tobia. Per Giorgio Vasari quest’opera è stata eseguita nel 1508, così come la grande stampa con il Trionfo di Cristo, pure esposta in mostra. Il 1508 è un anno di svolta perché vede prendere forma anche la grande impresa decorativa esterna ad affresco del Fondaco dei Tedeschi, ricostruito dalle fondamenta a partire dal 1505 a seguito di un devastante incendio. Tiziano vi interviene con Giorgione, ma dimostrando già la sua piena autonomia, tanto che le sue parti saranno ammirate ancor più di quelle dell’esperto maestro. L’idea è dunque di mettere alla prova la datazione vasariana del dipinto delle Gallerie, a cui solo pochi storici dell’arte hanno sino a ora creduto, e di verificare se, con una visione d’insieme del nucleo di opere qui riunite, il discorso regge anche alla luce delle diverse (e a volte opposte) proposte da parte della critica di attribuzione e di datazione di alcune di esse».
Diciassette le opere esposte, attribuite alla mano del Cadorino, cui si aggiungono una decina di confronti con dipinti, incisioni e disegni di autori a lui coevi, quali Giorgione, Sebastiano del Piombo, Albrecht Dürer o Francesco Vecellio, fratello (quasi certamente maggiore) di Tiziano, di cui è esposta una monumentale Madonna con Bambino in trono e due angeli musicanti, conservata nella chiesa di Santa Maria Annunziata di Sedico (Belluno). Restaurata per l’occasione, la tela ha il merito di rievocare la fisionomia di un artista meno noto il quale, pur interpretando le magistrali invenzioni del più dotato fratello, non ne raggiunse i medesimi traguardi.
Protagonista dunque l’anno 1508, esplicitamente citato nel titolo dell’esposizione e definito «fatidico» nel saggio introduttivo del catalogo. Un anno nella cui geografia non rientra solo Venezia — là dove Tiziano arrivò poco più che bambino, trovandosi in una città con tanti stimoli, provenienti da vecchi artisti come Giovanni Bellini e da giovani rivoluzionari come Giorgione — ma anche Ferrara.
La ricerca da cui è nata la mostra ha infatti portato a formulare una concreta ipotesi di un precoce viaggio del pittore nella città estense, assai prima dunque dei documentati soggiorni nel 1516 e nel 1529. A suggerirlo è il riconoscimento dell’Angelo con tamburello, opera in mostra che per la prima volta lascia le sale della Galleria Doria Pamphilj di Roma, quale frammento inferiore di una pala realizzata per la demolita chiesa di Santa Maria dei Servi, proprio a Ferrara, da Nicolò Pisano. Opera sulla quale sarebbe intervenuto Tiziano rifacendone alcune parti. «Spesso negletto nella letteratura tizianesca, l’Angelo con tamburello è qui esposto per la prima volta accanto ad altre opere giovanili di Tiziano che consentiranno di verificarne l’attribuzione e la proposta di datazione al 1508», spiega Mazzotta, autore della scoperta, in più tempi, alla quale è dedicato uno specifico saggio in catalogo.
Appena restaurata, la tavola — stilisticamente affine al Tobiolo delle Gallerie dell’Accademia — per Mazzotta è certamente una parte di quella pala d’altare. Non solo: «Qualche mese fa ho proposto, come frammento superiore della composizione, una Madonna con il Bambino in trono che sta a Mosca, al Museo Pushkin, pur non avendola ancora vista dal vero, data la situazione geopolitica attuale». E c’è una ulteriore scoperta, raggiunta in extremis prima della chiusura del catalogo (accompagnato da schede che ricostruiscono capillarmente tutte le oscillazioni attributive), che il curatore definisce «colpo di scena»: una tavola raffigurante un San Francesco, conservata nel Musée des Beaux-Arts di Béziers, costituirebbe infatti un ulteriore frammento della perduta composizione. «Proprio a ridosso della mostra — spiega Mazzotta — è stato promosso dalla Galleria Doria Pamphilj un restauro del dipinto, condotto da Giorgio Capriotti sotto l’Alta Sorveglianza della Soprintendenza Speciale di Roma, che ha svelato alcuni dettagli dei santi ai lati: un’operazione che permette di aggiungere nuovi, fondamentali elementi rispetto al passato».
Tra le opere databili a questa fase aurorale del genio cinquecentesco compaiono alcuni capolavori: dalla Madonna con il Bambino tra Sant’Antonio da Padova e San Rocco del Prado, lavoro ancora giorgionesco, al più maturo Battesimo di Cristo con il committente Giovanni Ram — mercante di origine spagnola, nel 1530 nominato «console dei Catalani» a Venezia — prestito dei Musei Capitolini di Roma. Datata qui 1509-1510, la tela in arrivo da Madrid ha una singolare storia. Di provenienza napoletana, appartenuta a Ramiro Felípe Núñez de Guzmán (1600-1668), duca di Medina de las Torres e viceré del Regno di Napoli per conto della corona spagnola, il quadro passò presto nelle collezioni reali. In un inventario della quadreria di Filippo IV, forse di mano di Velázquez, è registrato come Paris Bordone. Nome che subito, per facile confusione linguistica, si trasformerà in «Bordonon», appellativo con cui nel Seicento si usava chiamare il pittore friulano Pordenone (1483 circa-1539). Per circa due secoli il dipinto sarà inequivocabilmente attribuito alla sua, ignara, mano.