La Lettura, 3 settembre 2023
Storia del camerata Marco Toffaloni, detto Tomaten
Il ragazzo facile al rossore ma per nulla timido che fa capolino — la bocca semiaperta come di stupore — dietro al cordone del servizio d’ordine dei sindacati, il 28 maggio 1974 in piazza della Loggia a Brescia, è Marco Toffaloni. Gli ombrelli per la pioggia che continua a battere, i volti stravolti dall’angoscia, i lavoratori con la camicia aperta sulla canottiera che si tengono per mano a proteggere la disperazione di Arnaldo Trebeschi, inginocchiato davanti al cadavere del fratello Alberto, 36 anni, insegnante, pietosamente coperto da uno striscione. È una mattina tarda sconvolta alle 10.12 dall’esplosione di un chilo di miscela di gelignite nascosto in un cestino dei rifiuti, ora aperto come un fiore, a ridosso del porticato, proprio dove gli amici della Cgil Scuola s’erano dati appuntamento per la manifestazione. Sul selciato già si contano i morti, saranno otto, e i feriti, oltre cento. Il fotografo Silvano Cinelli inquadra la strage da prospettive diverse, ammesso al di qua della barriera che si è creata per tutelare la scena; infine scatta dal basso verso l’alto. Ed è in questa immagine, riemersa dagli archivi quasi mezzo secolo dopo, che appare il volto del giovane veronese, estremista di destra, 17 anni da compiere a giorni, chiamato dai camerati Tomaten, pomodori, per le gote accese; stralunato e fuori luogo. Che cosa ci faceva in piazza?
Inizierà così, il 7 settembre prossimo (salvo rinvii dell’ultimo minuto per questioni tecniche) il nuovo, ennesimo, processo per la strage di piazza della Loggia a Brescia, inquietante parabola della strategia della tensione che ha insanguinato l’Italia per un lustro, e poi ancora negli anni a venire. Stavolta la procura ritiene di avere individuato uno dei presunti esecutori materiali, finora mai indicati, e chiederà conto a Toffaloni: è stato lui a collocare l’ordigno?
Il procedimento si svolgerà al Tribunale dei minori per l’età dell’imputato al tempo dei fatti, così prescrive la legge. Ma se dovesse presentarsi in aula, il Tomaten di oggi sarebbe un sessantaseienne baffuto che da tempo ha cambiato identità in Franco Maria Mueller (cognome dell’ex moglie), conduce vita solitaria al limite dell’indigenza, secondo voci non confermate, a Sciaffusa, nella Svizzera tedesca, ha la doppia cittadinanza, e raramente torna sul vecchio campo di battaglia tra la Lombardia e il Veneto. Tant’è che nelle indagini preliminari non si è fatto interrogare. Si farà vedere adesso? Il suo avvocato Marco Gallina, raggiunto al telefono, gentilmente declina: «Non sono in grado di dire nulla in questo momento, preferisco non rilasciare dichiarazioni». L’apparizione in quella foto del 1974 potrebbe essere stato un deterrente per il suo assistito a esporsi, perché fissa un punto fermo difficile da confutare. Il perito del Tribunale ha espresso «un giudizio di identità piena» in virtù di due precisi connotati: «Il solco nel labbro inferiore e la fossetta sul mento».
Dunque Tomaten c’era. E probabilmente non era solo. Lo stabiliranno i magistrati. Intanto grazie alla mole di atti depositati a Brescia, consultati a «la Lettura», è possibile aggiungere ulteriori tessere al contesto e tracciare un nuovo filo nero tra Brescia e Verona.
In molti facevano la spola tra le due città vicine, 70 chilometri appena; soprattutto Silvio Ferrari, il giovane dinamitardo neofascista saltato in aria sulla sua Vespa la notte del 19 maggio 1974 a pochi metri da piazza Mercato. Si era detto un incidente, un ordigno da depositare davanti alla sede della Cisl, o del «Corriere della Sera» locale, o forse all’ingresso del primo ritrovo gay di Brescia, il Blue Note, deflagrato per errore. Poi si è aggiunta anche l’ipotesi di una messinscena, un’esplosione pilotata, perché in quest’ultima indagine il peso di Ferrari è cresciuto. Nonostante avesse solo vent’anni, il ragazzo intratteneva relazioni non chiare, secondo una fonte considerata attendibile, scambiava buste di fotografie con carabinieri in borghese e anche con vicecommissari di polizia. Ma soprattutto in sella alla sua Vespa bianca andava con frequenza a Verona. Qui la testimone — che più volte l’aveva accompagnato in trasferta — ha riconosciuto come luoghi frequentati la caserma di Parona; la sede, nota a pochissimi, del controspionaggio all’ultimo piano di un edificio insospettabile; l’entrata secondaria di Palazzo Carli, quartier generale del Comando Ftase (Forze terrestri Alleate per il Sud Europa) ai tempi in cui la città era sede Nato di rilevanza seconda solo a Napoli. In che squadra giocava Ferrari? Soprattutto, su quale intricata scacchiera si muovevano come pedine questi ragazzotti invasati e manipolabili? Chi li manovrava?
Sarà un processo non solo agli esecutori, promette uno dei principali avvocati dei familiari delle vittime, Federico Sinicato: «Potrebbe chiarire finalmente che cosa c’è dietro. Chi ha finanziato queste iniziative, ma soprattutto il gioco sporco fatto dai servizi segreti statunitensi e italiani». A sorpresa, allora, l’inchiesta su due «pesci piccoli» (con Toffaloni anche Roberto Zorzi, allora maggiorenne, per il quale si deve ancora valutare il rinvio a giudizio) potrebbe condurre a un terzo livello, oltre gli stessi «quadri intermedi» dell’eversione nera Maggi e Tramonte condannati nel 2017. E arrivare a disegnare quella che Sinicato definisce «una cupola organizzativa di pensiero, quella che lancia, che stimola la strategia stragista e che trova poi negli ordinovisti i propugnatori. Il contesto superiore nel quale vengono utilizzati i vari gruppi terroristici».
Anche a restare, però, al piano terra di questa vicenda, il procedimento a carico di Toffaloni contribuisce a delineare la galassia scura che intossicava l’Italia, aprendo suggestioni disturbanti che vanno al di là della strage di piazza della Loggia.
Ordine Nuovo è stato sciolto nel 1973 per ricostituzione del Partito fascista ma i militanti che gravitano attorno al movimento un anno dopo non sono disinnescati. Anzi, indottrinati e addestrati, cercano l’azione promessa, e s’aggirano sotto nuove sigle, Anno Zero, Ordine Nero. Tomaten è tra questi: appena adolescente, s’è fatto già notare. Gli ex compagni del liceo scientifico Fracastoro raccontano che «spesso disegnava svastiche»; «aveva un’aria di superiorità»; «l’ho sentito proferire espressioni razziste tipo la superiorità di alcuni soggetti rispetto ad altri e anche vilipendi sarcastici nei confronti di persone che giudicava inferiori»; «era attratto dagli aspetti esoterici del nazismo»; «era preparatissimo su Evola». Sa usare le armi, frequenta un poligono di tiro, la zia che lo ospita trova una rivoltella nascosta nella credenza.
È annoverato tra i Guerriglieri di Cristo Re, integralisti cattolici che si distinguono nella campagna referendaria del 1974 per lo slogan «No al divorzio, sì al ripudio». Ma le sue frequentazioni, tra il Bar Motta e via Mazzini, hanno più a che fare con quel filone di magia e culti orientali ereditati dal Terzo Reich ed evocato dai compagni di classe. Toffaloni si ritiene bazzichi il gruppo dei «Maghetti» allevati da Ordine Nuovo ma soprattutto, come indica il soprannome, appassionati di occulto; compare tra gli aderenti alla setta indiana Ananda Marga, considerata terroristica dall’intelligence italiana. Nel 1977 perde un borsello, i carabinieri glielo ritrovano assieme al manifesto «Piro Acastasi», fuoco purificatore, che al punto 4 professa «la soppressione fisica di tutti gli esseri abietti, impediti, paraplegici, sottosviluppati». Coerentemente, il ragazzo è amico di Wolfgang Abel e Marco Furlan, anche loro studenti al Fracastoro, arrestati nel 1984 e condannati come i killer della sigla Ludwig, che voleva ripulire il mondo dai vizi e professava «ferro e fuoco sono la punizione nazista». E ancora, un’inchiesta bolognese della fine degli anni Ottanta lo coinvolge nelle Ronde pirogene antidemocratiche e in una serie di attentati incendiari.
Su tutto questo lo sollecita l’ex ordinovista Giampaolo Stimamiglio, incontrandolo per caso nel motel di un camerata negli anni Novanta, quando Tomaten vive già in Svizzera ed è solo di passaggio a Verona. Il testimone l’ha riferito agli inquirenti e l’ha ribadito a «la Lettura». «Commentai dicendo che aveva fatto bene a cambiare aria e aggiunsi in tono provocatorio che ne avevano combinate di veramente pesanti... Toffaloni con un sorrisino ironico annuì e aggiunse una frase in dialetto “anche a Brescia gh’ero mi” alludendo alla strage, “son sta mi”». L’ipotesi è di un battesimo di sangue per le nuove leve veronesi che, ignare del doppio gioco, consideravano Silvio Ferrari uno di loro e vedevano nella manifestazione antifascista dei sindacati un’occasione di vendetta. Ma quel che potrebbe emergere, a margine di questo nuovo processo, è che Tomaten e i suoi sodali da quel massacro in poi non si siano fermati. Primo, secondo, terzo livello e ancora altri anni di orrore.