Corriere della Sera, 2 settembre 2023
Biografia di Emilio Lusso
Lussu era un militare, un combattente pluridecorato, uno scrittore, un politico. Questo è ciò che Lussu era certamente. Ma c’è dell’altro. Lussu era un autonomista sardo, ma forse no. Era un interventista bellico, ma forse no. Era uno statista inclusivo al punto di ventilare ipotesi di compromesso con i fascisti (pur di annichilirne la carica violenta), ma forse no. (...)
Lussu nasce nel 1890 ad Armungia, un pezzetto di terra a poco più di cinquanta chilometri da Cagliari, sulle montagne del Gerrei, dove si dà prova di coraggio e balentìa cavalcando e sparando alla distanza. Ce lo si guadagna così il rispetto, da queste parti. Si spara «al cervo, al daino, al muflone e al cinghiale a palla asciutta, cioè con l’archibugio caricato con una sola palla», e quelli che vengono scoperti col fucile carico a due palle vengono «declassati».
Sulla sua casa, nel rione Cannedu, domina dall’alto un nuraghe di dodici metri. Non, come rileva Giuseppe Fiori, una chiesa parrocchiale, cosa che invece accadeva in molti altri luoghi del circondario. Era quindi un po’ guidato dalla misteriosa stella nuragica di cui molto poco si sa ancora oggi: non dal faro della fede religiosa, ma dalla luce fioca e perturbante del mistero, che sparge sulla pelle del giovane Emilio un unguento ben diverso da quello della verità acquisita, e cioè quello della ricerca, della curiosità e dell’esplorazione.
Parte per la guerra, Emilio Lussu, completando gli studi con parecchi inciampi non perché rallentato dall’inoperosità ma, al contrario, animato da un’energia generativa e, nell’ottica del compimento curriculare, certamente dispersiva. Vuole fare molte cose, Lussu, e vuole farle tutte insieme. È fervente interventista, salvo poi ritornare sulle proprie convinzioni quando avrà vissuto il conflitto, avrà lavato via sangue dalla propria divisa e visto commilitoni cadere come birilli in virtù di ordini scriteriati, calati dall’alto senza alcun riguardo per il costo umano. Ordini classisti, diremmo oggi, e pensava lui allora, quando pure da ufficiale si guadagnava in trincea e in campo aperto, oltre alle medaglie al valore, il rispetto e l’ammirazione dei propri soldati ponendo già le basi, nella sua esperienza di vita, per quel processo di legittimazione democratica, nemica di ogni autoritarismo, niente affatto scontato nel ventennio che si approssimava.
È proprio qui, sotto le armi, che Lussu fa propria un’immagine dell’Italia, e della sua stessa Sardegna, molto più organica e rappresentativa di quella che fino ad allora – prima nel periodo della fanciullezza e dell’adolescenza, poi in quello degli studi, fra l’Italia insulare e quella continentale – aveva potuto conoscere.
Patrizio, per così dire, figlio di patrizi, affronterà la questione di classe partendo dal basso, schierandosi dalla parte di quei suoi compatrioti – dove per patria s’intende la Sardegna – analfabeti quattro su dieci, mandati alla guerra senza riguardo per le campagne che si svuotano di centomila uomini su novecentomila abitanti, dove chi rimane subisce l’attacco di malaria e tubercolosi e l’agricoltura collassa sotto il peso di esigenze belliche che lasciano i terreni ormai vaghi, aridi e deserti. Così che, di ritorno dalla guerra, riporta Fiori, «i Sardi non avevano da seminare che le decorazioni... ma esse non germogliavano, non davano frutto». Sotto le armi Lussu fa la conoscenza di Camillo Bellieni, con cui fonderà nel 1921 il Partito sardo d’Azione, autonomista e federalista, mentre più tardi, nel 1937, completerà Un anno sull’Altipiano, in cui confluiscono con amarezza e profondissimo spirito critico le sue cronache militari.
La «questione sarda» esplode a intermittenza, come le bombe sul Carso, e trova voce nelle proteste dei minatori represse nel sangue, nelle dolenze di pastori e contadini mortificati e sfruttati da una borghesia terriera e imprenditoriale che li condanna all’eterna servitù, esasperando i propri ricavi e minimizzando i costi a danno dei lavoratori. E quindi cade l’uso del baciamano verso il padrone, i braccianti scioperano, i pastori salariati, per la prima volta in Europa, si mettono d’accordo per non mungere più le vacche. Dietro di loro c’è Lussu, il capitano, il tenente per merito di guerra, nato e cresciuto sotto la stella nuragica, figlio di quella stessa «nazione abortita» di cui parlerà poi Bellieni, idolatrato capopopolo di quei ribelli dagli «occhi nerissimi» che con sardonico sprezzo l’industriale Ferruccio Sorcinelli definisce ormai «rosso-mori». È sempre con questi che Lussu dispiega la dialettica, con quelli che lavorano di zappa, hanno i calli alle mani e la schiena rotta: alimenta il loro fervore dandogli i contorni di un lecito e furioso dissenso, parla a loro perché conosce le loro parole ed è abile narratore, avendo ereditato da papà Giuannicu, esperto cacciatore, l’indole a magnificare il racconto, a spolverare di mito l’ordinarietà rendendola eterna.
Al suo ingresso in Parlamento, nel 1921, siede con trentacinque deputati fascisti, gentaglia dai modi grossolani che gira armata di pistola e non si fa scrupoli a elargire sonori pestaggi agli avversari politici, quando non è impegnata a progettarne l’assassinio. Anche lui rimarrà vittima di quel clima di violenza, quando verrà ferito da un graduato della guardia regia appena dopo la marcia su Roma. E si lascerà perfino tentare, l’onorevole Lussu, dall’ipotesi di un compromesso, quando il duce, contando su quelle che lui ritiene essere le origini comuni al Partito nazionale fascista e al Partito sardo d’Azione, cioè origini combattenti, invierà in Sardegna in qualità di nuovo prefetto un suo negoziatore, il generale Asclepìa Gandolfo, che parlerà di Lussu come di una «anima generosa ed esaltata» e che si rivolgerà ai combattenti dicendo loro: «Voi siete antifascisti soprattutto perché i fascisti del vostro paese sono delle canaglie».
Più che lasciarsi tentare, Lussu immaginerà un fascismo sottratto ai fascisti e trasformato, grazie alle istanze isolane, assai diverse, in una creatura politica differente, «perché il Psd’A, aderendo al Fascismo ma conservando le sue caratteristiche idealità programmatiche, avrebbe realizzato in dieci anni ciò che nessuno di noi avrebbe sognato di ottenere in cinquanta; perché avrebbe attuato il suo sogno di rinnovamento isolano e di moralizzazione della vita pubblica; perché, con la garanzia dei suoi dirigenti, avrebbe condannato e represso ogni violenza... e sarebbe stata garantita la libertà di pensiero e di propaganda a ogni minoranza;... perché, in altre parole (…) il fascismo sarebbe diventato sardista». Tutto ciò è il frutto di una preparazione culturale che, per sua stessa ammissione, avrebbe richiesto ancora del tempo per giungere a completa maturazione: in Lussu ci sono il carattere, la determinazione, l’apertura necessaria a guardare oltre con una buona dose di scaltrezza, ma c’è anche un vuoto politico e storico da colmare. Così il generale mussoliniano riuscirà a trascinarsi dietro una cricca di sardisti, che da qui vengono chiamati «fasciomori», «un pezzo del Psd’A in camicia nera», mentre Lussu, capo della delegazione a colloquio con Gandolfo, abbandonerà la trattativa, finalmente rinsavito.
Allora Lussu non sa ancora che saranno proprio i fascisti ad assaltare la sua dimora cagliaritana e che, proprio per respingere, armato di fucile, uno di loro arrampicatosi sul suo balcone, dovrà scontare il carcere, durante il quale si ammalerà. Quella dell’assalto in piazza Martiri è una delle scene che Fiori racconta con maggiore carica epica, si tratta di pagine che ogni professoressa e professore dovrebbe leggere in aula quando intuisce che la classe si sta annoiando ad ascoltare la storia di chi combatté il fascismo: vedrebbero risvegliarsi i ragazzi in un baleno ascol-tando le vicende del cavaliere dei Rossomori.
E poi, ancora, Peppino Fiori racconta la deportazione e il confino. «Io non ebbi mai il piacere di vedere la faccia dei miei nuovi giudici. Non fui chiamato a difendermi... Fui condannato al massimo della pena per attività svolta quando la legge non era stata ancora inventata. Non mi concessero nemmeno un giorno di libertà per darmi il tempo di dimostrarmi nuovamente pericoloso al regime».
Lo respinge quindi dopo averlo conosciuto, il fascismo, dopo averne sperimentato gli effetti sulla propria pelle, e nel 1929, dopo essere evaso dal confino insieme a Carlo Rosselli e Francesco Fausto Nitti, raggiungendo prima Tunisi in motoscafo e poi Parigi, fonda a Montmartre il movimento Giustizia e Libertà con, fra gli altri, Carlo Rosselli, Gaetano Salvemini, Alberto Tarchiani e Alberto Cianca. Prende parte alla guerra civile spagnola nel fronte anti-franchista. Non sta mai fermo, Lussu. Non sta mai nascosto: ha il vizio di esporsi perché questo è il compito di un uomo che pensa, esporsi, e non strisciare, proteggersi, darsi alla prudenza. Questo lo costringe a continue e rocambolesche fughe, soprattutto con l’avvento della Seconda guerra mondiale. Dopodiché, nel 1945, diviene ministro dell’Assistenza postbellica nel primo governo di unità nazionale presieduto da Parri, mentre per De Gasperi è ministro senza portafoglio incaricato per le Relazioni con la Consulta. Poi entra nella direzione del Partito socialista italiano, prima di aderire al Partito socialista italiano di unità proletaria, e sembra che ne abbia fatta tanta di strada dalle avanguardie del movimento dei reduci sardi fino alle vette della politica nazionale.
Ma sempre di un reduce si tratta. Di un balente in giacca e cravatta che ha preso la vita da un lato e dall’altro, se l’è rigirata fra le mani, l’ha messa a disposizione, in larghissima parte; l’ha moltiplicata, perché una non gli bastava. L’ha presa in giro, sempre con grandissima serietà.