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 2023  settembre 02 Sabato calendario

Intervista a Nicola Pietrangeli. Diece che Panatta lo ha tradito

(Risposta in scheda 64f46ca4ed2ce)

Nicola Pietrangeli è in una casetta sulla spiaggia di Fregene. Ha appena ricevuto le bozze della sua autobiografia, Se piove rimandiamo, scritta con la firma del tennis di Repubblica Paolo Rossi. Tra una settimana compie novant’anni. Non ha perso un capello, né un ricordo.
Qual è il primo?
«La Buick Packard nera di mio padre Giulio: l’unica auto americana a Tunisi. Aveva anche un’Alfa Roadster rossa. Guidava veloce, arrivò terzo nella Tunisi-Bengasi».
Com’era suo padre?
«Forte. Giocò a calcio nella serie A tunisina. Amava il tennis. Ma il suo sport era la pallanuoto, in cui era cattivissimo: una volta si nascose una spilla nel costume, con cui punse il sedere a un avversario. Non litigava; menava. Un arabo diede una pacca a mia madre Anna per strada; lo massacrò».
Sua madre era russa.
«Figlia del colonnello zarista Alexis von Yourgens, in fuga dalla rivoluzione. A Odessa gli esuli si imbarcarono su due navi francesi. La prima andò a Marsiglia; la seconda a Tunisi. Loro erano sulla seconda. Parlavano solo russo e tedesco, non fu facile. Mia madre andò in sposa giovanissima a un altro fuoruscito, il conte Chirinsky. Finì presto, ma le rimase il titolo nobiliare, che per la legge russa va ai figli maschi. Solo vent’anni fa ho scoperto all’anagrafe di avere il doppio cognome: Pietrangeli conte Chirinsky. Ma agli amici del circolo non ho mai osato dirlo».
Perché?
«Mi risponderebbero con una pernacchia».
Come si incontrarono i suoi genitori?
«Mamma lavorava in un cinema, vendeva dolci nell’intervallo del film; papà li comprava tutti. Poi trovò lavoro in farmacia; papà comprava medicine ogni giorno. Lei si arrese: non voglio che diventi povero per me, ti sposo».
Suo padre era ricco.
«Nonno Michele, di origine abruzzese, era il Paperone di Tunisi. Costruttore. Ma perse tutto. Quando scoppiò la guerra e in Tunisia arrivarono italiani e tedeschi, non fecero nulla ai francesi. Ma quando i francesi si ripresero la Tunisia, sequestrarono i patrimoni degli italiani. Compresa l’Alfa rossa, che una volta vidi passare: alla guida c’era Joséphine Baker, spia e amante di un alto ufficiale. Mio padre finì in un campo di prigionia nel deserto».
E lei?
«Fui accolto a casa di mamma. Parlavo russo, mangiavo russo, pregavo in russo: sono di religione ortodossa».
Crede in Dio?
«Quando mi serve, come tutti i vigliacchi. Pregavo che l’avversario facesse doppio fallo: in russo, per non farmi capire. Adoro le messe ortodosse. Ogni sera prima di addormentarmi mi faccio il segno della croce. Spero, come tutti, di morire nel sonno. Ma finora mi sono sempre svegliato».
Quindi non ha paura della morte?
«A volte penso di buttarmi dal sesto piano; ma se mi faccio male? Poi penso che vorrei essere cremato; ma se mi brucio?».
Com’era il campo di prigionia di suo padre?
«Una caserma dove lui si era fatto un campo da tennis. Andai a trovarlo, mi mise in mano una racchetta e mi propose una partita di doppio. Fece tutto papà, e vincemmo. Il premio era un pettine ricavato dalla scheggia di una bomba. Per me è il più importante della mia carriera. Non l’ho mai ritrovato».
Nel libro racconta di aver rischiato di morire due volte.
«A Tunisi abitavamo alle porte della medina. Cadde una bomba, e ci trasferimmo in campagna. Ma una notte gli aerei che erano andati a bombardare Biserta si liberarono del carico proprio sopra la nostra casetta, che si afflosciò: fummo salvati dall’intercapedine che mio padre aveva fatto costruire. Un’altra volta papà e mamma, per restare soli, mi mandarono a fare una passeggiata. Mi inoltrai tra i resti di una battaglia, tra armi e munizioni. Non avevo letto la scritta: campo minato. Dio non lo so; ma l’angelo custode esiste di sicuro».
Nel 1946 suo padre fu espulso e rientrò in Italia.
«Non avevamo soldi per raggiungerlo. Così mia madre si fece espellere pure lei. La notte di Natale la passai nella stiva di un bastimento diretto a Marsiglia, con altri disgraziati come noi; per questo quando vedo i migranti mi si stringe il cuore. Papà ci aspettava a Ventimiglia, lui e mamma piangevano, io li guardavo e non sapevo cosa fare. Avevo 13 anni».
E vi trasferiste a Roma.
«Non parlavo una parola d’italiano, però avevo un pallone. I ragazzini mi chiamavano Er Francia: “Er Francia, vieni a gioca’!”. Il nostro campo era piazza di Spagna. Ho imparato l’italiano per strada; il problema era scriverlo. Anni dopo lasciai un biglietto a una tennista bellissima: “L’amore con te è una robba pazzesca”. Mi rispose: “Grazie, ma una sola b mi basta”. Che vergogna».
Le vengono attribuite 1.400 donne.
«Esagerati. Persino Califano si è fermato a mille... Mai tenuto contabilità: sarebbe stato orribile, e pure noioso. Ho avuto quattro grandi amori; e ogni volta è stata lei a lasciarmi».
Lei chi?
«Mia moglie Susanna, dopo tre figli, mi abbandonò per un altro. Lorenza perché non volevo sposarla. Paola, l’ultima, perché non volevo convivere».
E Licia Colò?
«Mai capito perché».
Come campavate nella Roma del 1947?
«Papà lavorava per l’ambasciata francese: capo becchino. Doveva recuperare i caduti nella campagna d’Italia. Lo accompagnai nei cimiteri di Venafro, in Molise, e di Pederobba, davvero con due b, in Veneto, che risaliva alla Grande Guerra. Divise lacerate, corpi straziati, mucchi di ossa: era un lavoro duro. Poi si mise a vendere le Lacoste».
Aprì un negozio di magliette?
«No no: andò proprio da René Lacoste, il Coccodrillo, uno dei quattro moschettieri che avevano portato il tennis francese a vincere tutto. Fu un boom pazzesco. Una maglietta costava 2.800 lire. Quando diventai campione, proposi a papà: io le sponsorizzo, e tu le vendi a cento lire in più. Disse no: il prezzo lo faceva René, non noi».
Come finì?
«Arrivò il figlio di Lacoste, che voleva solo magliette rosa o nere. Papà gli disse che in Italia non poteva funzionare: rosa era da checca, nera da fascio... Litigarono e mio padre ebbe il primo infarto. Poi gli tolse il marchio, ebbe il secondo infarto e morì. Lacoste junior ha fatto morire papà».
Lei giocava a calcio nella Lazio.
«Sono laziale da sempre. Ma quando volevano mandarmi alla Viterbese, o alla Ternana non ricordo bene, scelsi il tennis. Però ero amico di Maestrelli, che mi faceva allenare con la Lazio dello scudetto».
Una squadra di pazzi.
«Ci divertivamo. All’inizio mi chiamavano signor Pietrangeli e mi davano del lei. Dieci giorni dopo mi gridavano: “A Nicò, li mortacci, passa sta palla...”. Giorgione Chinaglia non voleva mai perdere, neanche nelle partitelle: si infuriava come un bisonte. Per tenerlo buono, Maestrelli all’ultimo minuto fischiava un rigore inesistente, lo faceva battere a Giorgione, lui segnava e si quietava».
Lei si allenava anche con la Juve, vero?
«Quando lavoravo a Torino alla Lancia andavo spesso a pranzo con Franco Causio. Così un giorno mi portò al campo. Feci due gol a Zoff: il primo casuale, il secondo con un bel pallonetto. Negli spogliatoi lo presero in giro: “Drago, ti sei fatto fare due gol da un vecchietto come Pietrangeli...”. La partita successiva prendo palla e lo stopper, Francesco Morini, mi falcia. Riprendo palla e mi rifalcia. Alla terza volta lo affronto: Francesco, cosa ti ho fatto? E lui: scusa Nicola, me l’ha chiesto Zoff...».
Prima di lei nel tennis italiano c’era Fausto Gardini.
«Gardini nel suo club milanese era imbattibile. Anche perché intimidiva gli arbitri, che non osavano chiamargli una palla fuori. Una volta sul match-point mi lasciai sfuggire: dai, che hanno già buttato la pasta. Gardini divenne una belva. Mi annullò otto match-point, portò la partita fino a notte, il giorno dopo mi batté. E sulla rete mi disse: ora puoi scolare la pasta».
E c’era Orlando Sirola.
«Mio compagno di doppio per dieci anni. Esule istriano, gran fisico temprato scaricando navi nel porto di Fiume. A me diceva che ero un arrampicatore sociale».
Era vero?
«Alla Capannina di Viareggio ero amico del barman, ed ero l’unico, con Agnelli e Marzotto, ad avere il conto aperto. Poter dire “metti sul mio conto” alla Capannina degli anni 60 era una cosa importante; anche perché non si può spiegare nell’Italia di oggi quale concentrato di intelligenza, arte e gioia di vivere fosse la Capannina degli anni 60».
Con Marzotto foste in competizione per una donna.
«Ero a Palermo per un torneo, era la prima volta che prendevo l’aereo in vita mia. Noto questa modella stupenda, Marta. Torniamo a Roma insieme e la invito a cena. Risponde: volentieri, il mio fidanzato non c’è. Entrai nel panico: non avevo una lira, non avevo neppure la macchina... Ma quando l’autobus da Fiumicino arrivò a Termini, c’era il fidanzato ad aspettarla: Marzotto, appunto. Mi risolse il problema».
Il riscatto a Parigi.
«Ero fidanzato con Candida, nome d’arte di Catherine Jajensky, polacca, la più bella artista del Crazy Horse. Il suo numero era il bagno di mezzanotte: arrivava sul palco e faceva il bagno in una vasca di cristallo. Girava su una Buick bianca decapottabile. Su cui entrai al Roland Garros, la domenica della finale del 1959, con lei a fianco».
E vinse.
«Uscii in tripudio, tenuto d’occhio dalla squadra Narcotici. La Buick era appartenuta all’ex di Candida, Jacques Angelvin, il Mike Bongiorno francese: arrestato perché teneva la droga nel paraurti».
In 90 anni ho avuto quattro grandi amori; e ogni volta è stata lei a lasciarmi. Alla Capannina ero l’unico, con Agnelli e Marzotto, ad avere il conto aperto. Orlando Sirola mi dava dell’arrampicatore sociale. A Dio credo solo quando serve
Nel 1960 rivinse il Roland Garros e arrivò in semifinale a Wimbledon.
«Persi da Rod Laver, 6-4 al quinto set. Ma l’anno dopo lo sconfissi nella finale degli Internazionali d’Italia».
Laver era il più forte al mondo. Fu quella la partita della vita?
«No. Fu la semifinale del Roland Garros vinta con Roy Emerson nel 1964. L’arbitro mi richiamò dagli spogliatoi: avevo giocato talmente bene – venti pallonetti sulla riga – che il pubblico mi reclamava. Come a teatro».
Chi è il più grande tra Federer, Nadal, Djokovic?
«Lew Hoad. Mai visto uno tirare così forte. Nel 1956 vinse Parigi perdendo un solo set, nei quarti, contro di me: per la rabbia scagliò la pallina fuori dallo stadio».
Sì, ma tra Federer, Nadal, Djokovic?
«Non pronuncio mai il nome di Roger senza alzarmi in piedi. Rafa sulla terra è il più grande di sempre: ogni anno vengono festeggiati quelli che hanno vinto almeno tre volte il torneo di Montecarlo, ci siamo Borg, Nastase, io e Nadal; ma Nadal ne ha vinti undici. Novak dei tre è il più figlio di buona donna, è un lupo serbo; ma quando ha perso a Wimbledon contro Alcaraz io tifavo per lui. Alcaraz è straordinario, ma non è ancora a quel livello».
Gli italiani?
«Musetti non è il più forte ma è quello che gioca meglio. Sinner ha tutte le qualità per vincere a lungo. Berrettini tornerà, ma ha lo stesso problema di Panatta: gambette che non reggono un busto così forte».
Panatta la sconfisse ai campionati italiani di Bologna nel 1970, 6-4 al quinto, e alla fine lei lo abbracciò.
«L’avevo visto nascere. Vuol sapere la verità? Ad Adriano io ho sempre voluto molto bene, e ancora gliene voglio».
L’autobiografia di Panatta, “Più dritti che rovesci”, si apre con il padre Ascenzio, custode del tennis club Parioli, che annuncia la nascita del primogenito, e voi soci che gridate: e chi se ne frega!
«Non io. Io avevo 17 anni, e non mi sarei mai permesso. È vero che lo chiamavamo Ascenzietto, e questa cosa lui un po’ l’ha sofferta. Me lo ritrovai sul campo, giovanissimo, senza sapere chi fosse, e mi fece impazzire di smorzate, dovetti dirgli: “Regazzì, guarda che le palle corte le ho inventate io!”. Faticai solo il primo set. Alla fine venne a dirmi, con la sua faccia da impunito: “La saluta tanto mio padre”. Solo allora lo riconobbi: ma tu sei Ascenzietto!».
Chi è Panatta per lei? Un amico, un rivale?
«Per me, figlio unico, Adriano era il fratello più piccolo che non avevo mai avuto. Per questo nel 1978 ho sofferto così tanto per il suo tradimento».
Guardi che Panatta scrive di lei con grande affetto, ad esempio quando racconta una vostra trasferta americana.
«Eravamo due scemi. Esordio a Des Moines, Iowa. Tre metri di neve. Eravamo ospiti di famiglie americane, usavamo un’asse di legno come slittino, ci lanciavamo contro la rete di recinzione rischiando di farci male, e scoppiavamo a ridere: appunto, due scemi. Poi andammo a Los Angeles, io stavo a casa di Anthony Quinn, che giocava il doppio con me contro Tiriac e Nastase: perdevamo sempre, e lui si arrabbiava. Una volta chiesi a Tiriac, che mi doveva qualcosa, di fare un set pari. Ma fu peggio, perché Quinn si indignò: “Vedi che se ti impegni possiamo batterli?”».
Cosa le doveva Tiriac?
«Al torneo di Senigallia avevo incontrato questo ragazzo intelligentissimo, che parlava sette lingue, ma non aveva una lira. Così organizzai un giro di scommesse: il mio amico romeno mangerà un bicchiere!».
Ion Tiriac mangiava i bicchieri?
«No, ma li spezzava a morsi, e a quel punto io gridavo: basta così, Ion ha vinto la scommessa! Ora è il secondo uomo più ricco della Romania».
Perché accusa Panatta di tradimento?
«Nel 1975 in Davis erano usciti al primo turno. Con me capitano vinsero nel 1976, prima e unica volta nella storia, e arrivarono in finale nel 1977. Poi ci fu il processo staliniano».
Come andò?
«Mi convocano al Jolly Hotel di Firenze. Un plotone d’esecuzione: il presidente federale Galgani, Belardinelli, Panatta, Bertolucci, Barazzutti, Zugarelli. Tutti zitti. “Allora, che c’è?”. Comincia Bertolucci: Nicola, noi non proviamo più per te quello che provavamo prima...».
E lei?
«Mi alzo, dico “andate tutti affanculo”, e me ne vado».
Lei ha elencato i protagonisti di una serie tv di culto, “Una squadra”.
«Tecnicamente bellissima. Ma piena di bugie. Adriano in particolare poteva essere più sincero».
Quali bugie?
«Nessuno ha riconosciuto che la squadra l’ho costruita io. Panatta e Bertolucci da una parte, Barazzutti e Zugarelli dall’altra: mangiavano, si allenavano, correvano per proprio conto. Panatta diceva di Barazzutti cose tremende, lo chiamava la scimmia. La Davis l’hanno vinta loro; ma non mi riconoscono che sono potuti andare in Cile solo grazie a me».
Era il 1976, tre anni dopo il golpe.
«In quei mesi la sinistra italiana non doveva avere nulla da fare. Passavo il tempo a dibattere con i comunisti, in tv e alla radio. Il migliore era Pajetta, quasi lo convinsi: noi volevamo vincere la Coppa, non difendere Pinochet».
Modugno compose una canzone che divenne uno slogan: “Non si giocano volée con il boia Pinochet”.
«Lo conoscevo, lo affrontai: Mimmo, ma a te cosa importa? E lui: “Scusa Nicola, me l’hanno chiesto...”. Sui democristiani non si poteva contare. Il mio amico Franco Evangelisti mi avvertì: Andreotti non vi lascerà partire. Per fortuna c’era l’onorevole Pirastu».
Chi?
«Nuccio Pirastu, responsabile Sport del Pci. Diventammo amici. Ma passai brutti momenti, per due volte mi telefonarono a casa: brutto fascista, ti ammazziamo...».
Lei cosa votava?
«Mai votato in vita mia. Una volta mi chiamano: vuol venire alla radio a dibattere con un gruppo di esuli cileni? Erano gli Inti Illimani».
Pietrangeli contro gli Inti Illimani è un titolo.
«Mi dissero: “Sappiamo che lei è appassionato di calcio; lo sa che a Santiago non si gioca più perché lo stadio è pieno di prigionieri e ogni tanto ne ammazzano qualcuno?”. Ci rimasi malissimo. Poi a Santiago trovai lo stadio pieno, ma per lo spareggio della Coppa Libertadores, Universidad Católica-Colo Colo. E nel ’78 l’Italia andò a giocare il Mondiale in Argentina, dove c’era un regime molto peggiore, senza che nessuno si lamentasse».
Quali altre bugie ci sono in “Una squadra” ?
«Dicono che Belardinelli era finito in ospedale con un mezzo infarto per colpa di una mia sfuriata; ma no, era andato a sbattere contro un vetro... E poi la ridicola sceneggiata delle magliette rosse. Io non ne sapevo nulla, e mi sarei opposto: perché cogliere rischi inutili, in un’atmosfera già tesa? Siamo sicuri che Allende fosse un chierichetto?».
Non vorrà mica difendere Pinochet?
«Certo che no. Ma i camionisti che lo fecero cadere erano fascisti, o erano lavoratori impoveriti? Si è mai visto un golpe o una rivoluzione senza morti? E comunque di quella protesta nessuno si accorse. Dopo il riposo misero la maglietta blu. E quella rossa Panatta l’aveva già a Parigi...».
Vincemmo la Davis.
«E non c’era nessuno ad aspettarci. Fecero una festa al circolo Canottieri, si presentò pure Andreotti, mi raccontò che aveva difeso la nostra partecipazione... Tacqui per amor di patria».
E nel 1978 la cacciarono.
«Degli altri non mi importava nulla. Soffrii solo per Panatta, che voleva al mio posto il suo amico Bitti Bergamo. Per cinque anni con Adriano non ci siamo parlati. Poi una sera, a Cortina, un po’ bevuto, venne a scusarsi e a piangere sulla mia spalla. Anche se ora nega».
Lei si rifece in una corsa automobilistica.
«Una Celebrity Race dell’Alfa, nel 1988. Lo passai all’ultimo giro, e non riuscii a trattenere il gesto dell’ombrello. Gli diedi la rivincita in una gara di kart: tentò di gettarmi fuori e ruppe la sua, di macchina».
Nel libro lei racconta molti episodi della sua amicizia con i personaggi del dopoguerra, da Ranieri di Monaco ai grandi attori. Ma il migliore è quello con Mastroianni a Londra. Come andò?
«Arriva Marcello e mi chiede se organizzo una cena con due ragazze. Io qualche numero in agenda lo avevo, ma erano tutte impegnate. Ci troviamo a cena da soli, e ci ubriachiamo. Alla fine Marcello mi fa: “Ma ci siamo visti? Tu non sei male, io insomma sono Mastroianni, e siamo qui che sembriamo due froci...”. Poi però nel locale notiamo Jeanne Moreau con Rudolf Nureyev. Penso: che bello, andiamo a salutarli. E Marcello: “Tu sei matto! Quelli mi si vogliono fare tutti e due!”. Sia Jeanne Moreau sia Nureyev erano innamorati di Mastroianni. Lo lasciai al suo destino».
Al Foro Italico le hanno dedicato un campo da vivo.
«E ho una nipotina bellissima che si chiama come me: Nicola Pietrangeli. Avrà sempre uno stadio con il suo nome».