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 2023  settembre 02 Sabato calendario

Perché la castrazione chimica non è la soluzione

Con una certa regolarità, per lo più in presenza di tragiche notizie di cronaca, si torna a parlare di castrazione chimica.
L’ultima occasione è stata fornita dai recenti fatti di Palermo, a seguito dei quali il ministro Matteo Salvini ha rilanciato la proposta perché gli indagati «sono dei malati, oltreché dei criminali, e vanno curati». Una proposta era stata già presentata nel 2018 e prevedeva, per i condannati per reati sessuali, la possibilità di essere sottoposti al trattamento farmacologico di “blocco androgenico totale” attraverso la somministrazione di farmaci di tipo agonista dell’ormone di rilascio dell’ormone luteinizzante ovvero di altri metodi equivalenti.
La possibilità sarebbe rimessa al giudice previa valutazione della pericolosità e della personalità del reo, nonché dei suoi rapporti con la vittima del reato. La facoltà si trasformerebbe poi in un obbligo nei casi di recidiva o di violenza su minori, ferma restando la possibilità di una richiesta volontaria del condannato.
Se è vero che il trattamento è già previsto in altri ordinamenti – e questo è uno degli argomenti utilizzati dai sostenitori della sua introduzione – è anche vero che la disciplina varia molto da Paese a Paese e che quasi sempre è comunque richiesto il consenso del condannato. Concepire la castrazione chimica come componente della pena o come pena aggiuntiva significherebbe, di fatto, legittimare il ritorno alle pene corporali dando il via libera a sanzioni che sarebbero veri e propri trattamenti disumani e degradanti in contrasto anzitutto con l’articolo 27 Costituzione. Non è un caso che, nel 2013, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha stabilito che nessuna pratica coercitiva di sterilizzazione o castrazione può essere considerata legittima nel XXI secolo e che autorevoli costituzionalisti hanno definito trattamenti del genere come una vera e propria offesa alla dignità umana. È umanamente comprensibile che, in presenza di crimini riprovevoli come quelli di Palermo, la prima reazione sia quella di pensare alle sanzioni più severe possibili nei confronti degli autori.
La fantasia non ha limiti e chi fosse a corto di immaginazione potrebbe trarre ispirazione dall’episodio “L’orso bianco” della serie tv Black Mirror. La protagonista – una ragazza condannata per aver concorso nell’omicidio della figlia (poi ripreso dalla stessa con una videocamera) – si sveglia ogni giorno in un luogo a lei sconosciuto, ma che è in realtà un “parco di giustizia”, all’interno del quale i visitatori partecipano ad una storia simulata nella quale, filmandola con i propri cellulari, devono farle credere di volerla terrorizzare sino a ucciderla. Al termine di ogni giornata le viene spiegato il motivo della condanna e, subito dopo, le viene cancellata la memoria, così da consentirle di rivivere nuovamente lo spettacolo il giorno successivo. Se la reazione di pancia, in presenza di fatti riprovevoli, è comprensibile per il comune cittadino, non è però tollerabile per il legislatore (e non è un bel segnale la proposta, ripresentata in questa legislatura, di modifica dell’art. 27 Cost. per favorire l’applicazione di “pene esemplari”).
Per evitare di tornare al Medioevo, compito del legislatore dovrebbe essere quello di lavorare sul piano preventivo – e non solo sanzionatorio – e di pensare a sanzioni che siano in ogni caso compatibili con la Carta.