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 2023  settembre 02 Sabato calendario

Recensione del film di Saverio Costanzo su Wilma Montesi

All’alba di quella notte la ragazza torna casa nella Roma di Piazza di Spagna: una città immobile e vuota, coi colori freddi dell’inizio del giorno che scolorano; ha addosso un abito rosso stropicciato, il bel viso innocente segnato dalle lacrime di una lunghissima notte, e cammina come pregando, mentre da lontano una leonessa che già l’ha impressionata a Cinecittà, la segue come un avvertimento, un minaccia, per poi accostarsi e mettendosi al suo fianco, camminandole vicino, indifferente.
È il modo in cui Saverio Costanzo, in concorso alla Mostra 80 conFinalmente l’alba, vuole ricordare che in Italia la vita delle donne può essere difficile, come se ci fosse vicino a loro un possibile pericolo (diciamo la leonessa) che potrebbe di colpo annientarle. La protagonista, Rebecca Antonaci, occhi luminosi, viso semplice, anche brava, ricorda in qualche modo la vicenda politicamente scorrettissima della morte di Wilma Montesi: quando nell’aprile del 1953 una ragazza di 21 anni, figlia di un falegname, venne trovata morta sulla spiaggia, e partendo dal fatto che al povero cadavere mancava il reggicalze, cosa impossibile allora, scoppiò per anni l’inferno, con la voglia di incastrare i democristiani allora trionfanti attraverso i severi articoli di Berlinguer e di Togliatti, l’arresto di finti uomini di mondo, e alla fine i giorni in carcere di Piero Piccioni, noto jazzista, poi ovviamente assolto, mentre il padre Attilio (allora il Pci sapeva come far del male) dovette rinunciare a diventare capo del governo. Al processo comparirono anche uno zio di lei, Alida Valli, varie signore. Alla fine tutti a casa, la morte di una ragazza, di cui il mistero rimane, non ha avuto seguito.
Il film, per essere un film italiano, è costosissimo, 28milioni di euro, dura 2 ore e 22 minuti e, sarà perché noi siamo diventati spicci, un po’ lungo l’abbiamo trovato. L’appassionato lavoro di Saverio Costanzo comincia in un cinema del ‘53, quindi pienissimo, dove danno un film di guerra, in bianco e nero, con Alba Rohrwacher (nel ruolo di Alida Valli) che fa la mamma di un piccino nascondendosi dai crudeli tedeschi che poi li trovano e il cattivo comandante ammazza la signora, poi un italiano lo fa fuori e lacrimando porta il bimbo alle crocerossine. Un pezzo breve ma che risponde al tipo di film di quell’epoca, direi davvero d’epoca, dopo di che inizia, a colori, Finalmente l’alba.La famiglia – che ricorda quella dei Montesi – esce dal cinema, babbo, mamma e due figliole, la bellissima (Sofia Panizzi), tipo Sophia Loren, e la carina, cioè l’Antonaci, e questa piccola parte del film ha proprio la grazia di quegli anni, con le porte scrostate e la signora che fa assaggiare il sugo al marito e lo rimette nel tegame. La bellissima e la carina vanno a Cinecittà che allora, ai tempi dei Vitelloni, diPane amore e fantasia, diLa provinciale faceva sognare i futuri anni 60, con il Burton e la Taylor e la Hollywood sul Tevere.
Saverio Costanzo ama il cinema e se ne vede la passione: e forse chi guarda la Antonaci vestita da egizia al servizio della crudelissima regina avrebbe preferito un tempo più breve, ma in questo caso devono essere state le richieste della produzione a volere, in inglese, l’eccessiva lunghezza della scena. Non sarò villana a ricordare a Costanzo la festa nel castello dellaDolce vita,1960, penso che sia tra i suoi miti. Si incontrano Lily James e Willem Dafoe e altri attori americani e anche qui, sempre per colpa mia, la lunga scena forse è durata molto; la grande folla elegante nel castello di Capocotta, le bellissime signore scavate dall’invidia, gli uomini orribili pronti a prendersi la piccola Mimosa sperduta nel suo abito bello, gli eventuali democristiani con facce orribili, le signore piene di coca, la bella Lily James che invidiosa la fa pagare all’innocente ragazzina, il solido gay con la testa tinta di giallo, e il buon Willem Dafoe, che vivendo molto in Italia con moglie italiana dovrebbe almeno parlare una lingua più comprensibile ma pazienza. Un’aria di possibile lesbismo (o me lo immagino io) e Wilma-Mimosa che torna a casa, simbolo di purezza e ingenuità, forse diversa da prima, ma senza perdersi. E viva, soprattutto.