la Repubblica, 2 settembre 2023
La verità su Ustica secondo Giuliano Amato
Dopo quarant’anni le vittime innocenti di Ustica non hanno avuto giustizia. Perché continuare a nascondere la verità? È arrivato il momento di gettare luce su un terribile segreto di Stato - o meglio - un segreto di Stati. Potrebbe farlo il presidente francese Macron, anche anagraficamente molto lontano da quella tragedia. E potrebbe farlo la Nato, che in tutti questi anni ha tenacemente occultato ciò che accadde nei cieli italiani. Chi sa ora parli: avrebbe grandi meriti verso le famiglie delle vittime e verso la Storia».
In una lunga vicenda segnata da opacità, depistaggi e silenzi omertosi, Giuliano Amato ha rappresentato quella parte dello Stato che più s’è adoperata per arrivare a una verità giudiziaria e storica sull’abbattimento del Dc9 dell’Itavia il 27 giugno del 1980. Un traguardo ora lumeggiato dall’inchiesta bis della Procura di Roma, con nuove prove a carico dell’aeronautica francese.
Protagonista della politica nazionale nel ventennio delle indagini su Ustica, testimone di passaggi delicati, ora Amato ci affida la sua ricostruzione di quel tragico incidente, dei tentativi di depistaggio, delle omissioni di politici e militari, nella speranza che possa favorire un nuovo esame di coscienza, in Italia e nel mondo.
Presidente Amato, qual è la sua ricostruzione dei fatti?
«La versione più credibile è quella della responsabilità dell’aeronautica francese, con la complicità degli americani e di chi partecipò alla guerra aerea nei nostri cieli la sera di quel 27 giugno. Si voleva fare la pelle a Gheddafi, in volo su un Mig della sua aviazione. E il piano prevedeva di simulare una esercitazione della Nato, con molti aerei in azione, nel corso della quale sarebbe dovuto partire un missile contro il leader libico: l’esercitazione era una messa in scena che avrebbe permesso di spacciare l’attentato come incidente involontario».
Ma le cose andarono molto diversamente.
«Gheddafi fu avvertito del pericolo e non salì sul suo aereo. E il missile sganciato contro il Mig libico finì per colpire il Dc9 dell’Itavia che si inabissò con dentro ottantuno innocenti. L’ipotesi più accreditata è che quel missile sia stato lanciato da un caccia francese partito da una portaerei al largo della costa meridionale della Corsica o dalla base militare di Solenzara, quella sera molto trafficata. La Francia su questo non ha mai fatto luce».
In qualità di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, sei anni dopo la tragedia del Dc9, ebbe mai informazioni dirette dai comandi militari italiani?
«Da principio i militari si erano chiusi in un silenzio blindato, ostacolando le indagini. E quando da sottosegretario alla Presidenza ebbi un ruolo in questa vicenda, nel 1986, cominciai a ricevere a Palazzo Chigi le visite dei generali che mi volevano convincere della tesi della bomba esplosa dentro l’aeromobile. Era da tempo crollata la menzogna del “cedimento strutturale” dell’aeromobile e bisognava sostituirla con la tesi altrettanto falsa del “cedimento interno a causa dell’ordigno”».
Erano in azione i depistatori per nascondere la guerra aerea della Nato.
«Ovviamente mi chiedevo perché venissero a dirmi queste falsità. Capivo che c’era una verità che andava schermata. E la nostra aeronautica era schierata in difesa della menzogna. C’era qualcosa di molto inquietante in tutto questo. Se tanti militari, tutti con incarichi ufficiali molto importanti, dicevano la stessa cosa palesemente falsa dietro doveva esserci un segreto molto più grande di loro. Un segreto che riguardava la Nato».
Perché lei fu investito della questione di Ustica?
«Fu il presidente del Consiglio Bettino Craxi a chiedermi di occuparmene nell’agosto del 1986. La sollecitazione era arrivata dal presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, su pressione di parlamentari e intellettuali. A quell’epoca navigavamo ancora nel buio».
Si dice che Craxi fu infastidito dalla richiesta di Cossiga: ma come, eri tu presidente del Consiglio nel 1980, quando fu abbattuto l’areo, e ora vieni a chiederne conto a me?
«Io ricordo che Craxi era insofferente alle mie perplessità sulle tesi dei generali. Andavo da lui per avere sostegno sui fatti che secondo me le smentivano e lui mi diceva senza mezzi termini che dovevo evitare di rompere le scatole ai militari. Poi mi faceva fare, perché questo era il nostro rapporto. Ma non era contento».
S’è fatta una idea del perché fosse insofferente?
«Avrei saputo più tardi – ma senza averne prova - che era stato Bettino ad avvertire Gheddafi del pericolo nei cieli italiani. Non aveva certo interesse che venisse fuori una tale verità: sarebbe stato incolpato di infedeltà alla Nato e di spionaggio a favore dell’avversario. In fondo è sempre stata questa la sua parte. Amico di Gheddafi, amico di Arafat e dei palestinesi: uno statista trasgressivo in politica estera».
Ma questo vuol dire che Craxi nel 1980 era stato informato del piano Nato?
«Non direi. Forse aveva ricevuto qualche soffiata e ha avvertito Gheddafi. Ma non credo ne sapesse più degli altri. Ho sempre avuto l’impressione che la politica avesse meno informazioni rispetto agli alti comandi militari. C’è una cosa che pensai allora ma non dissi perché facevo parte del ceto politico e poteva sembrare una giustificazione autoassolutoria».
Cosa pensava?
«Non era del tutto irragionevole che i generali, per tenere al sicuro il segreto, si guardassero bene dal condividerlo con i politici. Per il ceto politico le occasioni per parlare sono molto più numerose rispetto al mondo militare. Così i politici vennero tenuti rigorosamente fuori dal perimetro della verità».
La politica non ebbe la forza morale per imporsi sugli apparati che occultavano i fatti. E forse non aveva interesse ad approfondire.
«Questo è certo: non aveva convenienza a sapere fino in fondo. Che cosa avrebbe potuto significare chiarire subito questa faccenda? O che i politici erano stati complici di un delitto orrendo. O che l’apparato della Nato poteva decidere un atto di guerra in tempo di pace senza prendersi la briga di avvertire il ministro della Difesa, violando palesemente la nostra sovranità nazionale. Quindi per la politica significava ammettere di non contare niente. In ogni modo la verità risultava scomoda. Ed era meglio lasciarla sepolta».
Lei perché non fu convinto dalla tesi della bomba?
«Mi ero andato a studiare gli atti della prima commissione ministeriale guidata da Carlo Luzzatti. Le relazioni tecniche avevano escluso fin dal primo momento l’ipotesi di una bomba esplosa all’interno. Tutto, dagli squarci nell’aereo ai brandelli dei sedili, accreditava al contrario la tesi di un impatto esterno con materiale esplosivo. E poi rimasi molto colpito da un altro elemento. Lessi la perizia medica sul corpo dell’aviere libico ritrovato sui monti della Sila il 18 luglio del 1980, tre settimane dopo la tragedia del Dc9: parlava espressamente di avanzato stato di putrefazione. Non poteva essere morto il giorno prima. Perché ce lo volevano far credere le ricostruzioni ufficiali? ».
Quindi quello era il Mig libico contro cui mirava l’areo francese la sera del 27 giugno?
«Avendo intuito il pericolo di tutto quel movimento in cielo, il pilota del Mig s’era nascosto vicino al Dc9 per non essere colpito. Ma tutte le evoluzioni aeree impreviste provocarono l’esaurimento del carburante, per cui il velivolo cadde sulla Sila per mancanza di cherosene. Esiste un’altra versione secondo cui il Mig sarebbe stato colpito dal missile francese e la deflagrazione avrebbe travolto il Dc9, ma questa tesi mi convince di meno».
Lei rese pubbliche le sue opinioni sull’abbattimento del Dc9 a causa di un missile? E sulla coincidenza con la caduta del Mig libico sulla Sila?
«Sì, nel settembre del 1986 andai in Parlamento per rispondere a un’interrogazione fatta al presidente del Consiglio. E fu proprio da quel momento che attirai l’interesse di due mondi contrapposti: da una parte dei generali che venivano a trovarmi a Palazzo Chigi per parlarmi della bomba, dall’altra di un giornalista bravo e ostinato come Andrea Purgatori con il quale sarebbe cominciata una bellissima collaborazione».
Lei prima ha usato l’espressione impersonale: “Si voleva fare la pelle a Gheddafi”. Ma chi? E perché?
«Sul “chi” le ho già detto della presumibile mano francese, che però non può non essere stata autorizzata dagli americani: è impensabile che una sporca azione come questa sia stata progettata mentre i generali americani erano impegnati a giocare a boccette. Sul perché la domanda resta aperta: a distanza di anni non sono riuscito a trovare una risposta».
La Francia era in guerra con la Libia nel Ciad. E gli americani guardavano con sospetto a Gheddafi per le sue relazioni con il terrorismo internazionale. Sono ragioni sufficienti?
«Nella prassi delle nostre relazioni internazionali, nella stessa prassi delle vicende oscure, contrasti e conflitti di questo genere non portavano ad azioni così dirette e clamorose».
Lei ebbe un ruolo anche nel recupero del relitto, finanziando nell’87 l’impresa. Ma questo lavoro venne affidato a una ditta di Marsiglia legata ai servizi segreti francesi, la Ifremer. Una decisione che oggi appare improvvida. Perché questa scelta?
«La scelta della ditta non dipese da me, essendo di competenza del giudice che allora faceva l’indagine, il dottor Vittorio Bucarelli. Con quel magistrato ebbi un rapporto piuttosto burrascoso. Qualche anno dopo sarebbe arrivato a querelarmi. Davanti alla commissione stragi, nel 1990, dissi che esistevano delle fotografie del relitto scattate dagli americani prima del recupero, circostanza di cui ero stato messo al corrente proprio dal giudice Bucarelli. Ma questi negò di avermelo detto. E davanti alla mia insistenza decise querelarmi, lasciando il suo incarico».
Diciamo che a dieci anni dalla tragedia, anche a causa dei numerosi depistaggi e delle resistenze dei militari, l’inchiesta giudiziaria non aveva fatto passi da gigante.
«Dopo sarebbe arrivato Rosario Priore, un bravissimo giudice istruttore con cui ebbi una forte intesa. Ma anche Priore dovette fermarsi sulla porta della Nato. Insieme maturammo la convinzione che bisognava rivolgersi ai governi dei paesi coinvolti nella guerra aerea. Così, tornato nel Duemila a Palazzo Chigi in veste di presidente del Consiglio, su richiesta di Priore scrissi ai presidenti Clinton e Chirac sollecitandoli a fare luce sulla tragedia area. Ne ebbi risposte gentilissime che mi rimettevano agli organi competenti. Ma più tardi non avrei saputo nulla. Silenzio totale».
Anche Priore propendeva per la tesi della responsabilità francese?
«Sì, andava in questa direzione. Non a caso concordai con lui la formulazione delle lettere a Clinton e Chirac».
La tesi della mano francese ebbe nuova linfa da Francesco Cossiga. Nel 2008, dopo quasi trent’anni di silenzio, disse di aver saputo della guerra aerea e del missile francese dall’ammiraglio Martini, capo del Sismi, i servizi segreti militari. In quella circostanza la coinvolse, raccontando che all’epoca – seconda metà degli Ottanta - Martini aveva informato anche lei, in veste sottosegretario alla presidenza.
«No, accadde esattamente il contrario. Fulvio Martini era uno di quei generali che venivano a trovarmi con assiduità per convincermi della bomba a bordo. Fu però lui a mettermi in guardia sull’opportunità di affidare alla ditta di Marsiglia il recupero del delitto: forse proprio perché sapeva della responsabilità dei francesi. Ma a me non lo disse».
Perché allora Cossiga scelse di coinvolgerla?
«È difficile trovare una risposta. Aveva disturbi bipolari, era un uomo di forti sofferenze e grandi intuizioni. Sono stato a lungo testimone e riequilibratore delle sue intemperanze: cercando di proteggerlo da sé stesso ho anche visto le sue bizzarrie. Devo dire che con quella deposizione nel 2008 diede un grande contributo al raggiungimento della verità. E invece nulla poi è accaduto».
Tra fedeltà alla Costituzione e fedeltà alla Nato in tutti questi anni è prevalsa la seconda?
«Purtroppo sì. E questo non dovrebbe accadere perché la Nato sta dentro l’articolo 11 della Carta, quindi dovrebbe operare in modo da realizzare pace e giustizia fra le Nazioni. Qui invece cosa è successo? Un apparato costituito da esponenti militari di più paesi ha negato ripetutamente la verità pensando che il danno sarebbe stato irrimediabile per l’alleanza atlantica e per la stessa sicurezza degli Stati. E quindi tutte queste persone hanno coperto il delitto per “una ragion di Stato”, anzi dovremmo dire per “una ragion di Stati” o per “una ragion di Nato”. In base alle regole della ragion di Stato, il crimine forse sarebbe stato meno grave se fosse stato soppresso il leader libico, che era l’obiettivo dell’azione militare. Ma invece sono stati uccisi ottantuno innocenti passati lì per caso. E quindi resta un delitto gravissimo».
Ha senso continuare a coprirlo?
«È questo il punto. Non giustifico e tuttavia comprendo le spinte che allora portarono all’occultamento della verità, ma quarant’anni dopo è difficile da capire. Ci guadagna la Nato ad apparire ancor più disumana, nascondendo ancora una tragedia del genere? ».
C’è ancora chi sostiene la tesi della bomba.
«Sì, tra loro Carlo Giovanardi, sempre impavido. Ma se allora non ci credevo, oggi mi cadono le braccia. Sono patetici».
Quella del Dc 9 è una tragedia costellata da morti oscure, suicidi, forse omicidi travestiti da incidenti. Alcuni testimoni sono scomparsi in circostanze misteriose. E – sempre secondo il racconto di Cossiga – anche il pilota francese che ha sganciato il missile si sarebbe suicidato perché schiacciato dai sensi di colpa.
«Tanto più è fitto un mistero, quanto più l’enigma inghiotte episodi che magari nulla hanno a che vedere con la vicenda ma inevitabilmente acquistano una connotazione sinistra. Per dipanare la matassa bisognerebbe fare luce su ciò che realmente è accaduto».
Che cosa si aspetta dalla Francia?
«Mi chiedo perché un giovane presidente come Macron, anche anagraficamente estraneo alla tragedia di Ustica, non voglia togliere l’onta che pesa sulla Francia. E può toglierla solo in due modi: o dimostrando che questa tesi è infondata oppure, una volta verificata la sua fondatezza, porgendo le scuse più profonde all’Italia e alle famiglie delle vittime in nome del suo governo. Il protratto silenzio non mi pare una soluzione».