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 2023  settembre 01 Venerdì calendario

Intervista a Tamberi

Re Federer entra allo stadio per la sua gara. Tralascia gli Us Open per gli ultimi fuochi dell’uomo che è saltato su tutto e sta per chiudere la sua stagione. Un’ultima apparizione (lunedì a Bellinzona) e poi in vacanza, prima con un amico, poi al caldo con la moglie Chiara. All’orizzonte nel 2024 Europei di Roma e Giochi di Parigi. Gianmarco Tamberi, barba non fatta, 31 anni, l’anno scorso venne al Weltklasse di Zurigo per la prima gara da marito e vinse la Diamond League con 2.34 in piazza sotto la pioggia. Questa volta la serata è fredda, 17 gradi, Tamberi sembra scarico e impreciso, 9 salti per dire addio: un errore a 2.24 e a 2.28, altri due a 2.31 si tiene il terzo tentativo per 2.33 ma abbatte l’asticella e chiude quarto. Vince l’amico Barshim con 2.35.
La vogliono come nuovo testimonial delle Marche.
«Mi farebbe molto piacere. Adoro le Marche. Non le ho mai lasciate.
Sono casa mia, ci vivo, mi ci alleno, ci sto bene, mi sono sposato a Pesaro, sto costruendo la nostra casa appena fuori Ancona. Sarei onoratissimo».
Ma la vorrebbero al posto dell’ex ct Mancini.
«Non mi esprimo sulla sua scelta. E non penso sia una questione via uno avanti un altro. Potremmo essere in due a fare da testimonial, non c’è niente di male».
Ancora una condivisione?
«Tranquilli, alle prossime Olimpiadi non ci sarà nessuna replica. Io e Barshim abbiamo condiviso l’oro una volta. Basta e avanza, non sarebbe più una sorpresa. Ma non mi sento in colpa per averlo fatto. Non ho rimpianti, non penso mai potevo essere solo io, quel momento a Tokyo è stato il coronamento di un’amicizia, anche se nella rivalità. Mi resterà per sempre il sentimento di aver volato con un ragazzo che mi è caro e con cui ho condiviso momenti belli e brutti della vita. Io e lui con le nostre mogli andiamo spesso a cena e siamo sempre in contatto.
Quando stavo male e non aprivo la porta a nessuno lui ha avuto la pazienza di bussare e ribussare, non ha permesso che restassi solo.
Siamo persone, queste cose contano. Tra l’altro ai Mondiali di Budapest nel salto con l’asta l’australiana Kennedy e la statunitense Moon hanno condiviso l’oro dicendo che non sapevano si potesse fare, ma che si ricordavano di noi a Tokyo e ci hanno imitato».
Sogna sempre di volare?
«Sì e nei miei sogni non ci né sbagli né incidenti. Tutto va sempre bene e questo aiuta quando mi sveglio.
Sogno anche di volare a quota record. Solo una volta dopo Tokyo ho avuto un incubo: perdevo, mi rubavano la medaglia. Mi sono alzato agitato e tutto sudato».
La mettono in classifica tra i più grandi: Consolini, Mennea, Simeoni.
«Mi piace chi resiste, chi si migliora, chi fa sacrifici, chi non si abbatte quando tutto va male, chi lotta sempre, chi c’è nei momenti difficili, chi è insistente e consistente. L’ho già detto è un privilegio stare in cima con questi nomi, ma io voglio salire di più, il mio record è 2.39, realizzato a Monaco nel 2016 nella sera in cui mi frantumai la caviglia. A Budapest ho fatto 2.30 inriscaldamento, non mi era mai capitato. Ero pronto a saltare 2.40, mi sentivo bene, ma sì ho troppo festeggiato il Mondiale che mi mancava, vuoi togliermi l’euforia e quel po’ di pazzia che mi ha fatto celebrare il titolo con tutto lo stadio? Poi ho provato il 2.40, ma ero svuotato. Mi dicono: non sai stare solo. Non è vero, io cerco sempre di alzare l’asticella. Se ho avversari che mi spingono meglio,ma se non li ho chiedo aiuto al pubblico. Non si tratta solo di essere un performer, ma di sentire la spinta di tutti. Scusate ma negli sport di squadra esiste il fattore-campo, il vantaggio di giocare in casa. Io quello voglio, che ogni pedana sia casa mia. Al giavellottista indiano Chopra, che si lamentava di non avere fan, gli ho detto di stare tranquillo, ci avrei pensato io a infuocare lo stadio».
È vero che piange quando guarda la medaglia di Tokyo?
«Lo faccio raramente, una o due volte l’anno. E sì mi prende la commozione. Cinque anni di attesa, di dieta, di dubbi, di recupero da due operazioni chirurgiche. A Tokyo ero 11 chili sotto il mio peso. Io non voglio sedermi, guardare indietro, ma trovare ogni volta la motivazione per riaccendersi è dura. Sono venuto a Zurigo perché l’avevo promesso, perché c’è un pubblico che partecipa e credo sia giusto restituire emozioni. Soprattutto noi che siamo privilegiati nel vivere grandi momenti. Guardare avanti, certo. Ma se lo faccio non mi godo niente e non è giusto».
Sogna il ritiro?
«Sogno il momento in cui la mia carriera sarà finita. E io potrò ripensare e rivedere tutto quello che ho fatto. Dolcemente. Con calma. E lasciarmi andare alle emozioni. Senza dovermi preoccupare della tecnica o di non rifare gli stessi sbagli. Detto questo a Parigi vorrei riconfermarmi campione olimpico. Nell’alto nessuno è mai riuscito a vincere due ori».
Cosa deve avere un campione per piacerle?
«Gli occhi cattivi di Ivan Zaytsev quando schiaccia, la capacità di essere sempre sé stesso senza mai rallentare di Valentino Rossi, la volontà di rialzarsi, anche se piene di cicatrici di Sofia Goggia e di Lindsey Vonn. Senza dimenticare Paltrinieri, Pellegrini, Vezzali, Di Francisca. Mi piace chi vuole lasciare un segno, dire al mondo: io sono arrivato qui. Provate a prendermi, sarò il primo ad applaudirvi».