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 2023  settembre 01 Venerdì calendario

Marcello Fois ricorda la sua Murgia

Premetto che, a differenza della mia amata sorella d’anima, e anche fidanzata “in pectore”, Chiara (Valerio), io non parlerò di Michela al futuro, bensì al presente. Con quella bella capacità che ha questo tempo verbale di apparire contemporaneo e storicizzato allo stesso tempo. La prima domanda è: perché io e Michela siamo così amici? Direi meglio: così parenti? Tranne la Sardegna non ci accomuna niente. Ma anche sulla Sardegna starei cauto, perché le Sardegne sono tante e tra Cabras e Nuoro c’è grosso modo la stessa distanza che c’è tra Cuneo e Varazze. Ma non mi dilungherò su questioni etniche, per Michela essere sardi non è un privilegio. E su questo siamo assolutamente d’accordo. Ma come si declini questo punto di vista è sempre stato, tra noi, materia del contendere.
Quando scrive Viaggio in Sardegna per esempio si prende la responsabilità di una guida non autorizzata, cioè, con la sua solita baldanza, noi nuoresi diciamo “barrosia”, decide di essere abbastanza autorevole da non descrivere solo quello che la Sardegna è, ma soprattutto, quello che lei vede della Sardegna. Un’esperienza di grande e sapiente presunzione che riescono a sostenere solo quegli scrittori che hanno le idee chiare a proposito del progetto che intendono portare avanti nel tempo. Cioè: Michela Murgia è nata imparata. E questo può certamente irritare, ma è un dato di fatto. Le sue opinioni sono frutto di un punto di vista certo. Lei ha certezze. E questo spaventa. Lei è un’intellettuale troppo narcisista per rischiare di essere organica. È una progressista nel senso naturale del termine, una che crede al progresso solo se può parteciparvi in prima persona. È un’antifascista etimologica, una cioè che preferisce vedere fascismi dappertutto che evitare di vedere i palesi fascismi in corso. È una donna di fede che non usa la fede sugli altri, ma su se stessa. È una narratrice straordinaria, ma discontinua, perché il fascino del mondo in essere per lei è sempre più forte dell’isolamento che il narrare comporta.
Accabadora è il frutto di un sapiente lavoro di training autogeno, anche favorito dalla pazienza di chi le sta attorno, perché lei pretende che le storie abbiano lo stesso metabolismo della vita reale, ma è troppo impaziente per accettare l’idea che la finzione letteraria, proprio in quanto finzione, ha bisogno di tempo perché sembri reale.
Michela Murgia ha una forma di pigrizia mentale che dipende dalla constatazione che la sua potenza elaborativa molto al di sopra della media possa bastare a risolvere qualche problema tecnico, come il dover aspettare la frase perfetta. Per questo per anni si rifiuta di fare narrativa. È probabile che intuisca il tempo limitato che le è concesso e dunque seleziona le sue priorità. Preferisce la parola “attivista” alla parola “scrittrice”, dice che fare la scrittrice è solo uno dei tanti sistemi che lei mette in campo per esercitare l’attivismo. Lei è attiva. È una mistress con tanto di frusta e corsetto di pelle. Per questo attira l’odio, e gli attacchi, troppo viscerali per essere semplicemente divergenza di opinioni, di maschi al potere che si riconoscono come vittime e, segretamente, assaporano il fascino di quella frusta. Per questo attira l’odio di donne di potere che non hanno inquadrato, o l’hanno inquadrato fin troppo bene, il prezzo di quel potere, che troppo spesso è solo l’ennesima estensione della loro inferiorità.
Michela Murgia è una cartina al tornasole: si reagisce in sua presenza, si reagisce alle sue parole, si reagisce persino ai suoi silenzi. È una provocatrice maledetta che mi toglie il sonno. Dice cose apparentemente istintive, che istintive non sono. Perché sul Presente lei è imbattibile, ha una immediatezza di percezione che sfiora, e qualche volta supera, la velocità della luce. Per questo irrita certi nostri intellettuali progressisti dal metabolismo lento e ontologicamente guardinghi. Come quando ci mette in guardia dall’affidare la vita civile agli uomini in divisa e non solo da quelli che dovrebbero salvare la Patria dai nemici, ma anche da quelli che scrivono best seller. Michela Murgia ha canali di preveggenza che vanno da Figliuolo a Vannacci. Lei è la bambina che urla «ma il Re è nudo» costringendo il fior fiore del giornalismo nostrano, siano padri della carta stampata, siano rampanti opinionisti giovanili, a scivolare su termini tipo “cesso a pedali”, “diversamente magra”, “rutto”, pensando che basti la loro povertà metaforica per sanare il gap che li separa tra quello che sono e il lavoro che fanno. È anche una che sui social suscita il rigurgito mefitico di una percentuale di leonesse da tastiera, soprattutto donne dai 45 ai 60 anni, che la insultano nel perfetto anonimato intuendo quanto lei, e le tantissime donne come lei, rappresentino il loro fallimento totale. Michela Murgia è una che tiene ai lemmi, che usa le parole per quello che significano e non per quello che suscitano. A chi balbetta o critica la parola “femminicidio” lei spiega che non è gratuita o inutilmente femminista, ma persino normativa e che marca la differenza tra morire per cause varie (rapina, attentato, malasanità, eccetera) e morire per possesso e per essere specificatamente femmina. La sua magnifica pedanteria è quel sasso che smuove lo stagno.
E, caspita, ha una memoria prodigiosa, ha studiato in meno di una settimana il copione di Quasi grazia e l’ha portato in scena, come una perfetta professionista per decine di repliche. Ma vorrei tornare alla domanda iniziale. Perché io e questa donna ci amiamo, qualche volta persino ci odiamo, tanto? Michela è una che sa finalizzare il tempo che resta. Di fronte a un incidente come la malattia terminale lei si fa una botta di conti e si butta a capo fitto sulla questione della Queer family, a me piace definirla famiglia per scelta, cioè l’idea che uno stato democratico e progressista, non dunque l’attuale, debba prendersi in carico di tutelare la felicità dei suoi cittadini prima di ogni altra cosa e cioè di assicurargli la libertà di costruirsi un apparato affettivo che li appaghi aldilà delle strutture tradizionali, che, chiaramente, garantiscono la felicità solo ai privilegiati.
Nella sua famiglia per scelta io ci sono da prima che venisse formulato ufficialmente il concetto. Conosco i suoi due figli d’anima maggiori, persone adorabili, dunque nella famiglia queer ci sono finito per “chiara fama” o per anzianità, come un vecchio zio che abita lontano e che di tanto in tanto si palesa colmo di autorevolezza. Io della famiglia queer ho capito che scegliersi i compagni di viaggio, e persino i coinquilini giusti, è sempre un privilegio che costa caro. Ma procediamo con questo esercizio di esplorare il paradosso della nostra colleganza parentale. Dunque: Michela adora il gruppo musicale BTS che io, absit iniuria verbis (sia detto senza offesa), detesto; ha una propensione all’apparire che a me terrorizza; ha una capacità di vedere il risvolto delle cose che io acquisisco solo in due tre mesi di riflessione; un’attitudine a beccarti sempre in castagna che spesso è disturbante; una passione costante anche per faccende apparentemente ininfluenti che mi spiazza; ha una capacità di relazione che invidio; ha conquistato una tranquillità per il suo corpo, talmente adatto a lei da essere lei, che io, tra pancetta, calvizie, strabismo, non conquisterò mai; ha entusiasmi che io ho il compito scientifico di spegnere, che la costringono a darmi ragione a denti stretti; è una che ha sperperato un sacco di soldi anche a favore di chi non se lo meritava affatto, io tendo ad essere più cauto, ma ho una famiglia tradizionale da mantenere. Sono differenze sostanziali, ma l’accettazione delle differenze non è nient’altro che uno dei sistemi più complessi e impegnativi per conoscersi e apprezzarsi, vero Michela? Pane per i nostri denti. A presto dispettosa.