Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  agosto 31 Giovedì calendario

Biografia di Gaspara Stampa


«Arsi, piansi, cantai; piango, ardo e canto; piangerò, arderò, canterò sempre». E anche: «Amor m’ha fatto tal, ch’io vivo in foco». È, il fuoco, l’elemento dominante dei sonetti e della personalità di Gaspara Stampa, bella e colta poetessa che ha regnato sulla Venezia del Cinquecento. Un fuoco che la spinge a «vivere intensamente» e a provare «gran sete amorosa». Si paragona infatti alla salamandra, l’animale mitico che sarebbe in grado di attraversare indenne attraverso le fiamme. E all’araba fenice, che rinasce dalle proprie ceneri. Post fata resurgo, «Rinasco dopo la morte». Al contrario di quel favoloso bestiario, però, Gaspara finirà per soccombere alla troppa passione.
LE ORIGINI
La futura poetessa nasce a Padova intorno al 1523: la sua, benché decaduta, è una famiglia di origine nobile. Il padre Bartolomeo – commerciante di gioielli – muore prematuramente, per cui la madre, Cecilia, decide di tornare a vivere nella natia Venezia insieme a lei, sua sorella Cassandra e suo fratello Baldassarre. Ai bambini viene impartita un’educazione completa che comprende il latino, il greco, la letteratura, la grammatica, l’arte, la musica. Il precettore è Fortunio Spira, amico dell’Aretino e di Bernardo Tasso, mentre l’insegnante di musica è il compositore Perissone Cambio.
Gaspara cresce in venustà e talento, i suoi fratelli non sono da meno e il loro salotto diviene uno dei più rinomati della Serenissima, la potente, onirica, colta, raffinata e libertina città sulla laguna. A casa Stampa confluiscono artisti, intellettuali, musicisti che rimangono estasiati vedendo quella fanciulla abile nel suonare il liuto, cantare rime petrarchesche e comporre versi. Arrivano Francesco Sansovino, figlio dell’architetto Jacopo, e Girolamo Parabosco, organista a San Marco, che scrive di lei: «Chi vide mai tal bellezza in altra parte? Chi tanto grazia? E chi mai sì dolci maniere?... Potete adunque, bellissima signora Gasparina, esser sicura ch’ogni uomo che vi vede, v’abbia da rimaner perpetuo servitore». Benché i corteggiatori non le manchino, la fanciulla rifiuta le proposte di matrimonio, perché vuole vivere come più le piace.
IL NUOVO NOME
Con suo grande dolore nel 1544 perde il fratello Baldassarre, che si era dimostrato un valente poeta. Pur tuttavia, la brillante vita veneziana torna presto ad assorbirla. A poco vale il richiamo di Suor Paola Antonia, che da Milano le scrive definendola «spirito formato in Paradiso» e la mette in guardia dagli adulatori e dalle pratiche pericolose, condannate dalla Chiesa, invitandola a mantenersi onesta e a non far «delle sue grazie un idolo».
Così come non ha paura di vivere, Gaspara non ha paura di amare né di condurre un’esistenza libera e fuori dagli schemi. A un certo punto, entra a far parte dell’Accademia dei Dubbiosi e prende il nome di Anasilla, che deriva dal nome latino del Piave, Anaxus. La scelta si lega al sentimento: si è infatti innamorata del conte Collaltino di Collalto, il cui feudo familiare è appunto attraversato dal fiume. Si tratta di una fiamma che arde più da parte di lei, venticinquenne, che di lui, poco più grande. Il conte, diplomatico e uomo d’armi, è un letterato, ma la sua innamorata lo supera di gran lunga. Se Collaltino è il metaforico “detonatore”, la miccia che accende i sensi e la creatività di Gaspara, l’uomo che ne stuzzica «lo stile, l’arte, l’ingegno, sensi, pensier, alma e core», resta il fatto che talento e bravura sono tutti della ragazza. Che dedica gran parte delle sue Rime – su modello petrarchesco – all’amato bene. «Io benedico, Amor, tutti gli affanni», scrive colei che si fa chiamare Anasilla, con parole che ricordano Saffo.
Reticente, pavido e ambiguo come sanno essere a volte gli uomini di fronte alle storie troppo intense, il conte resta freddo e distaccato, poi fugge in Francia. Per Gaspara è un trauma, un dolore che sfocia in una crisi spirituale. «Rimandatemi il cor, empio tiranno» e «la vita mia è un morir’ espresso», scrive. In seguito, si innamora di Bartolomeo Zen. E in un sonetto ammette: «Un foco eguale al primo foco io sento e, se in sì poco spazio questo è tale, che de l’altro non sia maggior; pavento. Ma che poss’io, se m’è l’arder fatale, se volontariamente andar consento, d’un foco in altro, e d’un in altro male?». Il suo modo di vivere scandalizza la pur libera società, tanto che in seguito verrà additata quale cortigiana. In realtà non ci sono prove in tal senso. Come ricorda l’Enciclopedia delle donne, Maria Bellonci – che nel 1954 redigerà l’introduzione alla ristampa delle Rime – dichiarerà che la sola “verità vera” è dimenticare ogni illazione, lasciandosi trasportare dal «valore poetico dei versi di questa giovane donna».
LA MORTE
Oltre a essere talentuosa, Gaspara è vitale e coraggiosa e si dona con intensità. «D’arder e d’amar io non mi stanco». Arde così tanto che il 23 aprile 1554 muore prematuramente, dopo giorni di febbri e dolori. Veleno? Sfinimento? Suicidio? Le ipotesi sono tante. Quanto meno, però, lei ha saputo «viver ardendo e non sentire il male». Parole così belle che ispireranno d’Annunzio per il suo romanzo Il fuoco.