Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  agosto 31 Giovedì calendario

A 15 anni della morte di Foster Wallace

È un’epoca che da lontano non si vedeva, o si vedeva ancora poco e male: un’epoca in cui la gente «non fa altro che muoversi in branco da un posto con l’aria condizionata all’altro». Un’epoca in cui «costa fatica dedicare più di pochi secondi di attenzione a un qualsiasi stimolo»; in cui «concentrarsi intensamente su qualcosa è un lavoro duro». Un’epoca di cazzeggio ininterrotto, di intrattenimento quasi coatto; di cerotti medicati e psicofarmaci, di pannoloni per adulti. Un’epoca in cui chiunque è in cerca di «qualcosa con cui rilassarsi». Una specie di dipendenza dal relax, una tossicodipendenza a tutti gli effetti: perché la paura, l’ansia, qualche volta la voglia di morire, vengono combattute per via di una infiltrante Industria dell’Intrattenimento.
C’entra anche l’improvvisa popolarità del “videofono”, un video-telefono, che allo stesso tempo eccita e deprime gli utenti, anzi più precisamente li stressa emotivamente. Lo “stress videofonico"! «Era anche peggiore se si era in qualunque misura vanitosi. Cioè, se ci si preoccupava anche solo un po’ di come si appariva. Cioè agli altri. Quindi, non scherziamo, tutti». Il turbamento – definito su due piedi “disforia video-fisiognomica” – viene combattuto, nell’epoca di cui parliamo, dal “Mascheramento ad Alta Definizione”. Filtri! Più analogici che digitali, ma d’altra parte chi ha visto anzitempo l’epoca di cui stiamo parlando, l’ha vista nel 1996. L’ha vista e raccontata in un romanzo mostruoso in termini di mole, Infinite jest, che fa concorrenza, con le sue 1250 pagine, a It di Stephen King. L’autore, allora poco più che trentenne, si era già fatto notare abbastanza con i primi, eccentrici racconti. Illuminati dal neon del postmoderno e scaldati da una capacità empatica fuori dal comune. Una capacità, per meglio dire, impressionante di contatto con gli altri (anche solo immaginati) e con le loro psicologie fragili, minate dall’ansia.
Era, David Foster Wallace, che nel settembre di quindici anni fa si tolse la vita, un esploratore – dotatissimo intellettualmente e emotivamente – dei tempi «chimicamente tormentati» che non avrebbe vissuto fino in fondo. Ha scelto di andarsene prima che i social esplodessero a ogni latitudine. Ma la verità è che li aveva già visti. Di più: li aveva capiti. Dubito che Mark Zuckerberg sia fra i lettori di Infinite jest: d’altra parte, in quanto libro che va o andava di moda, usava esibirlo più che leggerlo. È di quei volumi che si espongono sui tavolini di un caffè. Si mostrano, si citano, ma non è detto che si leggano. E in effetti non si può dire che sia facile attraversare questa contemporaneissima Recherche: è così fitta ogni pagina, così raddensata, così fulminei i passaggi – da personaggio a personaggio, dalla fiction alla speculazione, dal romanzesco al metaromanzesco (con tanto di note a fine capitolo!) – che perdersi non è improbabile. Di certo dà la misura di cosa sia in grado di produrre una mente al lavoro: per 1250 pagine vedi, senti cosa vedeva e sentiva DFW, cosa sapeva immaginare, intuire, elaborare in termini di «poesia in movimento», e di chinarsi su un ragazzino di dieci anni che vorrebbe essere un campione di tennis, in uno sfatto impiegato di mezza età, in un metallurgista transuranico postdottorale, in un tossico che non è più il ragazzo brillante e solido che era stato considerato. Una ragazza triste alla fine di una festa.
Torno a sfogliare Infinite jest e sono preso da una strana commozione. Pur rendendomi di nuovo conto della sua oggettiva difficoltà (sì, è un romanzo difficile! E Martin Amis, nel suo romanzo d’addio, ha decretato che i lettori dei romanzi difficili sono morti), pur rendendomi conto di quale sforzo richieda al lettore, avverto quasi a ogni pagina lo sconvolgente talento umano, prima ancora che letterario, che guida DFW nel captare i dettagli di quella che chiamiamo realtà. I segmenti, le stille, i lampi di una realtà terrestre che l’umano abita, nonostante tutto, a fatica. Sentendo ogni giorno, poco prima del buio, come una vertigine, la possibilità di sfaldarsi, di implodere, di cedere. La possibilità di non farcela. Per sopravvivere emotivamente, in qualche modo anestetizzati, nell’epoca prefigurata da Wallace, quasi ogni istante è occupato da una qualche forma di intrattenimento. Non è una distopia, come si suppose nel 1996, all’uscita del libro. È un’intuizione folgorante, una epifania che trova nel futuro – ovvero nel nostro oggi – la sua prova definitiva. E a differenza dei sociologi contemporanei, o di noi stessi quando ci improvvisiamo sociologi, non c’è moralismo: non c’è lo spirito bacchettone – «Ah, che tempi! Ah, i giovani d’oggi! Stanno tutto il tempo sui social!». Non c’è perché non può esserci; e soprattutto perché non deve esserci: per Wallace la narrativa, che è una forma di conoscenza, non è lo spazio del giudizio ma della comprensione. «Dire che tutto questo è un male è come dire che il traffico è un male».
Lo scrittore geniale morto quindici anni fa, nemmeno cinquantenne, ci aveva già messo a fuoco tutti, ci aveva visto. E in qualche modo compreso: eccoci là, «seduti a stabilire contatti», o a sforzarci come bambini impazienti nella ricerca di un po’ di concentrazione, assediati da stimoli continui, che ci cercano e che cerchiamo. Wallace era già stato su TikTok con tre decenni di anticipo: pubblicità subdole che si infilano dove non le vedi, coreografie di massa, «un mondo galleggiante di non-spazio e di visioni private», video che alimentano la passione di assistere alle cose che succedono in diretta. Live! Gli ingorghi virtuali dei curiosi davanti agli incidenti stradali, alle esplosioni, agli scippi, alle tragedie altrui. «Il cameratismo e la comunione anonima di far parte di una folla di spettatori», una massa di occhi nessuno dei quali è davvero a casa propria. Aiuto! «Giocolieri, freak, maghi, mimi, predicatori carismatici». Accattoni, leader politici. Uno spettacolo, un gioco, uno scherzo infinito, come dice il titolo del romanzo: il ritratto in anticipo di una società intrappolata nell’intrattenimento continuo, e in una ironia sinistra, spalmata a piene mani su tutto e dappertutto, «un semplice strumento di discorso sociale, che non provoca più nessun cambiamento, è solo un modo fico di fare, di parlare e di agire, di prendere in giro tutti, te compreso, con la paura folle di essere preso in giro». Tornate un momento sui social, e ditemi se non è così.