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 2023  agosto 31 Giovedì calendario

Colloquio con Sandro Veronesi

È livida la notte che vede partire un gruppo di ventenni veneti, napoletani, sardi, toscani, verso un viaggio che sarà la loro morte. È livida la guerra che manda una generazione a morire mentre cerca di farsi coraggio con quel che si può: una canzone, un ricordo, una croce, uno scherzo, un corno di corallo, i nomi delle torte preferite o le patatine fritte «come le fanno in Belgio».
Eppure c’è, nel film Comandante che ha aperto l’80esima mostra del Cinema di Venezia, una tenerezza del tutto inattesa. E così, una storia potente che potrebbe essere il perfetto avvio dell’era del cinema «sovranista» – se si pensa che il protagonista è un eroe della Regia Marina italiana ai tempi del fascismo – diventa di fatto il suo contrario. Sovverte lo schema dell’eroismo di guerra in nome di un principio più alto di qualsiasi ordine o regola di ingaggio. Nel 1940, Salvatore Todaro, comandante 32enne del sommergibile Cappellini, sopravvissuto a un incidente che lo costringe a tenere un busto tutto il giorno per la frattura della colonna vertebrale, costantemente in preda a dolori fortissimi, compie un gesto che ferma la guerra per 48 ore: tende la mano e salva il nemico.
Perché in mare, in mezzo alle onde fredde che tolgono il respiro e tirano giù, nessun essere indifeso può essere considerato un nemico. Neanche se ha cercato di ammazzarti. Neanche se ha ucciso il migliore dei tuoi uomini. «Noi affondiamo il ferro nemico senza pietà, ma l’uomo lo salviamo», dice Todaro. «Non ti riconosco, semo in guerra Tore», gli dice l’amico fraterno che per placare il dolore delle notti insonni gli parla nel veneziano della sua infanzia. «Semo ancora uomini però», è la risposta. Che non ammette cedimenti Se Edoardo De Angelis e Sandro Veronesi avessero inventato questa storia per sovvertire lo schema e riportare una civiltà imbarbarita alla nobiltà delle sue origini, non avrebbero potuto trovare principi e parole più perfetti di quelli scovati nel baule di un’amica, Jasmin Bahrabadi. Che è qui a Venezia con la madre ottantenne perché sua madre è Gabriella Marina Todaro: la figlia che il Comandante non ha visto nascere, ma che sapeva sarebbe arrivata.
Veronesi racconta le coincidenze che hanno portato alla sceneggiatura, al romanzo, a nuove sceneggiature e poi finalmente al film, con l’incanto di chi si è lasciato trasportare da una storia che diceva tutto quel che serviva dire, adesso. E parte da un paradosso: «Se non ci fosse stato il 2018, se non ci fosse stata la guerra alle Ong e non avessi mollato la scrittura di un libro importante perché, molto semplicemente, non riuscivo a dormire la notte, probabilmente né io né Edoardo avremmo notato le parole del generale di Marina Giovanni Pettorino sul comandante Todaro. Non avremmo scoperto che nella stessa chat in cui ci scambiavamo informazioni sul soccorso in mare c’era sua nipote. Non saremmo andati a casa sua, non avremmo letto quelle lettere e scoperto quanta umanità si celasse dietro quell’atto eroico che nella Marina conoscono, ma che molti di noi avevano dimenticato. Non avremmo scoperto la dolcezza, di questa storia, e non l’avremmo saputa raccontare».
Non c’era ancora la guerra in Ucraina, quando tutto questo accadeva. Chi ha lavorato alla preparazione del film non poteva immaginare quanto vicina avremmo sentito la paura delle armi e della guerra dopo anni a pensare che mai più sarebbe tornata nel cuore dell’Europa. A un passo da noi e dalle nostre vite. «La frase che abbiamo messo in esergo, quella di un soldato russo salvato da un comandante ucraino nel Pacifico del Sud a marzo 2023, dice però quanto il messaggio di Comandante sia attuale», spiega Veronesi. Così eccolo, l’esergo: «In mare, siamo tutti alla stessa distanza da Dio, a distanza di un braccio. Quello che ti salva».
Così questo – racconta chi l’ha scritto – «non è un film per la destra o la sinistra. Questo è un film per tutti. Perché nel mare quello che viene salvato la prossima volta sei tu. I belgi, gli inglesi, capiscono subito che quando alla domanda “perché l’hai fatto?” Salvatore risponde: “Perché siamo italiani”, non c’è alcun senso di superiorità nelle sue parole. Significa: perché siamo uomini».
Ci sono, in Comandante, il crogiuolo dei dialetti che mostra cos’era, allora, un equipaggio. C’è la promiscuità di giorni settimane mesi vissute ventimila leghe sotto i mari. C’è la tenerezza della mano sulla fronte di chi sta morendo, il futurismo di chi spera: «Un giorno le macchine ragioneranno e forse faranno meglio degli uomini», il coraggio di chi va a morire per salvare i compagni benché sappia che è ancora per poco. «C’è la voce dell’infermiera, all’inizio del film, perché lei – che parla con gli ufficiali medici e sa cos’è la guerra – è la voce della modernità. Di chi sa cosa sta per accadere a quei ragazzi che Todaro, che allora aveva 32 anni, porta da fratello maggiore a morte quasi certa con la dignità di persone già mature. Come se non gli stessero rubando la vita. Quando l’abbiamo scritta pensavamo: e infatti di guerre così non se ne sono fatte più. E quando la Russia ha invaso l’Ucraina ci siamo interrogati: possiamo ancora raccontarla, questa storia, come se appartenesse solo al passato? Potevamo. Perché è una storia compiuta che quel che ha intorno non può intaccare».
Neanche la politica. «È tornato un governo di destra che mentre scrivevamo non c’era. La situazione nei confronti delle navi di soccorso è cambiata due o tre volte. Ma quello che continuo a chiedermi è sempre: da dove viene, questa regressione? Che non ha un valore di riferimento neanche a destra, perché il superomismo i salvataggi li dovrebbe esaltare. Quando ero ragazzo navigavo per diporto, una volta mi è capitato di salvare, una volta di essere salvato. Se a quel ragazzo lì qualcuno avesse detto: tra 40 anni dovrai creare un comitato per difendere questo diritto, il diritto al soccorso in mare, non ci avrebbe creduto. È una legge millenaria, giusto un pirata può infrangerla. Non un governo».
Quel ragazzo non ci avrebbe creduto perché pensava che il mondo fosse destinato a progredire. «Nel ’78 – ricorda Veronesi – Andreotti, Zamberletti e Cossiga mandarono due incrociatori italiani a salvare i boat people che arrivavano dal Vietnam e di cui nessuno voleva sapere niente. Mille persone. Le portarono qui a Venezia e in queste zone vivono ancora i loro discendenti. Com’è possibile che noi, che veniamo da questa tradizione, non riconosciamo più i principi che ci hanno sempre guidati?».
Nella «bolla di umanità» che si crea dopo la scelta di Todaro risiede l’unica speranza: il capitano inglese che cessa il fuoco in nome della legge del mare, il sommergibile che passa indenne davanti al nemico e per un attimo sospende la guerra. Anche in questo, non c’è nulla di divisivo o almeno non dovrebbe esserci. Così non si capisce l’ossessione per la «narrazione» della maggioranza di destra che è andata al potere. Non si comprende l’ansia di controllare perfino il Centro sperimentale di cinematografia: «Non è che qualcuno deve avere il posto a vita, ma queste sono questioni molto delicate. Tecniche. Devi insegnare ai ragazzi il modo di vedere le cose, non metter lì uno “fedele”. Il cinema è una visione del mondo. Può finire, questo sciopero americano che sta condizionando tutto è una cosa molto seria e molto giusta, perché lo strapotere di colossi come Netflix sta distruggendo gli autori. Dopo il “tutuum” pretende non ci siano nemmeno i titoli di testa. C’è la N, basta quella. Si compra tutto quella. Contro tutto questo serve la conoscenza del cinema di Luchino Visconti, di Antonioni, di uno sceneggiatore come Scarpelli, e che importa di che partito fossero. A chi può mai interessare? A molti di loro, del resto, ha reso le cose più difficili appartenere al Partito Comunista, mica più facili. Nonostante quel che la destra di oggi voglia far credere. Il fatto è che erano maledettamente bravi, i migliori. Proprio come, alla fine della guerra, i migliori di quel tempo furono chiamati a scrivere la nostra Costituzione che ha ripudiato la pena di morte anche per i nemici, anche per i vinti». È rimasto un po’ di veleno, nelle vene più profonde e inconsapevoli del Paese. Ma quel veleno si combatte proprio con «i millenni di civiltà che abbiamo alle spalle». Quelli che hanno insegnato a un uomo che la nipote Jasmin non vuole definire eroe, ma solo «nonno», a salvare. E a salvarsi.