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 2023  agosto 31 Giovedì calendario

La crisi di Pechino

C’era una volta il miracolo della Cina. Un Paese che in trent’anni di “riforme e aperture” si è elevato dalla povertà alla superpotenza economica e in cui il patto sociale tra il Partito comunista e i cittadini era chiaro: non discutete la nostra autorità, avrete la libertà di svegliarvi ogni giorno più ricchi. Quella Cina è finita. Da un lato perché il suo modello di sviluppo – la “fabbrica low cost del mondo” tutta export e infrastrutture – va bene per il primo pezzo di ascesa, fino al reddito medio, ma poi finisce in trappola: gli investimenti diventano sempre meno produttivi, il debito si accumula senza fare da volano. Dall’altro perché il Partito e il suo leader eterno Xi Jinping, di fronte al moltiplicarsi dei rischi, a cominciare dalla sfida di potenza con gli Stati Uniti, hanno invertito le priorità. Ora la sicurezza, rendere la Cina una fortezza inattaccabile e compatta, conta più dello sviluppo. E il patto con i cittadini è cambiato: solo il Partito può condurvi in mezzo ai pericoli preservando ordine e stabilità, ma deve governare su tutto. Costi quel che costi.
Bisogna quindi mettere lenti diverse, politiche, per interpretare la depressione in cui il Dragone si sta avvitando, tra crescita che rallenta, deflazione, disoccupazione giovanile ai massimi, la sfiducia di chi vede il meglio alle spalle. Per capire che questa crisi il regime l’ha fatta venire al pettine consapevolmente, ma anche perché la Cina rischia di rimanerci impantanata. La stretta lanciata sul settore immobiliare, che ha congelato le compravendite e spinto suoi colossi verso l’insolvenza, è una cura dolorosissima, perché un grattacielo vuoto dopo l’altro il mattone era arrivato a valere un terzo della crescita e perché le concessioni dei terreni ai palazzinari erano la prima fonte di entrata per gli enti locali. Ma necessaria, perché quella bolla improduttiva andava sgonfiata. Il problema è che non basta per cambiare davvero paradigma – la crescita di “alta qualità” che lo stesso Xi teorizza. Per la spinta successiva verso il benessere, riconoscono anche molti economisti cinesi, bisogna trasferire risorse dai carrozzoni di Stato alle aziende private. Servono meno industria pesante, più hi-tech e più servizi. Meno investimenti, che valgono un enorme 44% del Pil, e più consumi, che stagnanoal 38%. Bisogna ridurre le diseguaglianze e trasferire ricchezza alle famiglie spendendo in sanità e istruzione, perché l’assenza di un vero sistema di welfare porta i cinesi a risparmiare come nessuno.
Di tutto ciò non c’è traccia, dietro alle vaghe formule sulla “prosperità condivisa”. E la spiegazione, daccapo, è politica: la svolta centralista e autoritaria di Xi, convinto sia l’unica strada per garantire un futuro alla Cina e al Partito – scegliete voi l’ordine –, e che si basa su un controllo capillare su economia e società. Xi vuole il potere di indirizzare le risorse verso i settori strategici per la sfida con gli Usa, a cominciare dai chip, e le aziende private devono allinearsi o saranno costrette a farlo, come dimostra l’assalto all’impero tecnologico di Jack Ma. Cambiare paradigma richiederebbe invece di smantellare la struttura istituzionale, di potere, che negli anni si è cristallizzata attorno a quel modello economico, con effetti poco prevedibili per la stabilità del regime. Le industrie di Stato, giganteschi stipendifici, sono uno dei suoi pilastri, come l’utilizzo delle politiche assistenziali come strumento di controllo. Dietro agli attacchi ideologici contro il “welfarismo” all’occidentale, all’idea che i sussidi non sono adatti ai cinesi perché li spingerebbero a “divanarsi”, c’è la paura che un vero sistema assistenziale darebbe loro maggiore autonomia. Togliendo potere al Partito.
Così ora che l’economia va defibrillata, per scongiurare instabilità sociale, si torna alla vecchia ricetta: più credito e infrastrutture. Nonostante lo spazio per gli stimoli sia sempre più stretto, con un debito oltre il 300% del Pil, e l’efficacia sempre minore. Attenzione: nessun osservatore si aspetta un tracollo, il regime ha le leve per controllare il contagio immobiliare e di riffa o di raffa l’obiettivo di crescita per il 2023, un prudente 5%, potrà essere raggiunto. C’è nella leadership una cultura del pragmatismo che in passato le ha permesso di correggersi e smentire le previsioni più nefaste. L’ipotesi che avanzano molti però, anche perché Xi si è circondato di fedeli “yes man” più che di pragmatici consiglieri, è che la sua Cina già in declino demografico scivoli anche in una lunga era di stagnazione, simile a quella vissuta dal Giappone dagli anni ’90. Con l’aggravante di entrarci mentre è ancora un Paese in via di sviluppo, con un reddito pro capite inferiore a 15mila dollari, cinque volte sotto quello Usa.
Lo scenario pone due domande. La prima: la Cina ha raggiunto il picco di potenza? No. Resta la seconda economia mondiale e i miliardi di investimenti hi-tech, anche se da soli non bastano a garantire la crescita vecchia maniera, la spingeranno nei prossimi anni verso nuove vette industriali e militari. La seconda domanda: come reagirebbero i cittadini a questa involuzione che mette a rischio la promessa di compiuto benessere? Arriveranno a mettere in discussione la legittimità della leadership? La risposta non è facile. Perché quello che Xi sta facendo, mentre sostituisce la narrativa della fortezza accerchiata a quella del sogno cinese, è silenziare i dati negativi, soffocare ogni voce indipendente e alzare il volume della propaganda nazionalista. È un messaggio che fa presa, su un popolo orgoglioso per essersi sollevato e che ancora ricorda la povertà e il disordine. Molti potrebbero aderire: se non per entusiasmo, per mancanza di alternative.