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 2023  agosto 31 Giovedì calendario

Biografia di Alfredo Belli

Nella mia infanzia c’era un rigidissimo tabù: non si poteva parlare di quello che aveva passato la mamma. Nessuna domanda, specie su quel numero 75190 tatuato sul suo braccio sinistro da «uomini cattivi». E bisognava evitare alla mamma una serie di cose: spaventi, buio, film violenti, documentari sulla guerra – specie quelli con le cataste di cadaveri scheletriti – la vicinanza di cani lupo, la vista delle ciminiere, la gente che urla. Anche di quel nonno in fotografia, eternamente giovane a differenza dei nonni decrepiti degli altri, non si doveva domandare.
Custode delle regole del tabù era papà, nato il 31 agosto 1920, che svolgeva il suo ruolo con la durezza che pensava fosse dovuta coi figli maschi. Una durezza che riservava innanzitutto a sé stesso, e che si traduceva in primo luogo nel vietarsi di raccontare della sua stessa prigionia. Si capiva che ne avrebbe voluto parlare e che andava orgoglioso di quel sacrificio scelto che aveva segnato la sua giovinezza, che ne aveva fatto l’uomo che era e che nessuno gli aveva riconosciuto. Ma il motivo del suo tacere non era costituito soltanto dal fatto che se ne avesse parlato avrebbe lambito pericolosamente il confine del tabù che ci aveva imposto. C’era anche una forma di estremo rispetto verso la mamma: l’enormità della tragedia che lei aveva vissuto era talmente incomparabile rispetto alle pur grandi sofferenze che lui aveva sopportato e visto nei lager tedeschi da intimidirlo.
E questa seconda inibizione sopravvisse alla prima, anzi finì per essere acuita dal contenuto estremo della testimonianza di lei. Credo che sia stata soprattutto questa forma di verecondia ad impedirgli per sempre di regalarci un racconto organico delle sue peripezie; racconto che noi, sciaguratamente, con la durezza dei figli maschi mai gli domandammo. Ci restano solo frasi, episodi, battute, sospiri e lo scarno rapporto presentato al distretto militare di Pesaro al suo ritorno.
L’8 settembre arrivò come un uragano nel cielo terso di Atene, dove l’ufficiale ragazzino Alfredo Belli aveva da pochi giorni festeggiato il suo 23° compleanno. La guerra, fin lì, non aveva avuto per lui nulla di cruento e men che meno di eroico. Quel giorno cambiò tutto, con la catena di comando impazzita, le voci più strane che si rincorrevano, il caos. Nei giorni seguenti i tedeschi circondarono in un battibaleno la caserma di Alfredo con reparti in assetto di guerra e intimando la resa immediata. Un intero esercito, salvo pochissimi episodi di eroica resistenza, depose le armi e si consegnò prigioniero all’alleato di ieri. Fu solo l’inizio di una catena di umiliazioni.
Ingannati da false promesse di rimpatrio, i nostri Imi (Internati militari italiani) presero docilmente la via della deportazione. Il gruppo di cui faceva parte il sottotenente Alfredo Belli, dopo un interminabile viaggio verso l’ignoto attraverso i Balcani, il 23 settembre raggiunse il primo lager, Luckenwalde (Stalag III-A), a sud di Berlino. Ne seguiranno per Alfredo altri sei: Deblin Irena, Lathen Oberlangen, Bocholt, Paderborn, Wietzendorf, Soltau. Gli Imi – apostrofati con disprezzo «Badog-l-io» (i tedeschi non pronunciano «gli») – privi della supervisione della Croce Rossa, riservata ai «veri» prigionieri di guerra, furono assoggettati ad un trattamento vendicativo ed ebbero decine di migliaia di morti per maltrattamenti, stenti, malattie non curate, fucilazioni. Anche Alfredo, come tutti, passò quei 19 mesi affamato con razioni alimentari ai limiti della sopravvivenza, esposto al gelo di due inverni nella sua divisa estiva sempre più lacera, tenuto in condizioni igieniche e di promiscuità pietose, senza cure mediche, vittima di prepotenze e vessazioni di ogni tipo, costretto al lavoro coatto.
Più le condizioni si facevano impossibili, i corpi deperivano, le angherie aumentavano e più si facevano serrate le campagne di reclutamento della Repubblica sociale italiana (Rsi). Gli ufficiali repubblichini battevano a tappeto i lager. Chi accettava di entrare nel loro esercito avrebbe ottenuto la fine immediata dell’incubo, il ritorno in patria, cibo, cure, divise pulite, onori, la possibilità di rivedere le famiglie alla prima licenza. Aderirono in pochissimi. Alfredo fu uno dei «600.000 NO» che restarono prigionieri per scelta, facendo sì che la Rsi non riuscisse a dotarsi di forze armate in grado di incidere nel conflitto.
Questo esempio di obiezione di coscienza di massa ha qualcosa di sublime. La generazione di Alfredo non aveva conosciuto altro che il fascismo ed era stata plasmata dal regime, crescendo nel culto della gerarchia e nel disprezzo verso l’individualità. Eppure, il trauma dell’8 settembre e dell’umiliazione collettiva produsse un fenomeno senza precedenti: messi a tu per tu con la propria coscienza, centinaia di migliaia di militari decisero di non credere più, non obbedire più, non combattere più dalla parte dei nazisti.
Quando arrivò la liberazione, Alfredo e i suoi compagni erano allo stremo delle forze. Negli ultimi mesi il Reich prossimo al collasso aveva ridotto ulteriormente le razioni e ogni giorno la situazione si faceva più disperata. Alfredo ormai pesava 40 chili e si svegliava di notte con le mani insanguinate, dopo averle addentate mentre sognava il cibo. Il 17 aprile del 1945 il ritorno alla vita si presentò con le sembianze delle truppe britanniche che avanzavano in quel settore del nord della Germania. I prigionieri, che avevano atteso quel giorno con ogni loro fibra, esplosero in scene di esultanza, abbracci, pianti liberatori. Avrebbero voluto abbracciare anche i loro salvatori e condividere quella gioia così grande, ma li attendeva una nuova umiliazione. Gli inglesi rimasero algidi e distanti, presero a ripetere lo stesso sprezzante «Badog-l-io» (anche loro incapaci di pronunciare «gli») e infine si schierarono dando le spalle agli uomini macilenti che avevano appena liberato, in una sorta di onore delle armi alla rovescia.
Dopo qualche mese, Alfredo e gli altri Imi furono rimpatriati. Il sottotenente Belli aveva salvato la pelle, poteva finalmente riabbracciare i genitori, ricominciare a vivere, riprendere gli studi, lasciarsi alle spalle la tragedia vissuta. Eppure non ci riuscì mai. Come per tutti gli Imi, anche in lui rimase sempre un sentimento di amarezza e di delusione perché tutto quel sacrificio, anziché essere onorato come modello luminoso di Resistenza morale, venne misconosciuto e seppellito per decenni nell’oblio come un capitolo imbarazzante della storia italiana.
Per l’estrema destra erano traditori, per la sinistra non erano abbastanza «partigiani», per tutti evocavano una pagina vergognosa di un libro che per molto tempo nessuno avrebbe più avuto voglia di riaprire. Fu così che quei nostri ragazzi, che erano stati abbandonati dalla patria l’8 settembre del 1943 e che si erano ricostruiti da soli la patria nel proprio universo morale, si sentirono abbandonati per sempre.