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 2023  agosto 31 Giovedì calendario

Il punto sulla Crimea

Il governo americano premeva su Volodymyr Zelensky ormai da diverse settimane per convincerlo a lanciare un segnale di apertura. Era, ed è, urgente, dopo 18 mesi di guerra, sondare le possibilità della pace. Il 27 agosto scorso, il leader ucraino, con un’intervista alla tv nazionale 1+1, ha annunciato la svolta. Vale la pena riportare per intero la sua frase chiave, perché contiene gli elementi fondamentali per ricostruire i fatti e provare a disegnare lo scenario che ci attende.
Sostiene, dunque, Zelensky: «Quando saremo ai confini amministrativi della Crimea, penso che sarà possibile agire politicamente per forzare la smobilitazione militare della Russia e per tentare di avviare il negoziato». Il sottinteso, evidente, è che l’esercito ucraino, nonostante le armi occidentali sempre più sofisticate, abbia poche opportunità di sfondare le difese russe nella penisola e di smantellare la base navale dei nemici a Sebastopoli.
In realtà il Pentagono non ha mai creduto, neanche nei momenti più favorevoli del conflitto, che gli ucraini sarebbero riusciti a riconquistare la Crimea. Il Capo di Stato maggiore, Mark Milley, non ha mai dissimulato il suo scetticismo, non solo nelle riunioni ristrette nello Studio Ovale, ma neanche in diverse conferenze stampa.
I generali americani, però, rovesciano con una domanda la frase di Zelensky, rilanciata ieri dal suo consigliere, Mykhailo Podolyak in un’intervista al Corriere, firmata da Lorenzo Cremonesi: che cosa ne sarà della controffensiva se i soldati di Kiev non riusciranno ad arrivare ai confini amministrativi della Crimea?
Alle preoccupazioni degli strateghi militari Usa, si aggiungono le considerazioni del Segretario di Stato, Antony Blinken, e del Consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan. Fin dall’inizio della guerra i due hanno avvertito Joe Biden: la Crimea rappresenta una linea rossa per Vladimir Putin. Una lingua di terra da difendere a ogni costo e con ogni mezzo, comprese le famigerate armi nucleari tattiche, ordigni atomici con un limitato raggio d’azione, ma con potenziale devastante.
Il presidente americano si è mosso sotto traccia. Ha atteso la maturazione degli eventi. Ancora tra maggio e giugno l’ipotesi di una «soluzione politica» per la Crimea veniva considerata una carta di riserva per non togliere slancio e credibilità alla controffensiva sul campo di battaglia. Ma l’opera di persuasione americana si è fatta più insistente, man mano che le operazioni militari si sono rivelate più complicate del previsto.
L’uscita di Zelensky, probabilmente, non sarà piaciuta a tutto l’establishment politico e militare ucraino. Gli americani sono al lavoro per evitare malintesi e dissapori anche all’interno del blocco alleato, in particolare tra i Paesi più oltranzisti, come Polonia e Baltici che si pongono come obiettivo la distruzione politica (e magari anche fisica) di Putin. Alla Casa Bianca è stata messa in conto una quota di dissenso. Ecco perché la diplomazia Usa non è ancora venuta allo scoperto con una proposta concreta. Attenzione, però: nessuno, né a Washington né nelle altre capitali occidentali, ha intenzione di riconoscere il «referendum farsa», come lo ha definito ancora la settimana scorsa il presidente francese Emmanuel Macron. Mosca ostenta l’esito di quella consultazione, tenuta il 16 marzo del 2014, come la prova che la popolazione voglia far parte della Federazione russa: i «sì» raggiunsero il 97% dei voti con un’affluenza alle urne dell’89%.
Inoltre Biden non vuole farsi inchiodare all’immagine di presidente «debole», «perdente». Il ricordo del catastrofico ritiro dall’Afghanistan non è così lontano (agosto 2021). E quindi la disponibilità a trattare sulla Crimea non va interpretata come una prova di stanchezza o, peggio, di resa al cospetto dell’aggressività putiniana. La Casa Bianca esplora le vie del negoziato, ma non rinuncia al contrattacco: più gli ucraini avanzano, più sarà possibile trattare da una posizione di forza. Il 29 agosto, due giorni dopo l’intervista di Zelensky, il Dipartimento di Stato ha diffuso una nota per comunicare l’invio a Kiev di altre armi, compresi i missili a lunga gittata. Valore: 250 milioni di dollari.
Un altro punto è chiaro. Non ci sarà alcuna trattativa diretta con Putin. Questa prospettiva sarebbe semplicemente irricevibile per gli ucraini, per una buona parte dello schieramento Nato e, visto che negli Usa è già cominciata la campagna elettorale delle presidenziali, anche per una larga fascia dell’opinione pubblica americana.
Tuttavia un percorso alternativo c’è già. È stato tracciato, si spera non sulla sabbia, nel vertice organizzato dal principe saudita Mohammed Bin Salman a Gedda. Qui, il 5 e il 6 agosto, si sono incontrati i rappresentanti di 38 Paesi, compresa la Cina e altri Stati, come India, Brasile e Sudafrica, non ostili alla Russia. Gli Usa erano presenti con una delegazione di alto livello, guidata dal Consigliere Sullivan.
Il principio «sull’inviolabilità dell’integrità territoriale» è stato condiviso coralmente. Ma, nello stesso tempo, quasi tutti si sono riconosciuti nelle previsioni del Pentagono: difficile, molto difficile che gli ucraini possano espugnare la Crimea.
I diplomatici occidentali stanno allora studiando formule più o meno complesse, da discutere poi con i cinesi e gli altri. Un’ipotesi è proprio quella della «demilitarizzazione» indicata dallo stesso Zelensky. Ma c’è anche chi ha tirato fuori un documento che risale al 2010, sottoscritto dall’allora presidente ucraino Viktor Yanukovich (poi cacciato con la rivolta di Maidan nel 2014) e dal numero uno russo dell’epoca, Dmitry Medvedev. È la concessione demaniale che consente alla Marina russa di restare nel porto di Sebastopoli fino al 2042, in cambio di uno sconto consistente sulle forniture di gas. L’idea, quindi, è di tornare a uno status della Crimea precedente al 2014, ma consentendo ai russi di mantenere la base navale, collocata in posizione strategica nel Mar Nero. Sono solo schemi abbozzati. Vedremo presto se ci saranno sviluppi promettenti, magari nella prossima riunione, non ancora fissata, del «gruppo di Gedda».