il Giornale, 30 agosto 2023
Elogio dei giovani poeti
L’asserzione non cede spiragli all’euforia: i libri di Italiano gareggiano – se ha senso l’attitudine atletica in ambito lirico – con quelli di Simon Armitage, attuale «Poet Laureate» del Regno Unito, o con quelli di Durs Grünbein. Autori d’altra generazione, d’altro pedigree, pluripremiati. Leggere per credere. Nello stretto reame peninsulare, non c’è partita. Per capirci. Questo è Franco Arminio: «Sacra la pianta dritta e coraggiosa/ in mezzo ai sassi dei binari»; questo è un brandello da Erevan, di Italiano: «Sgusciare sotto il buio come un essere/ d’ombra e saliva,/ poi guadare la roggia/ più a monte.../ per svegliarti con la luce che filtra/ dalle costole erose di un leviatano» (cito dall’ultimo libro, La grande nevicata, Donzelli, pagg. 84, euro 15). Questa è Alda Merini: «Adesso sono una pioggia spenta/ dopo che l’orma del tuo cammino/ si è fermata ai miei occhi»; questo è Italiano, l’attacco di Vilnius: «Ci sono nuvole, drappeggi e cupole barocche/ e poi ci sono le tue labbra/ perfette come l’ansa del Neris che circonfluisce/ la città in un’arringa inoppugnabile». Questo è Milo De Angelis: «Qui tutto diventa veloce, troppo veloce,/ la strada si allontana, ogni casa sembra una freccia/ che moltiplica porte e scale mobili e allora hai paura»; questo è Italiano, l’attacco di Aurora autunnale: «Livella d’alluminio, l’orizzonte,/ con una biglia bianca al centro/ che lentamente scende.// Dodici corvi sognano/ neri sogni di corvo/ tra i rami spogli di un platano».
La grande poesia è facilmente riconoscibile, s’impone per prepotenza di immagini, per l’arte di spiazzare le attese del lettore, di variare i registri e il repertorio di rime, lo stivaggio del verso; è memorabile quando alterna levità narrativa a densità gnomica. Il gioco pedestre fatto poco sopra, tramite campionatura violenta (poeti canonizzati dal talento o dalla capacità di farsi merce) serve a dimostrare un fatto (Federico Italiano è poeta più bravo di altri, più onorati di lui), a instillare un dubbio (quando la poesia si capisce subito, pio pensiero pittato sulla bianca parete del cuore, è bene andare in sospetto: forse non è poesia) e a ricamare un argine d’ira. In letteratura contano soltanto i testi: perché, allora, gli editori transatlantico continuano a propinarci libri iniqui di autori che vanno in tivù dimostrando la propria sagace vacuità? Perché continuare, che viltà, a trattare i lettori come degli esigui cretini, degli esimi idioti?
Federico Italiano ha esordito vent’anni fa, nel 2003, per le Edizioni Atelier, con un libro, Nella costanza, che della giovinezza conserva il fremito d’oro. Alcune poesie – Potatori di siepi a Hasenbergl, Nascita di una stanza, I custodi della Glittoteca – recano ancora stimmate reali, profetizzano in seme gli altri libri di Italiano, pubblicati con strategica pazienza: L’invasione dei granchi giganti (Marietti, 2010; testo miliare per azzardo e tensione epica), L’impronta (Aragno, 2014), Habitat (Elliot, 2020). Anche in quest’ultimo libro, l’ordinario – Walkie-talkie – si mescola all’esotico – La pesca coi cormorani sul fiume Li -, la memoria privata – La grande nevicata del 1985 – a quella leggendaria – Yeti -, il selvaggio – Un corvo, Il gheppio – all’etica del viaggio e dello spaesamento – Vilnius, Mitteleuropa, Mediterraneo, Equinozio d’autunno a Tangeri, Gerusalemme. Con predatoria sapienza, Federico Italiano passa da liriche romanzesche (Il meteorologo che scrive messaggi dal «Mar di Barents sud-orientale») ad altre, improntate al gioco, al voluttuoso, vertiginoso barocchismo (Passacaglia in verde minore, Blues della cenere). Soltanto un grande poeta – ripeto – può mettere in versi, con nonchalance, La morte di Nikolai Gogol’ («Lo trovarono a faccia in giù, inclinato/ sul fianco, come/ se lo avessero sepolto// vivo...»). Chi ha dimestichezza con la poesia, riconoscerà nell’identikit di Italiano una genealogia che passa per Ted Hughes, Seamus Heaney, Iosif Brodskij.
La verità – contraffatta dagli editori contrabbandieri – è che i poeti italiani degli ultimi due decenni sono assai più dotati dei colleghi romanzieri. La grande nevicata di Italiano, L’amore e tutto il resto di Andrea Temporelli, I destini minori di Isacco Turini, i libri di Francesca Serragnoli (il prossimo mese uscirà un nuovo lavoro per Interno Poesia) abbagliano per magistero, per lignaggio del linguaggio, rispetto alle pappe insipide degli iper promossi Paolo Cognetti, Marco Missiroli, Antonio Scurati, Michela Murgia, per dire. L’ultimo romanzo di Niccolò Ammaniti non possiede l’altezza dell’ultimo libro di Riccardo Ielmini, Una stagione memorabile (Il Ponte del Sale, 2021), eppure, immagino che tutti conoscano Ammaniti e in pochi abbiano letto Ielmini, e mi pare delittuoso, questo, un inganno.
Da tempo, però, sono proprio i poeti a risvegliare dal torpore consumista, dal lassismo dell’immaginazione l’italico romanzo. Quando scrive romanzi, Daniele Mencarelli resta poeta; nel suo primo romanzo, Il mio nome nel vento (Mondadori, 2023), Alessandro Rivali, in fondo, rimodula ossessioni e visioni dei suoi libri in versi (La riviera del sangue, La caduta di Bisanzio, La terra di Caino); da diversi anni – da posizioni e storie diverse se non opposte – Laura Pugno, Flavio Santi e Giuseppe Conte alternano il romanzo alla poesia; Maria Grazia Calandrone nasce poetessa (i libri migliori mi paiono La scimmia randagia, Crocetti, 2003, e Come per mezzo di una briglia ardente, Edizioni Atelier, 2005), ma è arrivata finalista al Premio Strega con un romanzo, Dove mi hai portata (Einaudi, 2022). Io, per me, preferisco l’unico romanzo del poeta Riccardo Ielmini, Storia della mia circoncisione (2019) e i diversi romanzi di Gian Ruggero Manzoni, un lirico allo stato selvaggio: Caneserpente (1993), Il Morbo (2002), Acufeni (2014). Sono un’autentica festa macabra, ma dove leggerli, in un tempo afflitto da sedicenti poeti e da romanzieri irrobustiti da immeritata fama?
Tutto torna, in fondo, nella cripta della tradizione. In Italia, la prosa moderna d’invenzione l’hanno inventata i poeti: Alessandro Manzoni e Giacomo Leopardi. In un «romanzo bellissimo» (lapidaria dida di Tiziano Scarpa) che in pochi hanno letto, Tutte le voci di questo aldilà (Guaraldi, 2015), Andrea Temporelli intima di stare «alla larga dalla poesia, schiccherafogli che non avete mai fatto spreco di voi stessi, che non avete mai vissuto e pensate di riscattarvi con i vostri bisillabici piagnucolii. Non destate i lupi: scenderanno nottetempo a sbranarvi». Come sempre, Temporelli ha il dono di ridurre tutto ai dati primi, privi di fronzoli. Il poeta scrive per disintegrarsi. Quanto al lettore, attrezzi il lazo, le briglie, il morso: deve imparare a cavalcare il lupo. Il resto non è letteratura ma mattatoio – ma cosa dico, melma, piuttosto.