il Giornale, 30 agosto 2023
Paolo Pellegrin in mostra
Paolo Pellegrin ha una corporatura atletica ed è alto un metro e novanta, forse di più. E dicono che guardare le cose da una certa altezza per un fotografo sia un vantaggio. Ti dà una veduta d’insieme e un angolo d’inquadratura migliore.
Il migliore fra i nostri fotoreporter, sguardo alto e silenzi lunghi, pochissime parole, una persona abituata ad attendere e poi a scattare – «to shoot» – solo quando è davvero necessario, Paolo Pellegrin sa bene quale è il compito di un fotografo. Solo di fronte al mondo, attraverso un dettaglio, con un singolo clic, dare forma alle proprie opinioni, al proprio vissuto, alla propria visione. La fotografia è questione di allineamenti, di prospettive, di corrispondenze fra noi e il mondo.
Una vita in giro per tutti i mondi possibili (Uganda, Bosnia, la Striscia di Gaza, Cambogia, Haiti, Namibia, Groenlandia, Australia...), romano che ha scelto Ginevra come base, 59 anni, da giovane un tentativo ad Architettura, ma senza laurea, che è stata la sua fortuna, la scelta della fotografia come vita e come mestiere, dieci anni alla parigina Agence Vu’, poi negli anni Duemila nel gotha de la photographie, la Magnum Photos, quindi i lavori per Newsweek e New York Times magazine, per Time e per il National Geographic, una collezione invidiabile di tutti i premi incorniciabili, tra cui la «Robert Capa Gold Medal» (2006) ma anche undici World Press Photo, e una convinzione: il fotografo non può cambiare le cose ma può raccogliere storie che diventano prove, documenti, testimonianze. Si dice accountability: la prova della responsabilità. «Io scatto una foto e tu puoi impugnarla per dimostrare che quello che dici è vero». Anche oggi che siamo così confusi dai fake, troll farm e foto generate dall’intelligenza artificiale? «Sì, anzi: oggi il fotoreporter è ancora più importante. In un mondo di immagini confuse chi è sul campo ci dà frammenti di realtà, la documentazione di un fatto avvenuto. La fotografia conserva la memoria».
Eccolo l’archivio della memoria di Paolo Pellegrin: è la grande mostra – titolo: L’orizzonte degli eventi – che apre oggi a Venezia, fino al 7 gennaio 2024, dentro il centro espositivo «Le Stanze della Fotografia», sull’Isola di San Giorgio, frutto di un’iniziativa congiunta di Marsilio Arte e della Fondazione Giorgio Cini. Curata da Denis Curti e Annalisa D’Angelo, realizzata in collaborazione con Magnum Photos, è una mostra che dice tutte le parole che Pellegrin per carattere fa fatica a dire. È ricchissima, ti parla, ti fa capire la potenza della fotografia d’azione. Due grandi sale, oltre trecento fotografie che coprono un arco di tempo che va dal 1995 al 2023 (incluso un reportage inedito sull’Ucraina, perché «Ci sono cose che non possono non essere raccontate»), le pareti perimetrali su cui scorrono i due temi principali del suo lavoro – le guerre e i disastri naturali – e le pareti mobili dove invece restano impresse le emozioni segrete, gli sguardi personali, gli scatti più sperimentali. L’allestimento è perfetto.
Grigi, neri, ombre, riflessi, diagonali, luce naturale, la Storia e quella piccola porzione dei fatti che un fotografo è in grado di mostrarci: l’orizzonte degli eventi, appunto. Che è esattamente quel punto in cui il fotoreportage incontra la fotografia d’autore.
Alcune delle opere più interessanti di Paolo Pellegrin in mostra qui a Venezia.
Il gruppo di una trentina di fotografie sulla battaglia di Mosul (2016), la campagna militare lanciata dalle forze irachene e dalla coalizione internazionale guidata dagli americani per liberare la città dallo Stato Islamico: sono disposte come un polittico, appese una accanto, sopra e sotto l’altra, su una lunghissima parete rivestita da un wallpaper ricavato da uno scatto della stessa serie, una panoramica del paesaggio di guerra dell’Irak, come un moderno Guernica fotografico dove ogni foto aumenta il caos dell’insieme e l’intero racconto moltiplica la forza di ogni singola immagine.
Il quadrato, cinque per quattro, che incornicia venti piccole foto di donne nigeriane – come piccole icone votive – sopravvissute alle violenze e gli stupri dei miliziani delle bande jihadiste di Boko Haram: Paolo Pellegrin le ha incontrate nel 2017, con la promessa di non rendere riconoscibili i loro volti, in una struttura di Maiduguri, durante una seduta di supporto psicologico post-traumatico. I visi non si vedono, l’orrore che hanno negli occhi sì. «Entrare nei momenti di sofferenza, per un fotografo, è avere il privilegio di essere ammesso in uno spazio sacro. Il prezzo è la responsabilità di farne buon uso».
L’inquietante poster costituito da 468 piccole immagini di videosorveglianza scattate a Milwaukee, Wisconsin, nel 2014: persone spiate mentre camminano, entrano nei negozi, salgono in auto. La riflessione: la sorveglianza con il riconoscimento facciale viene utilizzata ormai a livello globale dalle forze di polizia e da aziende private come sistema di identificazione anticrimine. La domanda: fino a quale punto si possono valicare i confini del diritto alla privacy?
Il combo di fotografie con i bossoli russi raccolti come prova per l’ufficio del procuratore di Kharkiv, in Ucraina. A proposito di «prova della responsabilità» e di cosa voglia dire per un fotografo esporsi con il corpo, con lo sguardo ma anche con il pensiero.
E poi la sua personalissima foto-cronaca del lockdown imposto dall’emergenza Covid. Quando scoppia la pandemia e i governi cominciano chiudere uffici, scuole e negozi, Paolo Pellegrin si trova in Australia per un progetto fotografico sulle conseguenze degli incendi che in quel momento stanno devastando il Paese. Lì però intuisce che la diffusione del virus, i morti, la paura e l’isolamento imposto dalle autorità costituiscono un fenomeno non controllabile, qualcosa di unico. Così interrompe il suo viaggio, torna in Svizzera, dove vive la famiglia, e dopo un’intera carriera vissuta fra ritmi velocissimi, conflitti e movimenti di massa, si ritrova a fotografare la lentezza, l’immobilità e il silenzio. Mai un momento così epocale è stato per lui così personale.
L’ultima fotografia della mostra, sulla parete che scivola verso l’uscita, è quella di Emma, sua figlia, che corre in un campo davanti a una fattoria, a Château-d’Oex, Canton Vaud, Svizzera. È di spalle. Ma Paolo Pellegrin – a conferma che la fotografia oltre che documento sa essere anche speranza – è sicuro che ridesse.